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Brevi note in tema di Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale

Brevi note in tema di Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale
Brevi note in tema di Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale

Corte di Cassazione Sezione I Penale, Sentenza numero 27049 del 30 maggio 2017 (udienza del 9 maggio 2017) . Presidente Di Tommasi Mariastefania; Relatore Aprile Stefano

 

Abstract: Il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, di cui all’articolo 75 del decreto legislativo n.159 del 2011, è reato necessariamente abituale, il cui contenuto minimo è integrato da una serialità dei comportamenti tali da essere dimostrativi dell’abituale condotta di trasgressione e della conseguente idoneità offensiva della medesima.

Dal carattere necessariamente abituale del reato, discende l’inapplicabilità della continuazione tra i vari episodi di violazione del precetto.

 

Sommario:

1. Breve ricostruzione del fatto

2. Compatibilità strutturale tra reato abituale e reato continuato.

3. Il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale quale reato necessariamente abituale

 

1. Breve ricostruzione del fatto

Con sentenza del Tribunale di Brindisi emessa in data 27 febbraio 2014, il signor Tizio veniva dichiarato responsabile del reato di cui all’articolo 75 del decreto legislativo numero 159 del 2011, con riferimento alla violazione di non associarsi a persone condannate.

La Corte d’Appello di Lecce, in sostanza, confermava la sentenza emessa dal Giudice di prime cure, riformulandola solo in relazione alla pena in concreto inflitta, nella specie accogliendo la richiesta della difesa dell’imputato unicamente in ordine alla unificazione delle condotte sotto il vincolo della continuazione.

Avverso tale decisione, l’imputato, per il tramite del proprio difensore di fiducia, ricorreva presso la Suprema Corte lamentando, oltre al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex articolo 62 bis Codice Penale, l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta responsabilità per il reato ascrittogli, evidenziando la “fugacità” degli incontri tenuti dal medesimo con soggetti pregiudicati, tale da non integrare la abitualità nella frequentazione, richiesta dalla norma in esame.

 

2. Compatibilità strutturale tra reato abituale e reato continuato

La Corte d’Appello di Lecce, come innanzi evidenziato, chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dalla difesa dell’imputato, ha ritenuto ammissibile l’unificazione dei reati ascritti allo stesso sotto il vincolo della continuazione.

In merito a tale assunto, la Suprema Corte evidenzia, a contrariis, come, vertendosi in tema di reato abituale, sia da escludere l’applicabilità della continuazione tra i vari episodi contestati.

Ciò che caratterizza l’istituto della continuazione, quale eccezione alla disciplina del concorso materiale di reati, è la medesimezza o identità del disegno criminoso.

Giova ricordare, come si argomenterà nel prosieguo della trattazione, che il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, di cui all’articolo 75 del decreto legislativo n.159 del 2011 è reato necessariamente abituale, la struttura del quale esula da tale affermato concetto di disegno criminoso preordinato, così come esula da un generico programma di delinquere che potrebbe tutt’al più fondare, ricorrendone le condizioni, la dichiarazione di abitualità nel reato [in tal senso Carlo Fiore-Stefano Fiore, Diritto Penale, Parte generale, Torino 2013, p.628], concretandosi, al contrario, in una serie ripetuta di atti che unitariamente considerati, integrano la fattispecie autonoma di reato. Ne discende l’incompatibilità tra reato necessariamente abituale, già ontologicamente caratterizzato dalla pluralità di condotte, e continuazione, salvo il caso, come evidenziato nella pronuncia al vaglio, “in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l’altra” [Cassazione Penale, Sezione VI, sentenza n.4636 del 28 febbraio 1995].

A contrario è possibile argomentare circa la compatibilità tra reato eventualmente abituale e reato continuato [Cassazione Penale, Sezione I, sentenza n.23619 del 5 giugno 2014, in tema di molestie.], laddove, come detto, il reato eventualmente abituale può ritenersi realizzato anche con la verificazione di una sola condotta lesiva.

Pertanto, la reiterazione nel tempo delle condotte criminose, sorrette dalla identità del disegno criminoso, può giustificare l’applicazione dell’articolo 81 comma 2 Codice Penale.

 

3. Il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale quale reato necessariamente abituale

La lettura della richiamata sentenza della Suprema Corte dà spunto ad alcune riflessioni in tema di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale.

Tralasciando in questa sede qualsivoglia considerazione circa l’indeterminatezza della fattispecie di cui all’articolo 75 del decreto legislativo n.159 del 2011 [problematica, peraltro, di recente affrontata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la nota “sentenza De Tommaso” del 23 febbraio 2017], ci soffermeremo brevemente sull’aspetto dogmatico relativo all’inquadramento della stessa nell’alveo dei reati di durata, e, in particolare, della categoria dei reati abituali.

Giova, all’uopo, ricordare, che, nell’ambito di tale categoria di pura creazione giurisprudenziale e dottrinale, si suole distinguere tra

  • reati abituali propri, dove la rilevanza dell’abitualità della condotta è particolarmente evidente, e talvolta è esplicitamente richiesta dal dato letterale della norma, in quanto il singolo atto o fatto non costituirebbe di per sé reato;
  • reati abituali impropri, caratterizzati dalla circostanza che le singole condotte costituirebbero già di per sé reato, ma la ripetizione nel tempo delle stesse integra la fattispecie tipica di altro reato autonomo, caratterizzato dall’abitualità.

Dottrina e giurisprudenza [Cassazione Penale Sezione III, sentenza n. 22850 del 16 maggio 2007; Cassazione Penale Sezione I, sentenza numero 1430 del 9 marzo 1998] hanno operato, peraltro, una distinzione tra reato necessariamente abituale, che postula la ripetizione di condotte analoghe distinte tra di loro ma unitariamente lesive del bene giuridico tutelato, e reato eventualmente abituale caratterizzato dal fatto che esso può realizzarsi e ritenersi già perfetto, anche con una singola e specifica condotta, ma suscettibile di una potenziale ripetizione nel tempo[Cassazione Sezioni Unite, sentenza n.11545 del 15 dicembre 2011 in tema di reato di "esercizio abusivo di professione" previsto e punito dall’articolo 348 del Codice Penale]

Nella esaminanda sentenza, gli ermellini classificano la fattispecie in esame quale “reato necessariamente abituale”, ai fini della configurazione del quale risulta determinante la sussistenza e, dunque, la prova dell’esistenza di “plurimi e stabili contatti e frequentazioni con soggetti pregiudicati, contatti caratterizzati da un’apprezzabile numerosità” con riferimento ad un “minimo di condotte collegate da un nesso di abitualità”.

La Corte, peraltro, sottolinea, come la nozione stessa di “associazione” a soggetti già destinatari di condanna penale [Cassazione Penale, Sezione I, sentenza n. 48686 del 9 dicembre 2015, nel senso della esclusione del reato nell’ipotesi di frequentazione di soggetti gravati esclusivamente da procedimenti penali pendenti], anche a prescindere dal requisito della necessaria abitualità della fattispecie al vaglio, implichi “un’unione, una aggregazione, un collegamento” caratterizzati dal requisito della stabilità. Si noti come l’estensore, pur evidenziando come il riferimento normativo faccia espresso richiamo del concetto di associazione, ribadisce il carattere abituale del reato, in tal modo escludendo che la fattispecie medesima possa ricondursi nell’alveo della permanenza che caratterizza i reati associativi, con importanti conseguenze sia in tema di tipicità che in tema di elemento psicologico del reato.

Appare utile soffermarsi sul riferimento esplicito che la Suprema Corte opera con riguardo alla “idoneità offensiva della condotta”.

Invero, ciò che caratterizza il reato abituale, oltre alla peculiarità della condotta, è la specifica connotazione che assume in questa categoria di reati l’elemento psicologico.

Pur non potendosi escludere la fattispecie colposa, è d’uopo argomentare come il reato abituale doloso sia peculiarizzato da un “dolo abituale”, di non facile inquadramento.

In passato la Suprema Corte aveva sostenuto la necessaria esistenza di un “disegno complessivo anticipatamente programmato”, ma dottrina [Giovanni Fiandaca – Enzo Musco, Diritto Penale, Parte generale, sesta edizione, Bologna 2009, p.201] e giurisprudenza [Cassazione Penale, Sezione V, sentenza numero 18999 del 19 febbraio 2014; Cassazione Penale, Sezione V, sentenza n.29859 del 10.7.2015, in tema di Stalking] più recenti sembrano escludere la configurabilità di un “dolo unitario” che sorregga i singoli episodi caratterizzanti la condotta tipica dei reati abituali; pertanto il dolo nel reato abituale si caratterizza come una pluralità di autonome volizioni collegate ai singoli atti posti in essere e sorrette dalla coscienza degli atti già posti in essere, dando vita ad un sistema di comportamenti offensivi.

Viene, dunque, in rilievo lo stretto legame di interdipendenza tra dolo e coscienza dell’offesa, intesa come consapevolezza che il fatto, o meglio i fatti realizzati, abbiano una portata offensiva rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma [Carlo Fiore – Stefano Fiore, Diritto penale, Parte Generale, Torino, 2013, p.259].

Nella sentenza in esame, nonché in recenti pronunce giurisprudenziali  [Cassazione Penale , VI sezione, sentenza numero 17574 del 6 aprile 2017] si sottolinea come, in tema di reato abituale, momento fondamentale del giudizio di affermazione della responsabilità penale, sia proprio l’accertamento del dolo abituale, che va provato e motivato in maniera sufficientemente esaustiva. Pertanto, nella fattispecie al vaglio, caratterizzata dalla abitualità della condotta, si rende necessario argomentare circa la coscienza e volontà dell’imputato (condannato!) di persistere nell’attività criminosa.

L’attenzione della Suprema Corte si focalizza, dunque, sull’accertamento della colpevolezza (troppo spesso nella prassi sacrificato rispetto alla conformità del fatto alla fattispecie tipica), quale “presupposto necessario, ma non sufficiente, e limite garantistico per l’esercizio della pretesa punitiva, intesa in termini di prevenzione” [Sergio Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 2006, p.26].

La centralità della ricerca della carica offensiva della condotta appare ancor più pregnante in fattispecie, di cui il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale costituisce un chiaro esempio, ispirate ad una logica punitiva che si basa sul presupposto (o sul pregiudizio) della pericolosità sociale.

Per visualizzare il testo della sentenza clicca qui.