Art. 2

Giusto processo

1. Il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione. 

2. Il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo.

Bibliografia. P. De Lise, Verso il codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; P. De Lise, Giusto Procedimento e processulprocedimento, in www.giustizia-amministrativa.it; M. Mengozzi, Giusto processo e processo amministrativo: profili costituzionali, Giuffrè, 2009; F. Sorrentino, Le fonti del diritto amministrativo, Padova, 2009; F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in Giustizia amministrativa, a cura di F. G. Scoca, Torino, 2006; A. Schillaci, Il Consiglio di Stato e la CEDU, in www.diritticomparati.it.

 

Sommario. 1. Il principio nazionale ed europeo del giusto processo. 2. La ragionevole durata. 

1. Il principio nazionale ed europeo del giusto processo

Il principio del giusto processo è teso a garantire una tutela giurisdizionale a colui che afferma di essere stato leso in una propria situazione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo, quale livello minimo di tutela al di sotto del quale l’ordinamento positivo non può scendere.

Tale principio è tratto dalla lettura sistematica delle disposizioni costituzionali rilevanti in materia quali gli articoli 24, 98, 101, 103, 108, 111 e 113, nonché dal “principio di effettività” di cui al precedente articolo 1 CPA e dall’articolo 6 comma 1 CEDU nell’interpretazione fattane dalla Corte di giustizia.

La CEDU, e la giurisprudenza formatasi intorno all’articolo 6, hanno trovato collocazione nel nostro sistema di diritto secondo modalità non sempre uniformi. Dopo la revisione dell’articolo 117 della Costituzione (in cui, oggi, si prevede espressamente che la potestà legislativa sia esercitata nel rispetto degli “obblighi internazionali”), la Corte Costituzionale (24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349; 12 marzo 2010 n. 93) ha qualificato la normativa CEDU come fonte interposta subordinata alla Costituzione ma sovraordinata alla legge (con conseguente possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale concernenti la violazione dell’articolo 117 comma 1 qualora la disciplina interna sia incompatibile con quella europea). A seguito, però, della giurisprudenza amministrativa segnata dalla decisione del Consiglio di Stato, 2 marzo 2010 n. 1220, l’orientamento muta e i principi derivanti dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono ritenuti “direttamente applicabili nel sistema nazionale” vista l’entrata in vigore del nuovo testo dell’articolo 6 Trattato UE come modificato dal Trattato di Lisbona.

La questione, lungi dal costituire mero parametro di scelta tra la diretta applicazione o l’applicazione interposta, ha sollevato ampie perplessità che paiono trovare definizione attraverso, più che un facile automatismo, la ricerca di un equilibrio tra diritto internazionale e diritto costituzionale soprattutto laddove sia indubbia la “rilevanza materialmente costituzionale del diritto da applicare” (A. Schillaci).

Molte, sul punto, le questioni ancora aperte. L’Adunanza Plenaria 2/2015, nel caso di sentenza amministrativa passata in giudicato risultante in contrasto con la Corte che con propria sentenza abbia pronunciato l’effettiva violazione dell’articolo 46 della Convenzione ad opera del giudice nazionale, ritenendo sussistere un’ipotesi di revocazione della sentenza ha rimesso (per la terza volta)alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità dell’articolo 116 del codice del processo amministrativo nonché degli articoli 395 c.p.c. e 396 c.p.c. rispetto all’articolo 117, comma 1, 111 e 24 per non ricomprendere tra i rimedi anche quello della revocazione del giudicato amministrativo nel caso di conflitto tra il giudicato interno e la sentenza europea. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 123/2017, ha invero stabilito che non vi è l’obbligo per lo Stato della “riapertura del processo” in quanto gli Stati solo soltanto “incoraggiati a provvedere in tal senso”, fermo restando che è rimessa ad ogni singolo Stato la decisione di prevedere o meno come necessaria misura ripristinatoria la riapertura del processo; la Corte sottolinea che l’indicazione dell’obbligatorietà della riapertura del processo, quale misura atta a garantire la restitutio in integrum, è presente esclusivamente in sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato.

Peraltro, tra la connotazione europea di “giusto processo” e quella nazionale emergono alcune differenze la più importante delle quali è data dalla funzione, soggettiva ed oggettiva, che informa il principio stesso; mentre, infatti, l’articolo 6 CEDU pone il principio del giusto processo in funzione soggettiva, garantendo all’individuo dei diritti invocabili in sede sovranazionale contro le altre parti contraenti, nel diritto nazionale l’articolo 111 Cost. la matrice è oggettiva poiché si individua nel corretto esercizio del potere giurisdizionale l’interesse superiore da soddisfare.

I principi della parità delle parti e del contraddittorio sono declinazioni del principio del giusto processo; il contraddittorio richiamato nella norma costituisce direttiva non solo per il legislatore ma anche per il giudice, e deve essere assicurato in ogni fase del processo per essere completo e continuo.

Già dall’instaurazione del rapporto processuale, con la notifica del ricorso all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati, il legislatore ha inteso agevolare, nella fase introduttiva, l’individuazione – a volte non semplice – dei soggetti controinteressati limitando a solamente un controinteressato la notifica dell’atto introduttivo. La completezza e continuità del contraddittorio sono poi assicurate dal potere in capo al giudice di ordinarne l’integrazione, indicando le parti da evocare e fissando un termine, a pena di improcedibilità, entro cui le ulteriori notificazioni devono essere eseguite.

L’eventuale violazione del principio del contraddittorio assume differente rilievo a seconda che la violazione sia perpetrata quando la sentenza sia ancora soggetta ad impugnazione oppure sia passata in giudicato; nel primo caso, infatti, il giudice d’appello, atteso il vizio radicale inficiante la pronuncia, è tenuto a rimettere la causa al giudice prime cure affinché da questi venga adottata la decisione anche sulla base delle deduzioni della parte pretermessa; nel secondo caso, invece, il rimedio esperibile è l’opposizione di terzo.

Nel giudizio di ottemperanza, invece, il legislatore ha reso facoltativa la previa diffida dell’amministrazione, sostituita dall’onere di notifica del ricorso non solo alla parte pubblica ma anche, in attuazione del contraddittorio, a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza di cui viene chiesta l’esecuzione. 

La parità delle parti, collegata al principio del contraddittorio, completa il “giusto processo” nel senso che affinché tale principio risulti rispettato è necessario non solo che tutte le parti abbiano la possibilità di concorrere a formare il convincimento del giudice, ma anche che tale risultato venga raggiunto attraverso l’esercizio di poteri processuali equivalenti.

La differente posizione tra l’amministrazione che esercita poteri autoritativi (incidendo nella sfera giuridica del soggetto privato), quale parte resistente, ed il soggetto privato, quale parte ricorrente, ha importato la necessità di introdurre apposite disposizione che tenessero conto della particolare posizione assunta dal ricorrente prima della proposizione dell’impugnazione. Ad esempio, con riferimento alla disponibilità effettiva e materiale del provvedimento amministrativo e degli atti del procedimento che sono oggetto di impugnativa, accade che il ricorrente non abbia, pur conoscendolo, il provvedimento da impugnare, e non potrebbe quindi essere in grado di produrlo in giudizio perché, tra le altre ragioni, non gli è stato notificato; il legislatore ha previsto in tali casi, all’articolo 46 comma 2, che spetta all’amministrazione la produzione in giudizio, entro 60 giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notifica del ricorso, del provvedimento impugnato e degli altri atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato.

Così pure, nell’ambito dei poteri istruttori, il principio di allegazione e di prova che vede il ricorrente tenuto a produrre in giudizio i documenti e le prove a sostegno della sua domanda (onere probatorio) può subire, anche qui, una deroga in considerazione dello squilibrio tra la parte pubblica e quella privata. Il metodo acquisitivo consente, in tali casi, al giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione dei mezzi di prova che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione (articolo 64).

 

2. La ragionevole durata

Anche nel settore della giustizia amministrativa l’eccessiva durata dei processi, a seguito dell’aumento importante di contenziosi tra pubblica amministrazione e privati, ha costretto il legislatore a confrontarsi con la problematica approntando una serie di rimedi di tipo funzionale ed organizzativo volti a contrastare quello che è tristemente noto come uno dei mali del nostro sistema-giustizia.

Sotto il profilo funzionale, è stata realizzata un’opera di riforma dei principali istituti del processo amministrativo con lo scopo di velocizzare la definizione del giudizio. Con, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, il rito abbreviato, il rito immediato con decisione al ricorrere di determinati presupposti di definizione del giudizio, il procedimento monitorio, la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, il codice si è arricchito di rimedi contro la irragionevole durata del processo. 

Tra i rimedi organizzatori, invece, da un lato l’incremento del numero dei magistrati amministrativi e dall’altro l’introduzione del processo amministrativo telematico (PAT) hanno permesso al sistema una maggiore efficienza.

Concorre alla concreta attuazione del principio anche la reciproca cooperazione delle parti e del giudice che la giurisprudenza europea ha più volte trattato forgiando alcuni criteri interpretativi da utilizzare per valutare tanto la condotta delle parti quanto, appunto, quella del giudice. Con riferimento alle parti, la CEDU (6 maggio 1981, Bucholz c. Repubblica federale tedesca; 25 giugno 1987, Capuano c. Italia; 23 settembre 1998, I.A. c. Francia) ha ritenuto sussistere condotte abusive nei casi di intenzionale ritardo nella produzione documentale, nella proposizione di impugnazioni a scopo dilatorio, nella ripetuta presentazione di istanze di rinvio senza che vi fossero motivi ostativi alla trattazione della causa, con ciò respingendo le domande di riparazione per irragionevole durata del giudizio. Con riferimento al giudice, invece, la condotta appare censurabile tutte le volte in cui non risolva tempestivamente questioni procedurali semplici, impieghi un rilevante periodo di tempo per depositare la sentenza o si astenga dal sollecitare i consulenti che non abbiano rispettato il termine assegnato per il deposito della relazione oppure a sostituire i consulenti che abbiano presentato diverse istanze di proroga.

Ebbene non è agevole esprimere un giudizio sul rispetto del principio di ragionevole durata del processo se non dopo aver valutato, complessivamente, la disciplina processuale, l’organizzazione del sistema giudiziario e la condotta delle parti e del giudice. Se, dall’insieme dei predetti elementi, dovesse derivare una valutazione negativa, la parte processuale lesa sarà allora legittimata ad agire, se necessario anche a livello europeo, per chiedere l’equa riparazione del danno (L. 24 marzo 2001 n. 89).

 

Il punto di vista dell’Autore

Il “giusto processo”, e i rimedi riparatori previsti nel caso di violazione di tale principio, costituiscono da sempre un terreno di confronto acceso a livello giurisprudenziale tra le diverse posizioni delle Corti.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 123/2017, nel dichiarare infondata la prospettata questione di costituzionalità, ha “aperto” al legislatore ritenendo che le modalità di conformazione alla decisione CEDU che abbia dichiarata ingiusta una sentenza passata in giudicato è rimessa al prudente apprezzamento del legislatore, atteso che è sempre garantita la possibilità di fruire di una tutela per equivalente.