Cassazione Penale: maltrattamento in danno del lavoratore dipendente

A norma dell’articolo 572 Codice Penale: (Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni".

Secondo la Cassazione "il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dall’articolo 572 Codice Penale di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente. La fattispecie in esame a differenza del maltrattamento in famiglia non richiede la convivenza ma la semplice sussistenza di un rapporto continuativo. In definitiva, gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell’ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti (Cass. 33624 del 2007)".

Nella fattispecie - ricorda la Cassazione - le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto e consistevano oltre che in ripetute e petulanti molestie sessuali, nell’abuso sessuale contestato al capo a) nonché nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga.

Quanto alla nozione dell’atto sessuale ed alla distinzione dell’ipotesi consumata da quella tentata, la Cassazione ha affermato che "secondo l’opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, la nozione di atto sessuale è la risultante della somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine, previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti, per cui essa viene a comprendere tutti gli atti che, secondo il senso comune e l’elaborazione giurisprudenziale, esprimono l’impulso sessuale dell’agente con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo. Orbene se la nozione di atto sessuale è riconducibile alla fusione delle precedenti nozioni di congiunzione carnale ed atti di libidine, la soluzione più lineare è quella di leggere l’atto sessuale come equivalente o della congiunzione carnale o dell’atto di libidine escludendo le condotte non rientranti in una di tali categorie. Devono pertanto essere inclusi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, o comunque su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica. I toccamenti di parti corporee diverse dai genitali o dalle zone che la scienza medica, psicologica, antropologica, qualifica come zone erogene, o comunque diverse da quelle che l’agente considera tali, configurano l’ipotesi del tentativo allorché, per la pronta reazione della vittima o per altre ragioni, l’agente non riesca a toccare la parte corporea presa di mira. In definitiva se il contatto corporeo riguardi una zona diversa da quella erogena o comunque diversa da quella effettivamente presa di mira dall’agente, perché quest’ultimo è costretto ad interrompere l’azione criminosa per la reazione della vittima o per altre ragioni, l’agente risponderà del solo tentativo, se l’intenzione era comunque libidinosa. Opinando diversamente dovrebbe rispondere del delitto consumato colui il quale afferri per le braccia una ragazza per baciarla senza raggiungere lo scopo per la reazione della vittima o per altre ragioni. In conclusione si può affermare il principio in forza del quale il tentativo di violenza sessuale sussiste, non solo quando gli atti idonei diretti in modo non equivoco alla perpetrazione dell’abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto corporeo, superficiale e fugace, non ha potuto raggiungere una zona erogena o comunque considerata tale e presa di mira dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla sua volontà. Il fatto contestato al prevenuto al capo a) non può essere qualificato come molestia sessuale, che è cosa diversa dall’abuso sessuale sia pure nella forma tentata".

(Corte di Cassazione - Sezione Terza Penale, Sentenza  7 luglio 2008, n.27469: Nozione di atto sessuale - Maltrattamento sul luogo di lavoro).

A norma dell’articolo 572 Codice Penale: (Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni".

Secondo la Cassazione "il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dall’articolo 572 Codice Penale di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente. La fattispecie in esame a differenza del maltrattamento in famiglia non richiede la convivenza ma la semplice sussistenza di un rapporto continuativo. In definitiva, gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell’ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti (Cass. 33624 del 2007)".

Nella fattispecie - ricorda la Cassazione - le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto e consistevano oltre che in ripetute e petulanti molestie sessuali, nell’abuso sessuale contestato al capo a) nonché nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga.

Quanto alla nozione dell’atto sessuale ed alla distinzione dell’ipotesi consumata da quella tentata, la Cassazione ha affermato che "secondo l’opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, la nozione di atto sessuale è la risultante della somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine, previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti, per cui essa viene a comprendere tutti gli atti che, secondo il senso comune e l’elaborazione giurisprudenziale, esprimono l’impulso sessuale dell’agente con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo. Orbene se la nozione di atto sessuale è riconducibile alla fusione delle precedenti nozioni di congiunzione carnale ed atti di libidine, la soluzione più lineare è quella di leggere l’atto sessuale come equivalente o della congiunzione carnale o dell’atto di libidine escludendo le condotte non rientranti in una di tali categorie. Devono pertanto essere inclusi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, o comunque su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica. I toccamenti di parti corporee diverse dai genitali o dalle zone che la scienza medica, psicologica, antropologica, qualifica come zone erogene, o comunque diverse da quelle che l’agente considera tali, configurano l’ipotesi del tentativo allorché, per la pronta reazione della vittima o per altre ragioni, l’agente non riesca a toccare la parte corporea presa di mira. In definitiva se il contatto corporeo riguardi una zona diversa da quella erogena o comunque diversa da quella effettivamente presa di mira dall’agente, perché quest’ultimo è costretto ad interrompere l’azione criminosa per la reazione della vittima o per altre ragioni, l’agente risponderà del solo tentativo, se l’intenzione era comunque libidinosa. Opinando diversamente dovrebbe rispondere del delitto consumato colui il quale afferri per le braccia una ragazza per baciarla senza raggiungere lo scopo per la reazione della vittima o per altre ragioni. In conclusione si può affermare il principio in forza del quale il tentativo di violenza sessuale sussiste, non solo quando gli atti idonei diretti in modo non equivoco alla perpetrazione dell’abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto corporeo, superficiale e fugace, non ha potuto raggiungere una zona erogena o comunque considerata tale e presa di mira dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla sua volontà. Il fatto contestato al prevenuto al capo a) non può essere qualificato come molestia sessuale, che è cosa diversa dall’abuso sessuale sia pure nella forma tentata".

(Corte di Cassazione - Sezione Terza Penale, Sentenza  7 luglio 2008, n.27469: Nozione di atto sessuale - Maltrattamento sul luogo di lavoro).