Cassazione Lavoro: ancora sul mobbing

La Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia di mobbing, ricordando che "per "mobbing", riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datare di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente dì lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo. E’ stato quindi precisato che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. E’ stato infine ritenuto che la valutazione degli elementi di fatto emersi nel corso del giudizio, ai fini dell’accertamento della sussistenza del mobbing e della derivazione causate da detto comportamento illecito del datore di lavoro di danni alla salute del lavoratore, costituisce apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato".

Nel caso di specie, secondo la Cassazione "la Corte territoriale ha dato compiuta ragione della sua decisione partendo da un attento esame di tutte le testimonianze raccolte, valutate sia nel loro complesso che singolarmente. Il giudice di appello, sulla scorta delle varie testimonianze, è pervenuto al convincimento che il lavoratore a partire dal 1995, fu preso di mira dal direttore dello stabilimento e fatto oggetto di continui insulti e rimproveri, umiliato e ridicolizzato avanti ai colleghi di lavoro, adibito sempre più spesso ai lavori più gravosi (addetto ai forni) rispetto a quelli svolti in passato (addetto alla pulizia degli uffici), nella indifferenza, tolleranza e complicità del legale rappresentate della società. In questa complessiva valutazione negativa del comportamento datoria!e non ha inciso in senso limitativo o riduttivo la circostanza, non ignorata dal giudice di appello, che al lavoratore dalla società fosse stato concesso in comodato un appartamento".

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 26 marzo 2010, n.7382).

La Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia di mobbing, ricordando che "per "mobbing", riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datare di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente dì lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo. E’ stato quindi precisato che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. E’ stato infine ritenuto che la valutazione degli elementi di fatto emersi nel corso del giudizio, ai fini dell’accertamento della sussistenza del mobbing e della derivazione causate da detto comportamento illecito del datore di lavoro di danni alla salute del lavoratore, costituisce apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato".

Nel caso di specie, secondo la Cassazione "la Corte territoriale ha dato compiuta ragione della sua decisione partendo da un attento esame di tutte le testimonianze raccolte, valutate sia nel loro complesso che singolarmente. Il giudice di appello, sulla scorta delle varie testimonianze, è pervenuto al convincimento che il lavoratore a partire dal 1995, fu preso di mira dal direttore dello stabilimento e fatto oggetto di continui insulti e rimproveri, umiliato e ridicolizzato avanti ai colleghi di lavoro, adibito sempre più spesso ai lavori più gravosi (addetto ai forni) rispetto a quelli svolti in passato (addetto alla pulizia degli uffici), nella indifferenza, tolleranza e complicità del legale rappresentate della società. In questa complessiva valutazione negativa del comportamento datoria!e non ha inciso in senso limitativo o riduttivo la circostanza, non ignorata dal giudice di appello, che al lavoratore dalla società fosse stato concesso in comodato un appartamento".

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 26 marzo 2010, n.7382).