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Cassazione Penale: legittimo l’utilizzo di conversazioni avvocato-cliente se il contesto è “amicale”

Le conversazioni tra avvocato e cliente sono oggetto di tutela da parte di precise norme del Codice di Procedura Penale, e in particolare l’articolo 103 che, ai commi 5 e 7, non consente “l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori […] e le persone da loro assistite” e queste, se sono effettuate, non possono essere utilizzate.

Oggetto del divieto di intercettazione non sono, ad ogni modo, tutte le conversazioni e le dichiarazioni che il cliente rende al proprio legale ma esclusivamente quelle che attengono alla funzione esercitata.

In questa pronuncia, la Cassazione enuncia un fondamentale principio di diritto secondo il quale il divieto di intercettazione riguarda esclusivamente le dichiarazioni rese nell’ambito del mandato difensivo, non ricomprendo quelle espresse in un contesto “amicale”.

Nel caso in esame, il Tribunale del luogo revocava, con ordinanza, la misura degli arresti domiciliari per un soggetto processato per diversi reati, estorsione, crollo di costruzione e possesso di materiale esplodente.

Avverso tale provvedimento, il pubblico ministero proponeva ricorso in Cassazione, adducendo che il giudice di merito aveva errato a non considerare utilizzabile una intercettazione in cui l’imputato confessava al proprio legale di aver posto in essere la condotta criminosa della quale era accusato, mal interpretando il dettato legislativo dell’articolo 103 del Codice di Procedura Penale.

In detta dichiarazione, resa all’interno di un autoveicolo, l’imputato confessava di aver commesso il fatto costituente reato, mosso dalla volontà di recare un danno alla moglie e di porla in uno stato di soggezione, nel corso della causa di separazione. Il confidente, nonché suo legale nel procedimento di separazione, esprimeva consigli e osservazioni che nulla avevano a che vedere con l’attività difensiva e con il processo in corso, ben potendo essere ugualmente espresse in un contesto “amicale”.

Data la natura del rapporto che legava i due interlocutori, i quali intrattenevano un rapporto di amicizia anche oltre il mandato difensivo, il ricorso del pubblico ministero era diretto ad accertare che tale conversazione, in quanto non rientrante nell’ambito della norma di cui all’articolo 103 del Codice di rito, potesse essere utilizzata nel processo penale e confermare la misura degli arresti domiciliari per l’imputato.

Innanzitutto, ciò che è stato osservato dai giudici di legittimità, è che la ratio della norma, che vieta di effettuare e utilizzare le intercettazioni tra avvocato e cliente, consiste nel garantire il diritto di difesa, costituzionalmente tutelato dall’articolo 24 della Costituzione. Di conseguenza – come possiamo leggere dal testo della sentenza perché possa essere fatta valere la suddetta inutilizzabilità è necessario che il difensore venga a conoscenza dei fatti a causa dell’esercizio delle funzioni difensive o della propria professione e sempre che attengano alla funzione esercitata”.

A giudizio della Corte, trattandosi di un colloquio intercorso fra soggetti pacificamente legati anche da un rapporto di amicizia o comunque di familiarità sicuramente esulante dal semplice rapporto professionale che lega il difensore al cliente - come attestato dal tono, dal luogo in cui avvenne e anche dal contenuto - il Tribunale avrebbe dovuto meglio valutare:

a) se il lungo monologo dell’imputato fosse finalizzato ad ottenere consigli difensivi dall’amico avvocato, o, non fosse, piuttosto, una mera manifestazione del profondo rancore che nutriva nei confronti della moglie, confidenza che avrebbe potuto fare a chiunque altri con cui fosse in stretti rapporti di amicizia;

b) se le (rare) risposte dell’avvocato fossero di natura professionale (e, quindi, rientranti nell’ambito del mandato difensivo) oppure avessero una mera natura consolatoria ed “amicale” a fronte delle confidenze ricevute.

Non avendo il giudice adito operato in tale direzione, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di garanzie di libertà dei difensori previste dall’art. 103 c.p.p., il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata”.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Penale, Sentenza 18 giugno 2014, n. 26323)

Le conversazioni tra avvocato e cliente sono oggetto di tutela da parte di precise norme del Codice di Procedura Penale, e in particolare l’articolo 103 che, ai commi 5 e 7, non consente “l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori […] e le persone da loro assistite” e queste, se sono effettuate, non possono essere utilizzate.

Oggetto del divieto di intercettazione non sono, ad ogni modo, tutte le conversazioni e le dichiarazioni che il cliente rende al proprio legale ma esclusivamente quelle che attengono alla funzione esercitata.

In questa pronuncia, la Cassazione enuncia un fondamentale principio di diritto secondo il quale il divieto di intercettazione riguarda esclusivamente le dichiarazioni rese nell’ambito del mandato difensivo, non ricomprendo quelle espresse in un contesto “amicale”.

Nel caso in esame, il Tribunale del luogo revocava, con ordinanza, la misura degli arresti domiciliari per un soggetto processato per diversi reati, estorsione, crollo di costruzione e possesso di materiale esplodente.

Avverso tale provvedimento, il pubblico ministero proponeva ricorso in Cassazione, adducendo che il giudice di merito aveva errato a non considerare utilizzabile una intercettazione in cui l’imputato confessava al proprio legale di aver posto in essere la condotta criminosa della quale era accusato, mal interpretando il dettato legislativo dell’articolo 103 del Codice di Procedura Penale.

In detta dichiarazione, resa all’interno di un autoveicolo, l’imputato confessava di aver commesso il fatto costituente reato, mosso dalla volontà di recare un danno alla moglie e di porla in uno stato di soggezione, nel corso della causa di separazione. Il confidente, nonché suo legale nel procedimento di separazione, esprimeva consigli e osservazioni che nulla avevano a che vedere con l’attività difensiva e con il processo in corso, ben potendo essere ugualmente espresse in un contesto “amicale”.

Data la natura del rapporto che legava i due interlocutori, i quali intrattenevano un rapporto di amicizia anche oltre il mandato difensivo, il ricorso del pubblico ministero era diretto ad accertare che tale conversazione, in quanto non rientrante nell’ambito della norma di cui all’articolo 103 del Codice di rito, potesse essere utilizzata nel processo penale e confermare la misura degli arresti domiciliari per l’imputato.

Innanzitutto, ciò che è stato osservato dai giudici di legittimità, è che la ratio della norma, che vieta di effettuare e utilizzare le intercettazioni tra avvocato e cliente, consiste nel garantire il diritto di difesa, costituzionalmente tutelato dall’articolo 24 della Costituzione. Di conseguenza – come possiamo leggere dal testo della sentenza perché possa essere fatta valere la suddetta inutilizzabilità è necessario che il difensore venga a conoscenza dei fatti a causa dell’esercizio delle funzioni difensive o della propria professione e sempre che attengano alla funzione esercitata”.

A giudizio della Corte, trattandosi di un colloquio intercorso fra soggetti pacificamente legati anche da un rapporto di amicizia o comunque di familiarità sicuramente esulante dal semplice rapporto professionale che lega il difensore al cliente - come attestato dal tono, dal luogo in cui avvenne e anche dal contenuto - il Tribunale avrebbe dovuto meglio valutare:

a) se il lungo monologo dell’imputato fosse finalizzato ad ottenere consigli difensivi dall’amico avvocato, o, non fosse, piuttosto, una mera manifestazione del profondo rancore che nutriva nei confronti della moglie, confidenza che avrebbe potuto fare a chiunque altri con cui fosse in stretti rapporti di amicizia;

b) se le (rare) risposte dell’avvocato fossero di natura professionale (e, quindi, rientranti nell’ambito del mandato difensivo) oppure avessero una mera natura consolatoria ed “amicale” a fronte delle confidenze ricevute.

Non avendo il giudice adito operato in tale direzione, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di garanzie di libertà dei difensori previste dall’art. 103 c.p.p., il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata”.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Penale, Sentenza 18 giugno 2014, n. 26323)