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Art. 26

Spese di giudizio

1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2. In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.

2. Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione.

Bibliografia. Luigi Viola, I danni punitivi nella responsabilità civile della p.a. dopo il nuovo Codice del processo amministrativo, 2010; Marco Macchia, Il processo amministrativo tra riorganizzazione e digitalizzazione in Giornale di diritto amministrativo 11/2014; L.P. Comoglio e R. Vaccarella con la collaborazione di M.C. Giorgetti, G. Finocchiaro, A. Scala, Codice di Procedura Civile commentato; G. Ferrari, Sinteticita` degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del Diritto2013, Roma, 2013; Silvia Ingegnatti, Diritto Amministrativo - Giustizia amministrativa, Giurisprudenza Italiana – 2014; Alessandro Pajno, Le nuove disposizioni correttive ed integrative al codice del processo amministrativo, Giornale di diritto amministrativo 1/2013.

 

Sommario. 1.Ratio e genesi della norma; 2. La soccombenza virtuale; 3. L’impugnazione della condanna alle spese; 4. La condanna alle spese per violazione del principio di sinteticità degli atti.

 

1. Ratio e genesi della norma

L’articolo 26 del codice del processo amministrativo stabilisce l’obbligo per il giudice di disporre sulle spese ogni volta che emette una decisione, e dunque fissa in modo esplicito e necessario il nesso di collegamento fra ciascuna decisione del Giudice Amministrativo e l’attribuzione delle relative spese processuali (cfr. Cons. St., sez. III, 26 maggio 2013, n. 3972).

I costi processuali sostenuti fino al momento della decisione devono, tuttavia, essere anticipati ai sensi dell’articolo 8 del Testo unico spese di giustizia (d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115) il quale dispone che “ciascuna parte deve farsi gravare il costo degli atti che compie e di quelli che chiede, così come il costo degli altri atti che risulteranno necessari per il processo e che dovranno compiersi in forza di legge o per disposizione del giudice”.

Tradizionalmente la giurisprudenza riteneva che il potere del giudice di compensare le spese fosse per lo più di natura discrezionale e quindi insindacabile, con l’unico limite di non poterne porre l’onere a carico della parte che fosse risultata interamente vittoriosa.

Per porre un freno al dilagare delle compensazioni che, implicando motivazioni pseudo-equitative, finivano con l’amputare una parte delle ragioni economiche della parte vincitrice (cfr. CGARS, sez. I, 19 aprile 2012, n. 40), è intervenuto il Legislatore novellando l’articolo 92, c. 2, c.p.c. (dapprima con l’articolo 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente articolo 45, comma 11, legge 18 giugno 2009, n. 69) il cui testo vigente dispone ora che “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Quest’ultima formulazione dell’articolo 92 c.p.c. è stata integralmente recepita anche dall’articolo 26 CPA il quale fa espresso riferimento alle norme del codice di procedura civile in tema di compensazione delle spese (articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97). 

Anche nel processo amministrativo le spese di giudizio seguono, pertanto, il principio della soccombenza ex articolo 91 c.p.c.

La novella dell’articolo 92, c. 2, c.p.c. ha, infatti, limitato la compensazione delle spese alla sussistenza di gravi ed eccezionali ragioni debitamente motivate non essendo sufficiente la generica motivazione di stile secondo cui ricorrono “giusti motivi per la compensazione” delle spese. 

I motivi che eventualmente giustifichino la compensazione delle spese devono essere, dunque, chiaramente desumibili dalla decisione e devono tener conto del fatto che di regola le spese seguono la soccombenza, nonché, in punto di fatto, delle circostanze della vicenda concreta (cfr. Cons. St., sez. IV, 24 novembre 2016, n. 4948).

Ad ogni buon conto parte della giurisprudenza – pur dando atto della tendenza legislativa a rendere recessiva l’ipotesi della compensazione – ritiene che il “T.A.R. mant(enga) amplissimi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla detta compensazione ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare, totalmente o parzialmente, alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio, e ciò tenendo presente che la valutazione di merito sulla compensazione delle spese non è sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione”. (ex multis Cons. St., sez. IV, 13 dicembre 2016, n. 5226).

Il 2° comma della norma in commento introduce, secondo la dottrina, una disciplina specifica dettata per il processo amministrativo, destinata a sostituire la previsione più generica di cui all’articolo 96, 3º c., c.p.c.

La logica di tale disposizione consiste nella comminatoria di una sanzione, ulteriore e aggiuntiva alla ordinaria soccombenza, finalizzata a ridurre il contenzioso e contrastare l’abuso del processo. 

Si tratta, in ogni caso, di una ipotesi di più rara applicazione. La giurisprudenza adotta, infatti, un’interpretazione restrittiva delle ipotesi idonee ad integrare tale “sanzione aggiuntiva”. 

Invero, come precisato dai giudici di Palazzo Spada, ai fini della integrazione della responsabilità aggravata ex articolo 26 CPA, una difesa può considerarsi temeraria solo quando, oltre a essere erronea in diritto, riveli la consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormale (cfr. Cons. St., sez. V, 27 agosto 2014, n. 4384).

L’articolo 41, c. 1, lett. b), d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 114) ha inserito, inoltre, all’articolo 26, c. 2, CPA un’ulteriore sanzione pecuniaria per lite temeraria nell’ambito del contenzioso sui pubblici appalti. 

Con la novella introdotta dal menzionato dal menzionato articolo 41, infatti, l’importo della sanzione pecuniaria prevista dal 2° comma dell’articolo 26 CPA (dal doppio al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo), può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove il valore del contratto sia superiore al quintuplo del contributo unificato.

 

2. La soccombenza virtuale

Deve evidenziarsi, altresì, come ai sensi del combinato disposto degli articoli 26 CPA e 92, c. 2., c.p.c., il giudice, qualora dichiari cessata la materia del contendere per sopraggiunta carenza d’interesse, deve valutare, ove persista contrasto tra le parti in ordine alla sola regolamentazione delle spese giudiziali, quale sarebbe stato l’esito del giudizio, secondo il criterio della c.d. soccombenza virtuale (cfr. Cons. St., sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2208).

Alla stregua del criterio della soccombenza virtuale il giudice dovrà, dunque, prendere in esame le questioni sollevate dalla parte ricorrente per valutarne la fondatezza al solo fine di regolare le spese del giudizio.

 

3. L’impugnazione della condanna alle spese

La dottrina si è spesso interrogata sulla possibilità di impugnare la statuizione del giudice sulla condanna alle spese.

A tale interrogativo ha dato risposta la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “la sindacabilità in appello della condanna alle spese comminata in primo grado, in quanto espressiva della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo, è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la manifesta abnormità” (Cons. St. Sez., sez. III, 31 marzo 2016 n. 1262). 

La possibilità di impugnare la statuizione sulla condanna alle spese è, dunque, strettamente limitata a due ipotesi tassative: 1) la modifica della decisione di 1° grado; 2) la pronuncia deve essere affetta da abnormità manifesta.

Per quanto riguarda specificatamente la manifesta abnormità ed i suoi confini non sempre nitidi, la giurisprudenza ha chiarito che questa sussiste allorquando “l’ammontare delle singole partite computate (spese per atti del procedimento, onorari e diritti) sia sproporzionato rispetto alle spese documentate o in relazione all’impegno professionale profuso, secondo un criterio di proporzionalità e ragionevolezza che si desume dall’articolo 2233, comma secondo, c.c.” (Cons. St. Sez., sez. III, 31 marzo 2016 n. 1262).

 

4. La condanna alle spese per violazione del principio di sinteticità degli atti

Il dovere di sinteticità degli atti è stato introdotto nel processo amministrativo con l’adozione dell’articolo 3, c. 2, CPA ai sensi del quale “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”.  

Prima dell’introduzione della norma sopra citata, il dovere di sinteticità era già stato definito dalla giurisprudenza civile ed amministrativa quale corollario del giusto processo e condizione indispensabile per giungere ad una rapida definizione del giudizio (cfr. Corte Cass., sez. un., 11 aprile 2012, n. 5698), 

La mancanza di una specifica previsione normativa che sanzionasse la violazione del dovere di sinteticità aveva ingenerato, tuttavia, almeno in parte della dottrina, l’opinione che il menzionato dovere più che un precetto a cui conformarsi fosse una mera raccomandazione.

Per ovviare a tale problematica il Legislatore, con d.lgs. del 14 settembre 2012, n. 160, ha inserito nel testo del 1° comma della norma in commento, un esplicito richiamo al rispetto del dovere di sinteticità degli atti, disponendo che il giudice, in sede di determinazione delle spese giudiziali, debba tener conto anche del rispetto di tale obbligo.

La soluzione adottata dal Legislatore per dare contenuto concreto al principio di sinteticità consente al giudice, indipendentemente dalla soccombenza, di condannare una parte al rimborso delle spese, per violazione del dovere di lealtà e probità, che essa ha causato all’altra parte. 

La stessa giurisprudenza ritiene applicabile, del resto, il combinato disposto degli articoli 26 CPA e 92, c. 2, c.p.c. anche alla parte vittoriosa in giudizio (ex multis, Cons. St., sez. III, 19 marzo 2014, n. 1361).

Deve essere evidenziato, infine, come la giurisprudenza ha ritenuto applicabile la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 26, c. 2, CPA  anche alla violazione del dovere di sinteticità previsto dall’articolo 3, c. 2, CPA, essendo lo scopo della norma “quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria” (Cons. St., sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210).

 

Il punto di vista degli Autori

Analizzata, senza pretese di completezza, la disciplina di cui all’articolo 26 CPA, sembra opportuna una breve riflessione sulle possibili eccezioni che il principio di soccombenza può incontrate nella sua applicazione concreta.

Come visto, di regola, le spese di giudizio seguono la soccombenza. Il giudice amministrativo mantiene, tuttavia, ampi poteri discrezionali ed equitativi grazie ai quali può discostarsi da detto principio, in considerazione della difficoltà della questione giuridica sottesa alla causa o dal comportamento tenuto delle parti nel corso del giudizio.

Con specifico riferimento al comportamento delle parti deve evidenziarsi come questo non sia lasciato esclusivamente alla valutazione discrezionale del giudice ma trova specifico ancoraggio normativo nell’articolo 88 c.p.c. ai sensi del quale “le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità. In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi”.

Tale norma può essere applicata pacificamente anche nell’ambito del processo amministrativo.

L’articolo 92 c.p.c., espressamente richiamato dall’articolo 26 CPA, prevede, infatti, al 1° comma, che il giudice “può indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte” (sul punto si veda Cons. St., sez. IV, 9 aprile 2018, n. 2142).

Il Consiglio di Stato ha avuto modo di pronunciarsi, inoltre, sul carattere indeterminato del precetto dell’articolo 88 c.p.c. chiarendo che questo è colmato “dalla enumerazione dei puntuali doveri deontologici forensi (dettati a livello nazionale ed europeo)” quali “il dovere di verità sancito dall’articolo 14, co. 1, del Codice deontologico forense ratione temporis vigente” o ancora “l’obbligo di non aggravare la posizione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita, sancito dall’articolo 49 del Codice deontologico applicabile” (Cons. St., sez. V, 25 febbraio 2015, n. 930).

Con una recente pronuncia i Giudici di Palazzo Spada hanno condannato, inoltre, alle spese di lite ex articolo 88 c,.p.c., la parte che pur vittoriosa in doppio grado aveva dimostrato “inosservanza del divieto di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio (....) consentendo che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per ben dieci anni” (Cons. St., sez. IV, 9 aprile 2018, n. 2142).    

Alla luce di quanto esposto sembra potersi affermare, senza timore di smentita, che il principio di soccombenza ceda il passo dinanzi a comportamenti della parte, che pur vittoriosa, contrastino con i gli indicati doveri di lealtà e probità.