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Atti di alienazione della quota nella comunione ereditaria

e la natura giuridica dell’atto di divisione: sviluppi giurisprudenziali
papaveri e paperi
Ph. Erika Pucci / papaveri e paperi

Introduzione

L’istituto della comunione ereditaria rappresenta una tematica classica del diritto civile dai plurimi profili interdisciplinari con altri istituti dell’ordinamento.

Più nel dettaglio, di recente la giurisprudenza civilistica si è soffermata sul tema della disciplina dell’atto di alienazione della quota ereditaria e sulle sorti dell’atto di divisione dei coeredi avente ad oggetto un bene immobile non corredato gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria.

Tali problematiche necessitato di essere analizzate alla luce dei principi generali del diritto civile valorizzandone i tratti disciplinatori, la ratio e la natura giuridica degli istituti in questione.

La comunione ereditaria viene definita quale situazione giuridica di contitolarità ontologicamente temporanea che nasce in via incidentale, ovvero dalla volontà della legge, nel caso in cui il de cuius istituisca una pluralità di eredi per quote ideali.

L’istituto in questione rappresenta una species della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 e ss. c.c. in ragione della diversità dei valori protetti, della disciplina e del rinvio mobile alle regole generali in tema di comunione solo in caso di compatibilità. In primo luogo, preme sottolineare che il Libro II Titolo IV non fornisce una disciplina esaustiva del regime della comunione ereditaria limitandosi a regolare il fenomeno divisorio, gli atti di alienazione e gli obblighi, i diritti e gli oneri degli eredi. Sicché le differenze fra l’istituto in questione e la comunione ordinaria si possono evincere da una lettura omnicomprensiva delle norme in tema di successione; innanzitutto, la comunione ereditaria rappresenta un fenomeno ontologicamente transitorio in quanto i beni del de cuius dovranno essere assegnati ai singoli eredi al fine di assicurare una continuità nella titolarità nei rapporti giuridici alla luce dell’art. 757 c.c.

Il regime della comunione ereditaria si instaura esclusivamente per volontà della legge nel caso in cui il de cuius istituisca più eredi per quote ideali aventi ad oggetto una pluralità di beni mobili, immobili, immobili registrati e anche diritti di credito.

Viceversa, la comunione ordinaria può avere anche natura perpetua in ragione dell’indivisibilità del vincolo stabilito ex lege nel caso delle parti comuni del condominio ex artt. 1117 ss. c.c. o in base alla natura del bene che, se diviso, perderebbe la funzione ad esso attribuita.  Inoltre, l’istituto in esame può nascere non solo ex lege ma anche per la volontà delle parti o per l’intervento del giudice.

Preme sottolineare che l’art. 1100 c.c. stabilisce espressamente che oggetto di comunione ordinaria possono essere solo la proprietà o altro diritto reale il che evidenzia come l’oggetto di tale istituto sia più ristretto rispetto alla comunione ereditaria che ricomprende anche i rapporti obbligatori attivi e passivi.

 

La natura giuridica della quota ereditaria e i riflessi sugli atti di disposizione

I tratti differenziali sopra esposti evidenziano la diversa natura giuridica della comunione ereditaria rispetto al regime ordinario che, pur condividendo con essa il tratto di proprietà peculiare limitata nell’attribuzione del diritto e nel godimento parametrata alla quota, possiede una natura temporanea in ossequio del principio della certezza del diritto, dell’affidamento dei terzi e della continuità della titolarità dei diritti.

Tuttavia, in ordine alla tematica in esame, si è assistito ad un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ha visto contrapporsi la teoria unitaria e la tesi atomistica della comunione ereditaria.

Secondo la prima impostazione, la coeredità altro non sarebbe che un insieme di situazioni giuridiche costitutive della comunione in senso universale secondo cui il rapporto tra coeredi e beni è mediato dalla quota sull’intero asse c.d. quotona. Di conseguenza non sarebbe possibile individuare le singole quote dei coeredi su ciascun bene c.d. quotina se non dopo la divisione.

Inoltre, l’impostazione in questione evidenzia come la disciplina della comunione ereditaria, connotata dall’universalità, sarebbe differente rispetto alla comunione ordinaria che da rilevanza atomistica\individuale alla singola quota del comproprietario.

Dal punto di vista pratico, un eventuale atto di disposizione della c.d. quotina non avrebbe efficacia reale immediata ma obbligatoria poiché il trasferimento sarebbe condizionato dall’attribuzione del bene a seguito dell’esito della divisione ereditaria.

In senso critico si è posta parte della giurisprudenza e della dottrina che hanno aderito ad una concezione atomistica secondo cui la comunione ereditaria rappresenterebbe una somma della contitolarità pro quota delle singole situazioni giuridiche in base ad una lettura letterale ed analogica dell’art. 1100 c.c. Difatti, il rapporto di genus a species fra i due regimi di comunione ne evidenzierebbe la medesima natura giuridica e, quindi, anche l’applicazione degli artt. 1100 ss. c.c. in via analogica, norme che attribuiscono diritti e facoltà al comunista anche sui singoli beni e non esclusivamente sull’intero. Alla luce di tali considerazioni sarebbe possibile non solo alienare la quota ideale sull’intero ma anche la quota sul singolo cespite con efficacia reale immediata.

 

L’intervento delle Sezioni Unite del 2016

Il contrasto ha portato, nel 2016, le Sezioni Unite della Cassazione Civile ad intervenire sul tema, le quali hanno aderito alla concezione unitaria della comunione ereditaria soffermandosi, in particolare, sulla sorte dell’atto di donazione di un cespite immobiliare ancora non attribuito.

Il Collegio prende le mosse dalla ricostruzione del contrasto interpretativo fra la teoria unitaria\germanica ed atomistica\romanistica evidenziandone le argomentazioni interpretative e le ricadute pratiche delle tesi in questione. Successivamente, è stato sottolineato come non fosse possibile aderire all’impostazione romanistica in base ad una interpretazione letterale e teleologica data la diversa natura giuridica tra la comunione ereditaria e ordinaria. Infatti, la peculiarità della comunione ereditaria si evince dalla sua ontologica natura universale intesa come sovrastruttura ideale tra coeredi e singoli beni che viene mediata dalla c.d. quotona quale diritto alla quota sull’intero asse. Questa può, senza ostacoli di sorta, essere donata con efficacia reale immediata ad un terzo, il quale succederebbe al posto del coerede alienante con i poteri, diritti e facoltà di quest’ultimo.

Viceversa, non sarebbe possibile donare con immediata efficacia reale la c.d. quotina, intesa come quota del singolo cespite ereditario, in quanto la proprietà di quel bene potrebbe non essere attribuita al donante all’esito divisionale. Di conseguenza sarebbe ammissibile una donazione sottoposta alla condizione dell’attribuzione del bene all’esito divisionale o, tuttalpiù, una donazione obbligatoria di bene altrui solo se le parti, con apposita clausola contrattuale, siano a conoscenza dell’altruità della cosa. In tutti gli altri casi la donazione sarebbe nulla, non per la violazione dell’art. 771 c.c. in tema di donazione di beni futuri, ma per illiceità della causa ex art. 1418 c.2 c.c. in quanto non sorretta da spirito di liberalità.

Alla luce delle considerazioni espresse dalle Sezioni Unite è possibile analizzare l’efficacia e la validità degli atti di alienazioni posti in essere dal coerede; nel caso in cui venga alienata la c.d. quotona, l’atto avrebbe efficacia reale immediata solo se venga rispettata la causa di prelazione reale espressa dall’art. 732 c.c. ovvero il c.d. retratto successorio. Infatti, il disposto in questione stabilisce che se il coerede vuole alienare la propria quota ad un terzo deve prima notificare la proposta, indicandone il prezzo e gli altri elementi essenziali del negozio, agli altri coeredi i quali hanno un diritto di prelazione. Nel caso in cui tale procedimento non venga rispettato questi hanno il diritto di riscatto verso l’acquirente o ogni altro successivo avente causa.

A differenti conseguenze pratiche si perviene nei casi di alienazione della c.d. quotina in base alle clausole contenute nel singolo negozio di riferimento e all’effetto che vogliono produrre le parti.

Nel caso in cui il contratto fosse sottoposto alla condizione dell’attribuzione del bene all’esito della divisione, il negozio sarebbe valido e produrrebbe effetti reali solo al suo avveramento.

Le parti potrebbero stipulare un contratto di vendita di bene totalmente altrui ex art. 1478 c.c. secondo cui se, al momento della conclusione del contratto, il cespite venduto non era di proprietà del venditore, questi deve fare il possibile per procurarne l’acquisto ex art. 1476 nr. 2 c.c. Tale atto sarebbe valido ed a efficacia obbligatoria, e segnatamente un’obbligazione di mezzi, in quanto l’alienante deve procurare l’acquisto in base al canone della diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1176 c.c. Preme sottolineare che l’atto in questione rientra nell’alveo dell’art. 1478 c.c.  e non dell’art. 1480 c.c. in quanto, al momento della stipulazione, l’alienante non ha un diritto sul bene non sapendo se questi gli sarà attribuito anche solo parzialmente.

Viceversa, nel caso in cui venga stipulato un classico negozio di compravendita nel quale non si evinca la conoscenza dell’altruità della res, tale contratto sarà nullo per l’assenza di accordo fra le parti ex artt. 1418 c .2, 1325 c.1 nr. 1 c.c.

 

La disciplina e la natura giuridica dell’atto di divisione dell’eredità

Come poc'anzi accennato, le norme in tema di comunione ereditaria regolano principalmente la divisione ereditaria; l’istituto in esame rappresenta l’ultimo atto del procedimento della comunione ereditaria volto all’attribuzione esatta dei beni presenti all’interno della comunione con non secondari effetti pratici. In primo luogo, preme sottolineare che ogni coerede ha il diritto potestativo di domandare la divisione ex art. 713 c.c. salvo che vi siano delle cause di impedimento riferibili alla volontà del testatore, del giudice, della legge o degli eredi ex art. 713 ss. c.c. In questi casi, il fenomeno estintivo della comunione viene postergato ad un momento successivo in ragione di interessi di natura prevalente.

Va evidenziato che il procedimento divisorio presuppone che il testatore abbia istituito una pluralità di eredi per quote ideali, ovvero deve sussistere la comunione ereditaria, non trovando quindi applicazione nel caso di apporzionamento effettuato dal testatore o per il legato in cui il beneficiario succede a titolo particolare e non universale come accade per l’erede.

L’atto di divisione ereditaria può trovare la sua fonte: nel testamento nel caso in cui sia il de cuius a dividere i suoi beni, comprendendo anche la parte non disponibile, tra gli eredi ex artt. 733, 734 c.c.; in un accordo di autonomia privata fra tutti i coeredi; in una pronuncia giudiziale quando le parti non riescono a giungere ad un accordo.

Il vero punctum dolens sul quale a lungo si sono confrontate la dottrina e la giurisprudenza è costituito dalla natura giuridica inter vivos o mortis causa dell’atto di divisione ereditaria. Il problema in questione riveste un'indubbia rilevanza non solo dal punto di vista teorico ma anche pratico coinvolgendo l’istituto della nullità atipica tipizzata dall’art. 46 del D.P.R. 380/2001 in tema di edilizia. La norma in questione sancisce la nullità di tutti quegli atti tra vivi, in forma pubblica o privata, aventi ad oggetto diritti reali relativi agli edifici, ed alle loro parti, in rapporto ai quali manchino gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Di conseguenza se la comunione ereditaria fosse un atto inter vivos troverebbe applicazione l’art. 46 del D.P.R. 380/2001 e ciò comporterebbe la nullità dell’atto divisionale in rapporto al bene immobile non supportato dal permesso rilasciato dalla P.A. competente.

In ordine alla natura della comunione ereditaria si sono contrapposte due differenti teorie; secondo una prima tesi nettamente prevalente, l’atto divisorio avrebbe natura mortis causa con efficacia dichiarativa in base ad una interpretazione letterale e sistematica. In primo luogo, è stato sottolineato come la divisione ereditaria rappresenti l’atto terminale della vicenda successoria che trova la sua origine dal momento dell’accettazione dell’eredità. In particolare, dal disposto di cui all’art. 757 c.c. si evince l’efficacia retroattiva della divisione in quanto ogni coerede viene considerato solo ed immediato successore in rapporto a tutti i beni componenti la sua quota o a questi pervenuti dalla successione. Inoltre, l’erede si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri cespiti e beni ereditari. La norma in questione rappresenta una fictio iuris di origine romanistica che assicura il pieno rispetto del principio di certezza dei traffici giuridici e della continuità della titolarità dei beni appartenenti al de cuius. Secondo tale l’impostazione ermeneutica l’art. 757 c.c. avrebbe oltretutto carattere di norma imperativa ed inderogabile in quanto predisposta ad assicurare gli anzidetti principi generali.

 Ancora è stato opportunamente sottolineato come l’inscindibile legame che lega la nascita della vicenda successoria alla divisione ne evidenzierebbe la natura di atto mortis causa.

Ad onor del vero si precisa che, se si aderisse alla tesi di atto inter vivos, si generebbe una discriminazione disciplinare fra norme che hanno una natura omogenea ovvero l’art. 757 c.c. e gli artt. 734, 735 c.c. Difatti, è pacifico che quando la divisione viene effettuata dal testatore o questi ne stabilisca le regole saremmo dinnanzi ad un’ipotesi di atto evidentemente mortis causa.

In definitiva, la tesi in questione nega l’applicazione della nullità atipica espressa dall’art. 46 del D.P.R. 380/2001 con la conseguente validità ed efficacia dell’atto divisionale di bene immobile non munito del permesso edilizio.

In senso critico si pone l’orientamento giurisprudenziale minoritario che configura l’atto di divisione come inter vivos in ragione di un’interpretazione sistematica ed analogica con la disciplina della comunione ordinaria. Invero, il rapporto di genus a species che intercorre fra la comunione ordinaria ed ereditaria ne evidenzia la rilevanza primaria della volontà delle parti ovvero dei coeredi e non tanto quella del testatore. Tale argomentazione viene inoltre supportata dal fatto che il negozio divisionale non trova la sua causa nella volontà del testatore come accade nelle ipotesi previste dagli artt. 734, 735 c.c.

 

La decisone delle Sezioni Unite del 2019: l’atto di divisione ha natura di negozio inter vivos

Il sopra esposto contrasto è stato risolto, nel 2019, dalle Sezioni Unite della Cassazione con una sentenza che costituisce una pietra miliare del diritto successorio in quanto scardina la granitica impostazione che concepiva la divisione testamentaria quale atto mortis causa. Secondo il Collegio l’atto di divisione sarebbe inter vivos, costitutivo e traslativo in ragione di un’interpretazione sistematica, analogica coerente con l’intero sistema giuridico.

Le Sezioni Unite prendono le mosse dalla ricostruzione del contrasto interpretativo evidenziando la fallacia dell’impostazione prevalente\mortis causa sulla scorta di un parallelismo fra la disciplina della comunione ordinaria ed ereditaria. In primo luogo, veniva precisato che fra queste sussiste un rapporto di genus a species che comporterebbe l’applicabilità delle norme della comunione ordinaria in caso di compatibilità e in assenza di deroghe espresse. Sicché, dato che la comunione ordinaria è pacificamente un atto inter vivos che trova la causa nella volontà esclusiva delle parti, tale considerazione, deve valere anche per l’atto di divisione in seno al procedimento successorio.

Invero, non regge nemmeno l’argomento discriminatorio fra la disciplina degli artt. 733, 734, 757 c.c. in quanto, le prime due norme sono delle ipotesi radicalmente eterogenee poiché trovano la propria causa nella volontà del testatore che, nel testamento, disciplina puntualmente la divisione o ne enuncia le regole divisionali. Viceversa, nell’art. 757 c.c. non rileva affatto la volontà del de cuius in quanto il procedimento di divisione è concordato fra i coeredi che hanno accettato l’eredità.

Difatti, il termine “mortis causa” ricollega la causa e gli effetti del negozio all’evento morte come avviene per i patti successori ex art. 458 c.c., per i legati ex art. 649 ss. c.c., e per la divisione effettuata dal testatore ex artt. 733, 734 c.c.

Ancora, viene rilevato come la procedura di divisione trova “l’occasione” della sua applicazione ma rappresenta una vicenda autonoma rispetto all’intero procedimento successorio; inoltre, non è vero che sia una vicenda totalmente retroattiva\dichiarativa in quanto lo è solo per la parte dell’apporzionamento ex art. 757 c.c. e non anche per i frutti e le spese che si siano prodotti nel regime della comunione.

Le Sezioni Unite pongono ulteriormente l’accento sulla natura costitutiva della divisione alla luce dei principi generali del sistema civilistico rilevando che all’effetto costitutivo deve corrispondere un’efficacia retroattiva degli effetti come accade nei casi di azione di annullamento. L’efficacia dichiarativa, invece, non comporta la retroattività in quanto gli effetti non si sono mai prodotti giuridicamente analogicamente con quanto accade in caso dell’esperimento dell’azione di nullità.

Di conseguenza, la tesi maggioritaria che aderisce ad un’impostazione dichiarativa-retroattiva mal si concilia con i principi generali dell’ordinamento civilistico.

Quindi, per le ragioni sopra esposte, il Collegio aderisce all’orientamento minoritario che configura la divisione quale atto inter vivos con la conseguente applicazione della speciale ipotesi di nullità edilizia contemplata dall’art. 46 del D.P.R. 380/2001 nel caso in cui manchi il permesso costruire o del permesso in sanatoria.

In conclusione, i temi della natura giuridica della comunione ereditaria e dell’atto di divisione sono stato al centro di vivaci dibattiti dottrinali e giurisprudenziali suffraganti in ricostruzioni del tutto innovative che costituiscono delle importanti pietre miliari del diritto civile moderno. Tali costrutti argomentativi sono degli indici sintomatici dell’evoluzione della società e della permeabilità dei settori del diritto che necessitano di un costante dialogo al fine di assicurare la coerenza e la logicità dell’ordinamento alla luce dei preminenti principi della certezza del diritto, di non contraddizione e dell’affidamento dei terzi.