Il passaggio generazionale delle collezioni di opere d’arte (seconda parte)
Abstract
Numerosi sono gli strumenti giuridici, sia inter vivos, sia mortis causa, che un collezionista può utilizzare per gestire il passaggio generazionale della propria raccolta. Ognuno di essi, nondimeno, dovrà tenere conto di importanti norme imperative di diritto successorio, come, anzitutto, quelle che riservano diritti ai legittimari, e come il divieto di patti successori. Specifici problemi, anche dal punto di vista successorio, possono sorgere, poi, qualora la collezione rilevi anche come bene culturale, oggetto di vincoli, attuali o anche solo potenziali, da parte della P.A.
- (segue) Il trust
- (segue) La società. Cenni
- (segue) Il, c.d., family art charter
1. (segue) Il trust
Uno strumento pure utilizzato per organizzare il passaggio generazionale, anche di collezioni di opere d’arte, è il trust. Come è ben noto, il trust non è un istituto di diritto domestico e, pur essendo consentito e riconosciuto nel nostro ordinamento, ha origine anglosassone, e viene costituito applicando regole di uno tra i molti ordinamenti stranieri che, variamente, lo disciplinano. Proprio la molteplicità degli ordinamenti che prevedono una disciplina per la costituzione del trust e la differenza di regole da ordinamento a ordinamento non consentono ora, se non una definizione generalissima e di massima della figura, che potrà mutare, e di molto, a seconda della legge scelta dal disponente per porre in essere l’istituto. Volendo delineare un minimo comune denominatore per i trusts destinati ad avere efficacia anche nell’ordinamento interno, conviene basarsi sulla L. 364 del 1989, con la quale il nostro paese ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, sulla legge applicabile ai trusts.
In particolare, dall’art. 2 della L. 364/1989, si ricava che, con il trust, un disponente (settlor), con atto tra vivi o anche a causa di morte, trasferisce la proprietà di beni sotto il controllo di un fiduciario (trustee), per un fine specifico e nell’interesse di uno o più beneficiari.
Inoltre, il disponente può anche stabilire che vi sia un guardiano (protector) con il compito di controllare che il fiduciario rispetti le finalità del trust. Ripetuto che questi caratteri minimi sono identificativi del trust solo in generale, e non senza eccezioni, e che la figura si connota anche per la duttilità e la varietà di conformazioni che può assumere, si può anche ricordare come, di solito, al trust si leghino vantaggi quali: la segregazione degli assetti trasferiti rispetto al patrimonio del disponente (non si dimentichi, peraltro, che anche l’atto costitutivo del trust può essere oggetto di azione revocatoria da parte dei creditori del disponente); la non definitività della perdita della proprietà di quanto trasferito (di norma, infatti, dopo un periodo di tempo che può essere indicato già nell’atto istitutivo, la proprietà tornerà al disponente, o ai suoi successori, o anche passerà ad altri soggetti); la libertà con cui può essere indicato il fine del trust, tale da consentire anche un lucro soggettivo; infine, appunto la flessibilità e adattabilità. Svantaggi del trust, soprattutto se confrontato con la fondazione, viceversa, possono essere: la non definitività dell’assetto determinato con esso (poiché, appunto, di norma il trasferimento di proprietà non è definitivo); l’assenza di controlli sull’attività del fiduciario, se non quelli stabiliti, privatisticamente, dallo stesso disponente; l’assenza di vantaggi fiscali. Venendo, poi, ad alcune considerazioni di diritto successorio, il trust incontra, grosso modo, le medesime difficoltà e i medesimi problemi che si generano con la costituzione di una fondazione. Il trust costituito inter vivos, infatti, è «liberale tra vivi…» se «…produce effetti, sul piano beneficiario, dopo la morte del disponente», ed è da qualificarsi «in termini di donazione indiretta, riconducibile nell'ambito della categoria…di cui all’art. 809 c.c.» (le citazioni testuali sono da C., s.u., 18831/2019).
Dunque, quel trust posto in essere per gestire il passaggio generazionale, anche di una collezione di opere d’arte, ricadrà nel novero delle donazioni indirette, con la conseguenza, sia di rilevare per la riunione fittizia, ex art. 556 c.c., sia di essere esposto alla riduzione, ex art. 555 c.c.
(inoltre, anche l’oggetto del trust, se donatari indiretti siano dei legittimari, è oggetto dell’imputazione ex se, e può venire riguardato dalla collazione), e, quindi, con la conseguenza di porre in essere un assetto instabile. Come per la donazione contrattuale e per la fondazione, ove la destinazione della raccolta di opere d’arte eccedesse per valore la quota disponibile, l’assetto preconizzato attraverso il trust potrebbe cadere, e la collezione essere richiamata nella massa ereditaria, così da rischiare lo smembramento, quale possibile conseguenza della, inevitabile, divisione ereditaria.
3. (segue) La società. Cenni
Non di rado, il passaggio generazionale viene organizzato attraverso la costituzione di una società, alla quale vengono poi conferiti i cespiti che si vogliono trasmettere, sicché oggetto diretto del passaggio saranno non i cespiti stessi, ma le quote della società che di essi è divenuta titolare.
Questo schema, naturalmente, può essere adottato anche per la trasmissione di collezioni di opere d’arte. Non voglio fare ora più che alcuni cenni a codeste configurazioni, anche perché molte questioni e soluzioni mutano, a seconda del tipo di società che venga scelto per gestire il passaggio.
In termini assai generali, peraltro, si può sottolineare come, attraverso la costituzione della società, il problema del passaggio generazionale, e della connessa tutela dei successori necessari, soltanto si sposti dai cespiti conferiti in società alle quote della società stessa.
Ove il cespite di valore della società sia proprio la collezione di opere d’arte, infatti, alla morte del collezionista dovrà essere gestito il passaggio della quota di questi, la quale sarà, con ogni probabilità, la quota di gran lunga di maggior valore (sempre che al momento della costituzione della società non siano stati posti in essere dei meccanismi simulatori). E tale quota potrà passare, con stabilità, a coloro i quali il collezionista abbia scelto come destinatari della collezione, solo se il valore di essa rientri nella quota disponibile. Altrimenti, eventuali legittimari che non avessero avuto quanto loro riservato dalla legge, potrebbero, anche in questo caso, porre in crisi il passaggio ipotizzato dal collezionista.
Ove la società avesse anche lo scopo di gestire imprenditorialmente la collezione, nondimeno, ad evitare le incertezze e l’instabilità a cui il passaggio rischia di restare esposto, in conseguenza di riunione fittizia, riduzione, e anche collazione, potrebbe essere utile il patto di famiglia, di cui agli artt. 768-bis ss. c.c.
(introdotti nel codice civile dalla L. 55 del 2006). Le quote della società proprietaria della collezione, infatti, potrebbero essere trasferite, dal collezionista che ne è titolare, a uno o più discendenti da lui scelti, liquidando diversamente gli altri legittimari esistenti (che dovranno intervenire al patto), o ottenendo da loro la rinunzia, come previsto all’art. 768-quater c.c. Come è noto, il trasferimento posto in essere con il patto di famiglia, non può essere attaccato dai legittimari non destinatari delle quote con l’azione di riduzione, né è esposto alla collazione. Esso, perciò, potrebbe consentire quella stabilità che non sarebbe assicurata da nessuno degli strumenti ricordati nei paragrafi precedenti, e, così, rassicurare il collezionista sulla protezione dell’unitarietà della collezione dai rischi di smembramento discendenti dalle regole di diritto successorio. Restano, peraltro, i numerosi dubbi legati al patto di famiglia in sé e per sé, come, ad esempio, quello sulla necessità che i conguagli agli altri legittimari che non rinunzino, provengano necessariamente dai beneficiari del patto, e non possano pur essi provenire dal disponente, o come quello sull’ipotizzata nullità di un patto a cui uno o più legittimari non partecipino. Dubbi, peraltro, a cui non si può fare più che un cenno in questa sed
2. (segue) Il, c.d., family art charter
Figura anch’essa di derivazione anglosassone è il, c.d., family art charter, indicato da noi anche come “carta dei valori” di una collezione. Premesso che, pure in questo caso, si è in presenza di una figura atipica, che può essere variamente configurata, e che, quindi, mal si presta a una precisa definizione, può osservarsi come, per lo più,
questi siano contratti normativi, a effetti meramente obbligatori, tra il collezionista e i suoi familiari, che hanno il fine di conservare, proteggere, gestire, valorizzare e magari incrementare la collezione, e di coinvolgere sempre più nell’amministrazione di essa coloro che ne diventeranno poi anche i titolari.
Tali contratti, in questo quadro, potrebbero venire anche immaginati come strumenti per regolare il passaggio generazionale della collezione. In particolare, nel family art charter si potrebbero prevedere, ad esempio: modalità di soluzione di futuri conflitti tra familiari, riguardanti la collezione; regole sulla ripartizione dei costi della collezione tra i familiari; regole sugli effetti dello scioglimento del contratto, tali da evitare rischi di disgregazione per la collezione (ad es., prevedendo la costituzione di una fondazione, a cui essa debba poi passare); diritti di prelazione o clausole di gradimento; obblighi di non fare, come di non smembrare e non spostare la collezione, o anche di non alienare; regole che obblighino a futuri assetti proprietari con strumenti, sia inter vivos, sia mortis causa. Con riguardo a questi due ultimi possibili contenuti, peraltro, si deve ricordare, per quanto riguarda gli obblighi di non fare, i limiti che l’art. 1379 c.c. pone ai divieti di alienazione, e, forse, anche a tutti gli obblighi di non fare che rendano di fatto una collezione praticamente inalienabile, per quanto riguarda gli effetti obbligatori a futuri assetti proprietari, come questi vadano ben misurati, nel rispetto sia del divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c., sia all’inammissibilità, ribadita in giurisprudenza (ad es., C. 6080/2020), dell’impegno preliminare a donare.
Può essere interessante rammentare, da ultimo, il caso deciso con C. 14110/2021, che, pur non configurando una vera propria ipotesi di family art charter, si è comunque incentrato su un accordo tra genitore e figli, avente ad oggetto anche una collezione di opere d’arte. Nel caso in parola, i figli si erano contrattualmente impegnati a corrispondere al genitore una cospicua rendita, a fronte dell’impegno di questi a: cercare di aumentare il valore della propria collezione di opere d’arte; in ogni caso, non impoverirla; non spossessarsene; custodirla in luogo sicuro, noto anche ai figli e accessibile solo congiuntamente dai contraenti. Di fronte all’inadempimento di alcuni di tali obblighi da parte del genitore, e del correlato mancato pagamento della rendita da parte dei figli, e nata la lite poi decisa dalla Cassazione, e, in essa, si è anche prospettata la configurabilità dell’accordo in parola come patto successorio istitutivo (perciò colpito da nullità).
Tale configurazione, nondimeno, non è stata accolta dalla Suprema Corte, che ha escluso la natura di patto successorio, e conseguentemente la nullità, dell’accordo in parola, poiché non si è ritenuto che «…la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione» (C. 14110/2021).