I rimedi alla violazione del divieto di bis in idem nel doppio binario sanzionatorio

Red is the color
Ph. Luca Martini / Red is the color

Abstract

Il presente contributo analizza l’evoluzione del diritto amministrativo italiano alla luce della CEDU prestando, altresì, particolare attenzione al concetto di “pena”. Invero, proprio il c.d. diritto amministrativo punitivo ha suscitato l’attenzione della dottrina e giurisprudenza italiana soprattutto in ordine alla concreta definizione di “ne bis in idem” e degli strumenti per evitare il contrasto fra giudicati.

 

Introduzione

Negli ultimi decenni si è assistito ad un radicale mutamento dei paradigmi classici del diritto amministrativo in ragione di una più pregnante tutela del cittadino nei confronti del cattivo esercizio del potere amministrativo. Difatti, grazie agli interventi della Corte Edu vennero estesi i principi del diritto penale alla branca del c.d. diritto amministrativo punitivo. Proprio i canoni della legalità sostanziale, del fair trial, della prevedibilità e proporzionalità della sanzione hanno condotto ad una profonda riflessione del “doppio binario sanzionatorio” amministrativo e penale presente nel nostro ordinamento.

Al fine di meglio comprendere il funzionamento del c.d. doppio binario e dei rimedi esperibili in caso di violazione, è necessario analizzare l’evoluzione giurisprudenziale e normativa delle sanzioni amministrative punitive delineandone, inoltre, i tratti sostanziali.

 

Il rinnovato concetto di pena alla luce della sentenza Engel

Prima degli anni Settanta nel nostro ordinamento interno non era presente la branca del diritto amministrativo punitivo in ragione di un’interpretazione restrittiva del concetto di pena; invero, questa derivava esclusivamente dalla condanna in sede penale per la commissione di un fatto previsto quale reato. Tuttavia, in materia di reati tributari e di illeciti in materia bancaria regolati dal T.U.B. seguiva, oltre all’istaurazione del processo penale, anche un processo amministrativo finalizzato all’erogazione di ingenti sanzioni amministrative dal carattere accessorio.

In ragione di ciò la miglior dottrina sottolineava l’inammissibilità di un sistema così costruito poiché veniva evidenziato come il legislatore avesse proceduto ad una “truffa delle etichette” contemplando sanzioni formalmente amministrative ma dal carattere sostanzialmente punitivo.

La questione, difatti, si mostrò particolarmente rilevante anche al livello europeo tale da richiedere l’intervento della Corte Edu con la famosa sentenza Engel del 1976 nella quale vennero annoverati i seguenti canoni per distinguere la natura giuridica di una determinata sanzione: il nomen juris; la natura penale e scopo della sanzione; il collegamento con la sanzione penale.

Più nello specifico il primo criterio di stampo squisitamente formalistico consente di ritenere “penale” tutte quelle sanzioni così denominate dallo stesso legislatore; tuttavia, la Corte Edu si mostrò consapevole della tendenza degli Stati a fornire una qualifica amministrativa a sanzioni ontologicamente penali al fine di non estendere le garanzie proprie del settore penalistico quali la colpevolezza, la prevedibilità e la proporzionalità ex artt. 6, 7 CEDU.

In ragione di ciò venne evidenziato che, nei casi dubbi, è necessario analizzare l’essenza stessa della sanzione ed il suo scopo ultimo; nel caso in cui la finalità non sia meramente reintegratoria\ripristinatoria allora questa deve considerarsi para-penale.

L’ultimo indice che venne annoverato nella sentenza Engel si basa sul “legame dell’illecito amministrativo con il fatto storico previsto quale reato” ovvero sulla riconducibilità della sanzione a determinate procedure sulla loro adozione ed esecuzione.

Alla luce di tali principi si è assistito ad un radicale mutamento del diritto amministrativo italiano che si suddivise in due branche parallele con differenti garanzie convenzionali; la prima riguarda il diritto amministrativo tradizionale retto dai principi di imparzialità, buon andamento, del giusto procedimento e della legalità sostanziale in base al paradigma “norma-fatto-potere-effetto”.

Ad esso si affiancò lo specifico settore del diritto amministrativo punitivo fondato altresì sui corollari della legalità fortissima propri del diritto penale ovvero della prevedibilità, colpevolezza, irretroattività e proporzionalità della sanzione ex artt. 6,7 CEDU.

Tale mutamento di paradigma indusse la nostra giurisprudenza ad una profonda riflessione sull’art. 649 c.p.p. in tema di ne bis in idem processuale secondo cui l’imputato prosciolto ovvero condannato con sentenza o decreto penale irrevocabile non può essere nuovamente sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto. In tal caso, se viene istaurato un nuovo procedimento penale, il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere enunciandone la causa nel dispositivo.

Secondo un primo filone interpretativo, la garanzia del “ne bis in idem processuale” si estende anche alle sanzioni amministrative punitive purché si tratti del medesimo fatto giuridico in ragione di una lettura conforme al principio di legalità. Difatti, solamente nel caso in cui vi sia coincidenza tra gli elementi costitutivi dell’illecito penale ed amministrativo può operare il principio in esame.

Di diverso avviso si mostrò parte della giurisprudenza e della miglior dottrina in base ad un’interpretazione sostanzialistica dell’istituto collegata intimamente al concetto di “medesimo fatto storico”.

La questione giunse nel 2014 alla Corte Edu in ragione della paventata violazione del ne bis in idem previsto dall’art. 4 Protocollo addizionale nr.7; invero, proprio con la sentenza Grande Stevens la Corte precisò che il divieto del doppio procedimento non riguardasse l’idem legale bensì il medesimo fatto storico nei suoi connotati fondamentali. Invero, tale principio di diritto trae il suo fondamento già dalla sentenza Zolotukhin del 2009 nella quale venne precisato che il concetto di fatto storico riguarda i tratti fondamentali della condotta, evento, persona offesa indipendentemente dalla loro qualifica giuridica. Sicché nel caso in cui un soggetto venga giudicato per “un determinato fatto” così inteso, questi non potrà essere sottoposto ad un diverso procedimento penale ovvero amministrativo dal carattere punitivo.

Tale lettura restrittiva fu oggetto di rivisitazione da parte della stessa Corte Edu nel caso A e B c. Norvegia nella quale si ammise l’operatività di un doppio binario sanzionatorio e, quindi, non in violazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU, purché vengano rispettati determinati principi. Più nel dettaglio il ne bis in idem non viene vulnerato dall’istaurazione di due procedimenti che siano sufficientemente connessi dal punto di vista sostanziale, procedurale e cronologico.

La connessione sostanziale si riferisce alla proporzionalità e prevedibilità delle sanzioni di entrambi i procedimenti purché riguardanti il medesimo fatto storico ovvero la medesima condotta ed evento.

L’aspetto processuale, invece, riguarda un generale divieto di duplicazione delle prove con la conseguenza che per il procedimento iniziato per secondo siano assicurati strumenti di acquisizione probatoria concernenti i medesimi fatti.

Infine, è necessario che i processi siano sufficientemente collegati dal punto di vista cronologico senza che sia necessaria la loro simultanea celebrazione.

 

I rimedi di attuazione del ne bis in idem

Nonostante sia pacifica l’ammissibilità di un doppio binario sanzionatorio, è decisamente controversa la questione concernente i rimedi in caso di violazione del ne bis in idem.

Sul punto sono emerse diverse impostazioni giurisprudenziali e dottrinali che fanno leva su diversificati istituti presenti nel nostro ordinamento.

Secondo una prima impostazione ermeneutica l’istituto che salvaguarda meglio il principio del ne bis in idem è l’art. 649 c.p.p. alla luce della recente lettura della Corte Costituzionale che ne ha dichiarato la parziale incostituzionalità ex art. 117 c.1 Cost per violazione dell’art. 4 del Port. 7 CEDU nella parte in cui intende il medesimo fatto giuridico e non storico.

Invero, così interpretato l’art. 649 c.p.p. permette una concreta attuazione del divieto del ne bis in idem da parte del giudice penale che può, in ogni stato e grado del processo, emettere sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere dandone conto nel dispositivo.

Sul contenuto della motivazione si sono contrapposti due orientamenti; secondo una prima lettura al giudice penale basterebbe accertare, incidenter tantum, la questione amministrativa senza tuttavia entrare nel merito della natura giuridica della sanzione.

In senso critico si è posta la tesi garantistica prevalente secondo cui, seppur sia vero che al giudice penale compete un potere di accertamento incidentale, questi deve necessariamente analizzare: la natura penale della sanzione amministrativa alla luce dei criteri Engel; e se il procedimento amministrativo riguardi i medesimi fatti oggetto del processo penale.

Oltre al rimedio penalistico dell’art. 649 c.p.p. la giurisprudenza e la dottrina ritengono pacificamente esperibili sia la questione di costituzionalità per violazione dell’art 117 c.1 Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU sia il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE nel caso in cui non sia possibile una lettura conforme alla CEDU o alla Carta di Nizza. Difatti, l’istituto del ne bis in idem processuale e sostanziale trova il suo fondamento giuridico anche nell’art. 50 della Carta di Nizza secondo cui nessuno può essere perseguito ovvero condannato per il quale sia già stato giudicato a seguito di una sentenza penale definitiva conforme alla legge.

Tuttavia è importante precisare che tali rimedi sono esperibili solo in caso di manifesta irragionevolezza e sproporzionalità della sanzione e, quindi, funzionali alla caducazione di un sistema ontologicamente incompatibile con il doppio binario sanzionatorio. In realtà la maggior parte dei casi di violazione del “ne bis in idem” non riguardano l’illegittimità manifesta delle disposizioni sanzionatorie bensì il mancato rispetto dei canoni di sufficiente connessione sostanziale, procedurale e cronologica espressi dalla sentenza A e B c. Norvegia.

In ragione di ciò la riflessione dottrinale e giurisprudenziale si è orientata verso l’applicazione di istituti propri del diritto amministrativo anche alla luce del nuovo sistema del c.p.a. che, difatti, assicura una piena tutela delle istanze private.

Più nello specifico, la giurisprudenza prevalente e la miglior dottrina ritengono esperibile il ricorso giurisdizionale al TAR nel caso in cui venga erogata dall’amministrazione competente una sanzione amministrativa dal carattere punitivo in violazione del giudicato penale sui medesimi fatti. Invero, in tal caso il ricorrente potrà richiedere l’annullamento della sanzione per violazione di legge ex art. 21 octies l. 241/90 per il mancato rispetto del giusto processo e del divieto di bis in idem ex artt. 47, 50 Carta di Nizza. La soluzione in questione risulta preferibile in ragione dell’immediatezza della tutela fornita al cittadino ed è altresì corretta dal punto di vista giuridico in quanto la Carta di Nizza è annoverabile tra le fonti che fanno ingresso nel nostro ordinamento in via immediata e diretta ex art. 10 Cost.

Infine, anche la legalità procedurale sarebbe ampiamente tutelata dal ricorso giurisdizionale in quanto il giudice amministrativo ha la facoltà di acquisire ex officio le prove rilevanti della decisione, anche acquisendo le relative prove dal processo penale, sempre nel rispetto del generale principio del dispositivo.

Sulla scorta delle predette considerazioni, l’indirizzo ermeneutico in questione ritiene ammissibile anche il ricorso giustiziale alla Pubblica amministrazione ex artt. 1-8 del D.P.R, 1199/1971 attraverso gli istituti del ricorso gerarchico proprio ed improprio e in opposizione. Del resto, si tratta di rimedi che consentono di sindacare i profili di legittimità e di merito della decisione amministrativa evitando il ricorso giurisdizionale tramite un ri-esercizio del potere della stessa amministrazione ovvero di quella gerarchicamente superiore.

In astratto un ulteriore rimedio sarebbe costituito dalla possibilità di sollecitare l’amministrazione attraverso l’istituto dell’autotutela ex art. 21 nonies l. 241/1990 chiedendo, in definitiva, l’annullamento della sanzione amministrativa poiché emessa in violazione di legge. In realtà, l’istituto in questione non sarebbe pienamente satisfattorio in quanto si tratta, a parere della giurisprudenza dominante, di un esercizio discrezionale del potere sia sull’an che sul quomodo.

Infine, merita di essere annoverato quell’indirizzo dottrinale secondo cui sarebbe necessario introdurre concreti strumenti di raccordo fra il processo penale e quello amministrativo; difatti, mentre in ambito tributario vi sono istituti che permettono un forte legame fra i procedimenti, in altri casi sono del tutto assenti. Sicché secondo tale tesi il legislatore dovrebbe necessariamente intervenire in materia di sanzioni amministrative punitive attraverso la predisposizione di un testo unico enunciando, inoltre, anche i principi applicabili. Del resto, la mera partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo tramite la presentazione di memorie e documenti si mostra, in caso di doppio binario sanzionatorio, un istituto incapace di evitare la celebrazione di un secondo processo per i medesimi fatti.

In definitiva la tematica del divieto del ne bis in idem ha costituito il campo fertile nel quale sono maturati principi che hanno permesso un ponderato bilanciamento tra le istanze punitive dello Stato e le garanzie fondamentali del cittadino che, nel campo punitivo, si erigono a colonne portati del sistema giustizia.

Invero, da una radicale esclusione di un doppio binario sanzionatorio la Corte Edu si è attestata verso la creazione di un “doppio binario” caratterizzato da un’intrinseca razionalità alla luce di un collegamento sostanziale, procedurale e cronologico fra i diversi processi.

Tuttavia, permangono rilevanti perplessità concernenti l’apparato remediale che ha dato la stura ad un dibattito giurisprudenziale ancora in auge. Invero, nonostante i contrasti, gli istituti esperibili in caso di violazione del divieto di “ne bis in idem”, ex art. 4 Prot. 7 CEDU ed art. 50 Carta di Nizza, sono: l’art. 649 c.p.p.; il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE; la questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117 c.1 Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU; l’annullamento dell’atto amministrativo ex art. 21 octies l. 241/90.

Tali strumenti permettono una effettiva tutela del cittadino sia sul versante penalistico che amministrativo assicurando, allora, il pieno rispetto del principio del giusto procedimento e dei corollari della legalità fortissima ovvero della proporzionalità, prevedibilità e irretroattività della sanzione ex artt. 6, 7 CEDU e art. 47 Carta di Nizza. Baluardi giuridici imprescindibili che costituiscono oggi il nuovo volto del diritto amministrativo moderno.