Carcere e Risocializzazione, tra percorso interiore e lavoro si può se la società lo vuole

Intervento Testimonianza di un detenuto

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Carcere e Risocializzazione, tra percorso interiore e lavoro  si può se la società lo vuole

 

Buon pomeriggio a tutti voi

Grazie per questa opportunità che mi è data, in questo luogo a me familiare per aver in passato avuto modo di coltivare riflessioni, passione civile e politica con l’amico e pastore mons. Furri e tanti amici di allora, grazie a chi guida questo momento di riflessione sul carcere in una stagione di emergenza e di gravi venti che hanno provato la società e che la interrogano, grazie per aver accolto la mia offerta di testimonianza in questa che è stata la mia città, la città che mi ha visto crescere come uomo e professionista e che mi ha visto commettere gli errori che mi hanno portato in carcere.

Non è facile per me, ma lo desideravo molto, oggi vorrei testimoniare la vicenda di un uomo, un uomo come tutti voi, che ha sbagliato gravemente, che è caduto, e che … dopo un lungo quanto doloroso percorso di introspezione e revisione ha ricercato le ragioni per incamminarsi vero una rinascita ...

Vedo qui molte persone che mi hanno conosciuto, come persona e come professionista, vedo la stampa e qualche televisione, a questo proposito vi prego… non c’è un nome e un cognome qui a raccontare la propria vicenda, c’è un uomo, un uomo che è caduto e che ha sbagliato…per questo vi prego, ciò che conta è la riflessione che stiamo facendo insieme sul tema propostoci dagli organizzatori, che conta quindi è la testimonianza di un viaggio e del desiderio di una rinascita, per queto vi chiedo: No riprese, no foto, no nomi negli articoli di stampa, se non lo vorrete fare per me fatelo per rispetto della legge, per questo a scanso di equivoci davanti a tutti noi dico di NON prestare consenso a riprese e foto né alla identificazione con nome e cognome della mia persona. Oggi racconterò la mia storia che può essere la storia di ciascuno, può capitare a chiunque di sbagliare…l’errore è dietro l’angolo, nessuno può e deve sentirsi immune dall’errore qualora capitasse sarebbe l’errore a farsi preda di costui.

Vorrei dunque partire dal momento in cui sono entrato in carcere, in quel momento sentivo il peso del fallimento, il senso di colpa per una vita buttata. Avevo 54 anni e avevo compromesso una intera esistenza fatta di tante cose buone e positive, ma nell’ultima parte di errori …gravi. Sentivo il peso della solitudine, perché il condannato che entra in carcere rimane inevitabilmente solo, tanto più è solo quando proviene da una fascia sociale integrata di persone cosiddette “perbene”. D’improvviso viene espulso da questa società , reietto per essere allontanato tenuto lontano dietro le sbarre…presto si dimenticano di te anche quelli che con te  si sono seduti al banchetto.

Per la società dietro il muro del carcere ci sono i cattivi, quelli che hanno sbagliato e per questo vanno separati, al di fuori ci sono i giusti quelli che hanno subito e per questo chiedono giustizia

Quando arrivi a questo fondo, diventa difficile anche solo pensare a risalire, la strada sembra impossibile…

Ricordo che all’ingresso, fui accolto da quello che sarebbe divenuto il mio educatore, il dott. Roberto Bezzi, Responsabile dell’area trattamentale dell’istituto in cui mi ero costituito,  il confronto con lui fu doloroso, schietto a tratti drammatico. Non finirò mai di essere grato a questa persona per l’onestà intellettuale usatami (che usa per altro con tutti i suoi utenti) e per la compostezza il rispetto con cui abbiamo parlato.

Dopo qualche tempo in un ulteriore colloquio, evidenziando che stavo, come dire ancora a terra, cercò di indicare i criteri di analisi per una risalita… toccò in quel frangete tasti importanti, che enucleavano aspetti positivi della persona, lasciando sul fondo gli aspetti problematici che c’erano e dovevano essere affrontati e sarebbero stati a tempo debito indagati.

La leva motore fu ristabilire il contato con la dimensione di fiducia; il detenuto va motivato, va indagato il modo per restituire alla persona fiducia in se stessa. Le sue parole più importanti furono: tu hai delle competenze, quelle non sono state condannate, quelle ci sono non le hai perse…ecco ripartiamo dalle tue competenze… Le competenze gli aspetti positivi della persona su cui ancorare la volontà di ricostruirsi.  Questo atteggiamento di fiducia e ciò che manca nella società verso le persone fragili  che possono sbagliare o hanno sbagliato.

Il carcere annienta, ci vuole il coraggio di ammettere che è un sistema non più compatibile con il dettato costituzionale e la dignità della persona…anche quella che ha sbagliato. Il carcere non è solo privazione della libertà, è soprattutto spogliazione di una dimensione sociale  che si materializza con l’impossibilità di attendere alle cose che ogni cittadino fa, anche semplicemente occuparsi delle questioni fiscali, occuparsi degli adempimenti. Il carcere toglie qualsiasi dimensione relazionale in società per la quale progressivamente non esisti più se non nelle notifiche di cartelle esattoriali, di multe di obbligazioni che non sei in grado di attendere…figuriamoci di pagare… tanto più significativa è la pena tanto più questa impotenza si fa angoscia, paura di una incertezza che ci attenderà quando usciremo a fine pena…con l’angoscia di non poter gestire nulla di quel quotidiano che normalmente occupa ogni cittadino. Il carcere ti toglie la cittadinanza togliendoti nella maggior parte dei casi il diritto di voto, e quindi non più elettori  i condannati  non sono meritevoli neppure della attenzione di quella politica che fa della propria azione merce di scambio con il voto, preoccupata sempre più di acquisire il consenso inseguendo gli umori e le mode della società.

Di li il percorso dentro se stessi, un viaggio alla ricerca di cause ed effetti delle proprie azioni, soprattutto quelle negative che hanno portato al fatto/reato

E allora l’indagine coinvolge gli affetti, il modo di essere, il modo di essere difronte  agli altri, questo voler essere migliori ma non riuscirci perché si deve stare al passo di quello che chiede la società e le persone che la vivono, e così si finisce con  lo scegliere scorciatoie, compromessi … cose assai rischiose che in taluni casi portano all’errore.

Dentro questo commino che  a dirsi sembra possibile, financo facile, ma che in realtà è doloroso e difficile perché carico di autoassoluzioni, tentativi di spostare le responsabilità di trovare giustificazioni… quando si riesce a togliere di mezzo tutto questo, quando si riesce a  mettere da parte l’ingombro delle giustificazioni, si comprende come ciascuno è responsabile di sé stesso e delle proprie azioni.

Il percorso interiore logora e non può essere positivo se non si accompagna ad un lavoro fisico, un lavoro che in qualche misura distolga la mente dal rimorso dal pensiero di ciò che poteva essere e non è più.

Io in carcere ho avuto la fortuna di lavorare…lavorate molto: sia con il lavoro volontario gratuito dove ho esercitato le mie competenze per quelli che meno fortunati non avrebbero potuto avere una assistenza o un aiuto, ed un lavoro retribuito, più comune…dove non erano in gioco le mie competenze se non per essere mortificate ad una attività subordinata che doveva piegarsi alle direttiva dei superiori. Ho avuto l’opportunità di lavorare due anni in un call center come centralinista e quindi di svolgere una mansione di pazienza ed ascolto, in ogni caso un lavoro che non prevedeva competizione ma dedizione e disciplina, attenzione e rigore. Una esperienza che mi ha restituito piano piano ad una dimensione di subordinazione e di limite…

Il terzo elemento del mio percorso è rappresentato dalla Giustizia Riparativa

La Giustizia Riparativa non è un'altra (diversa ) giustizia, altra rispetto alla giustizia punitiva, nè sostitutiva o surrogato di una giustizia risarcitoria; è altro, casomai complementare alla Giustizia dei Giudici, qualcosa che sta su un piano differente, non antagonista ma capace di portarti oltre il reato…la sentenza …tendendo ad una ricucitura con l’altro e quindi con la società.

Nella giustizia riparativa ho cercato, aiutato e accompagnato da mediatori,  di esplorare il dolore provocato dal reato, un dolore che non sta da una sola parte, il dolore appartiene in modo trasversale e diverso a tutti i soggetti coinvolti/travolti dal reato... questa esplorazione porta ad incontrare il dolore dell'altro, dell'altra parte: quindi il dolore della vittima ed il dolore del responsabile del reato...ma anche il dolore di altri soggetti vittime indirette del reato ...

L'accettazione del dolore altrui pone in una dimensione nuova, una dimensione che supera il fatto/reato ... arrivati lì non c'è spazio per la vendetta...non c'è spazio per volere il male altrui... se volete c'è lo spazio per un passo oltre ...per l'accettazione che anche il reo soffre della sua azione, del rimorso di aver provocato dolore ... in questo terreno neutrale del dolore le parti si incontrano ... ancora una volta senza obbligo...semmai per perdonare...

In questo territorio inesplorato si può ricomporre la frattura tra responsabile del fatto/reato e società che  riaccoglie per un rinnovato patto di solidarietà...

La vendetta è arida, non produce ricomposizione ... il dolore, la comprensione del dolore reciproco induce alla comprensione...capire insieme come un fatto possa determinare sofferenza per evitare che la sofferenza si ripeta...

E' questo terreno,  il luogo dove si ripara la frattura tra individui, tra individui e società... riparare questa frattura è fare giustizia rispetto al dolore che la frattura ha provocato...

In un reato non c'è solo la vittima (anzi spesso nei reati violenti la vittima non c'è più è morta, nei reati finanziari non c'è una vittima diretta perchè la vittima è un sistema, uno stato, un popolo ...) allora si comprende come la pena, quella inflitta dalla sentenza non può che essere lo strumento perchè il responsabile del fatto/reato (qualsiasi esso sia) si metta in viaggio ...per capire...accettare ... guardare in faccia il dolore patito dagli altri che a loro volta sappiano guardare al dolore patito dal responsabile del fatto, un dolore che può essere anche più grande di quello patito dalla vittima...vittima diretta  o vittima  indiretta, non possono pensare che il loro dolore si plachi solo volendo il male del colpevole... non si può gioire per il male... occorre ricomporre la frattura ...

Per dare ricomposizione di questa frattura, il responsabile del reato deve tornare a misurarsi con la società, ed è qui che ci vuole una società disposta ad accogliere, una società disposta a farsi carico di un pezzo di viaggio, il pezzo più impegnativo…quello verso l’uscita.

Se la società non si rende compartecipe dell’azione ri-educativa, accogliendo ed offrendo la seconda opportunità… non ci sarà mai compimento del dettato costituzionale  sancito nell’art. 27 della Costituzione.

Per capire cerco di raccontarvi non come è stato per mè, ma vorrei riuscire  a farvi percepire come è stato ed è normale per l’azienda che mi ha incontrato in carcere  mi ha selezionato e mi ha portato a lavorare con sé.

Questa azienda che  crede   in valori fondamentali che debbono essere portanti per l’azienda e i suoi operatori: integrità in relazione con la cooperazione e la comunità operativa, riflettendo proprio sull’integrità ha voluto conoscere da vicino il carcere per capire . Aveva appena aderito al Programma 2121 un progetto del ministero di grazia e giustizia che ha impegnato primarie imprese milanesi nazionali e internazionali nell’accogliere detenuti al fine di formarli ad un lavoro e attrezzarli a competere in società nel campo lavorativo.  Con me ha intravisto la possibilità di recuperare competenze e integrità per un reinserimento. E’ stato fatto un cammino d’dapprima formativo e poi di inserimento per concretizzarsi poi in una stabile integrazione in azienda. Oggi sono dipendente di questa azienda italo olandese che si occupa di impianti e di costruzioni eco sostenibili, che costruisce ospedali ed aeroporti seguendo principi di sostenibilità ambientale e costruttiva; ha aderito al modello 231 e fonda la sua azione anche competitiva su un codice Etico. L’HR aziendale e il CEO amano precisare: noi siamo una azienda e abbiamo come obiettivo il profitto, ma lo vogliamo perseguire nel rispetto delle regole e della integrità sociale, il lavoro deve essere al centro della nostra azione ma al centro del lavoro c’è l’uomo e la sua integrità. Mi hanno accolto come detenuto e mi hanno accompagnato nella parte risocializzativa del mio viaggio verso la rinascita, hanno investito ritenendo che fosse anche un loro dovere sociale aprire le porte ad una secondo opportunità-

La società ha il dovere di occuparsi di questo aspetto della esecuzione penale costituzionalmente ispirata perché il tema del condannato e del suo rientro in società non può essere un affare solo dello stato, ma della società. È la società che deve assumere consapevolmente e con disponibilità l’atteggiamento di accoglienza

La società non può pensare che difronte ai fatti, gravi o meno gravi, si risolva con la richiesta  di giustizia intesa come vendetta, vendetta che si invoca chiedendo allo Stato di somministrarla. Non si può immaginare che la vendetta pubblica rispetto ai reati possa esorcizzare la società dagli stessi, se ne otterrà inevitabilmente l’aumento esponenziale dei reati stessi.

Io sento il dovere, in questa prospettiva ed in questa occasione così speciale e particolare, di ringraziare tutti voi e se mi consentite nell’ottica di chi sta ancora in cammino, verso il ritorno alla vita sociale, di  rivolgere un pensiero un poco più in là ! …la mia richiesta di perdono a tutte le persone vittime delle mie azioni sbagliate , del mio reato, perdono  a: Annamaria, Giorgio, Antonio, Adriano, Franca, Luigi, Gabriele, Nerina, Triestina, Zeffirina, Antonietta, Franco, Elisa, Pia, Cesarina

In secondo luogo sento di dover chiedere perdono al Tribunale che aveva riposto molta stima e fiducia nella mia persona e che in una parte delle mie azioni ha dovuto registrare il tradimento di questa fiducia, perdono alla istituzione ed ai Giudici che la costituisco quelli che mi hanno conosciuto e che spero possano recuperare il miglior ricordo di me lasciando alla pena scontata e in espiazione gli errori che hanno rilevato, ed a quelli che non mi hanno conosciuto ma che rappresentano oggi l’istituzione;

perdono all’Ordine degli Avvocati per aver con la mia condotta compromesso l’immagine di una professione che non era un fatto solo personale ma si ripercuote  su tutta la figura professionale.

Perdono a Camilla che all’poca era mia moglie e che certo ha sofferto per quanto accaduto a causa mia vedendo infratto il suo sogno di famiglia;

Perdono ai miei figli: Costanza Letizia e Michelangelo che nel momento della loro giovinezza sono stati esposti ad un immagine negativa a causa mia e dei miei errori, situazione che si è ripercossa sulla loro serenità e che ha lasciato segni nella loro crescita,  a loro che con fatica hanno saputo ricostruire un nuovo rapporto più trasparente più semplice più autentico con me padre, dico “nulla è stato vano” …

Non porto rancore o rivendicazione verso quanti hanno girato le spalle e guardato altrove, comprendo e ne faccio ammenda; ringrazio i pochi che con severità mi sono stati accanto in questi anni difficili e di tormento, in silenzio non facendomi mai pesare l’errore ma incoraggiandomi a guardare alla rinascita: Antonio, Davide, Stefano Allessando ed ai due custodi della fede smarrita, don Carlo e  don Giorgio, che mi accompagnano in silenzio lungo il cammino verso un ritorno al futuro…

Conclusivamente ma con sincerità ed autentica convinzione voglio ribadire che non vi è pena, non vi è vendetta, non vi è risarcimento  che valga l’umano perdono.

grazie