Cassazione Lavoro: risarcimento del danno da demansionamento
Pertanto, secondo la Cassazione, “il giudice d’appello, non affrontando il problema ulteriore dell’allegazione del danno, della prova della sua esistenza in concreto e del nesso causale con il denunziato demansionamento, si è posto in palese contrasto con la più recente giurisprudenza della Cassazione, che, a partire da Cassazione Sezioni Unite 24 marzo 2006 n. 6572, ha affermato che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (n.d. che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua "serietà", nel danno non patrimoniale) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’articolo 115 Codice Procedura Civile, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove".
La tesi della necessità di allegazione e prova è stata seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cassazione 2 agosto 2006 n. 17564 e puntualmente richiamata e condivisa dalla richiamata Cassazione Sezioni Unite 26972/2008) e significativamente da Cassazione 14 luglio 2006 n. 14729 la quale in particolare, ha ribadito che il lavoratore ha il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte - e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino.
La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali garantiti dall’articolo 41 Costituzione, ovvero di poteri disciplinari - anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 Codice Civile, l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente per questo verso, la veste di debitore”.
La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 19 dicembre 2008, n.29832: Demansionamento - Prova).
Pertanto, secondo la Cassazione, “il giudice d’appello, non affrontando il problema ulteriore dell’allegazione del danno, della prova della sua esistenza in concreto e del nesso causale con il denunziato demansionamento, si è posto in palese contrasto con la più recente giurisprudenza della Cassazione, che, a partire da Cassazione Sezioni Unite 24 marzo 2006 n. 6572, ha affermato che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (n.d. che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua "serietà", nel danno non patrimoniale) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’articolo 115 Codice Procedura Civile, a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove".
La tesi della necessità di allegazione e prova è stata seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cassazione 2 agosto 2006 n. 17564 e puntualmente richiamata e condivisa dalla richiamata Cassazione Sezioni Unite 26972/2008) e significativamente da Cassazione 14 luglio 2006 n. 14729 la quale in particolare, ha ribadito che il lavoratore ha il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte - e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino.
La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali garantiti dall’articolo 41 Costituzione, ovvero di poteri disciplinari - anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 Codice Civile, l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente per questo verso, la veste di debitore”.
La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 19 dicembre 2008, n.29832: Demansionamento - Prova).