x

x

Avvocato: la causa più complicata, curiosa, originale che hai difeso?

Dal divieto degli atti emulativi di Calamandrei ai giorni nostri il passo è breve, con le dovute proporzioni
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei

Avvocato: la causa più complicata, curiosa, originale che hai difeso?


Avvocati scavate nei vostri ricordi e rispondete alla domanda: qual è la causa più originale che avete difeso?

Ogni avvocato conserva nei suoi ricordi i volti, le ansie, le paure e le aspettative dei suoi assistiti.

Lo studio di un avvocato è come un osservatorio psicologico: sotto certi aspetti si può dire che somigli all’ambulatorio di uno psichiatra. Tutti i peccati capitali vengono a farsi curare in questa clinica scriveva Piero Calamandrei.

Come dargli torto? Ognuno di noi conserva ricordi di aneddoti e storie di cause fatte, vinte, perse: tutte lasciano nella nostra memoria e coscienza rimorsi, gioie, dolori. D’altronde sono gli avvocati che raccolgono le confidenze più intime dei propri assistiti che si lasciano andare nel raccontare le proprie ansie e paure.

Ogni avvocato è come un confessore. Una folla di viziosi e di onesti, di delinquenti e di offesi, di temerari e di umiliati, entra continuamente nel suo studio a confidargli segrete colpe e disgrazie, e paure e speranze, e menzogne e sincerità, prima di andare a svelarle, o a tentar di occultarle, nella cruda luce dei dibattiti giudiziari”.

Inizia così un libro del 1937 scritto dagli avvocati Pierluigi e Ettore Erizzo figli dell’avvocato Paolo Francesco Erizzo, nel testo si raccolgono ricordi di cupe tragedie e di impreviste comicità della vita di un avvocato.

Sono trascorsi tanti anni ma nulla è cambiato: esemplari infiniti dell’umanità entrano nel nostro studio, siedono al nostro tavolo, svelano - volenti o nolenti - un poco della loro anima e riprendono il cammino. Le parole con cui il cliente maschera talvolta il suo vero appetito non sempre ci ingannano.

Nella maggioranza dei casi, e assai più sovente di quanto il nostro cliente creda, ci è facile intuire quale sia la verità nascosta dietro le parole.

Ogni avvocato ha nei propri ricordi la causa che di notte non l’ha fatto dormire o la causa che l’ha fatto sorridere e quelle che lo hanno angosciato nel profondo.

Personalmente, in questo periodo buio, preferisco provare a sorridere e ho momentaneamente messo in un angolo della mia memoria le madri imputate per aver ucciso i figli e genitori incriminati per aver venduto i loro minori.

Dai ricordi ho “pescato” la prima causa patrocinata da giovanissimo procuratore senza clienti e privo di studio stabile.

Una controversia tra un cane e un gatto, si proprio un barboncino e una siamese finirono sul banco di un giudice.

La vicenda è banale: un barboncino senza museruola sfugge al guinzaglio della proprietaria ed entra nel giardino del mio assistito dove riposa placidamente una gatta siamese. Il cane si avventa sul felino che riporterà delle ferite. Miagolii, ringhi dei quattro zampe e conseguenti strepiti e urla dei bipedi che si affrontarono con contumelie reciproche fino all’arrivo del veterinario che curerà Reginalda (la siamese) nel migliore dei modi.

Al momento della richiesta del rimborso delle spese veterinarie la proprietaria rispose che il suo Fuffy (barboncino con il canino affilato) era un angelo e la sua improvvisa furia era dettata dal fatto che era stato “provocato” dalla gatta. Capite bene che l’istruttoria della causa ebbe dei momenti di comicità esilarante con mattatori assoluti le parti in causa che davanti al Giudice inscenarono delle gags da “Un giorno in Pretura”.

Dai cani e gatti del modesto avvocato passiamo ai cacciatori e agli uccelli di un illustre avvocato e ricordiamo una pagina di Piero Calamandrei La causa più originale che ho difeso”, titolo di una rubrica della RAI dove Calamandrei raccontò la sua causa nella puntata trasmessa il 17 febbraio 1955.

Lo studio di un avvocato è come un osservatorio psicologico; sotto certi aspetti si può dire che somigli all’ambulatorio di uno psichiatra. Tutti i peccati capitali vengono a farsi curare in questa clinica: l’avarizia grifagna è la cliente che più spesso viene a chieder consiglio all’avvocato civilista; ma assai spesso vi fa capolino anche l’invidia, che forse, con quella sua faccia livida, è ancor più repugnante: «invidia – come diceva un antico – è dolore della felicità e del bene del prossimo, senza utilità dell’invidiante».

Il peccato dell’invidia ha avuto fin dal tempo romano, nel linguaggio dei giuristi, un suo specifico nome giuridico aemulatio, emulazione.

Questa parola, adoprata oggi nel linguaggio comune, ha generalmente un senso buono: vuol dire il desiderio onesto di uguagliare altri nella virtù o nel benessere. Ma nel linguaggio dei giuristi romani voleva dire «nvidia»: cioè spinta a molestare altrui senza vantaggio proprio, gusto di far qualcosa che rechi disturbo ad altri senza alcuna utilità del disturbatore: mera malignità, puro dispetto.

Ci volle molto tempo prima che nel diritto romano classico penetrasse il principio della illiceità degli atti ad aemulationem.

L’antico diritto quiritario era dominato dall’idea, che il proprietario fosse libero di esercitare come meglio credesse il suo diritto, senza dover rendere conto a nessuno dei motivi psicologici che lo spingevano a esercitarlo in quel modo.

Qui iure suo utitur neminem laedit: chi esercita il suo diritto, non è tenuto a occuparsi delle molestie che altri può risentirne. Fu solo lo spirito di carità e di solidarietà umana del cristianesimo che fece penetrare a poco a poco nel diritto romano classico, col precetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, l’idea che anche l’uso del proprio diritto cessi di essere lecito, se il motivo che lo ispira è soltanto il maligno gusto di far dispetto ad altri. Malitiis non est indulgendum: quando lo scopo è malizioso anche l’esercizio del proprio diritto diventa un abuso.

Il divieto degli atti emulativi ....

Estratto dalla rivista “Il Ponte”, La Nuova Italia Firenze, numero 30 settembre 1966 pagg. 1054 ss