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Art. 18 - Applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali. Morte del proposto

1. Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione.

2. Le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. In tal caso il procedimento prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa.

3. Il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere iniziato anche in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta la confisca; in tal caso la richiesta di applicazione della misura di prevenzione può essere proposta nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare entro il termine di cinque anni dal decesso.

4. Il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere iniziato o proseguito anche in caso di assenza, residenza o dimora all’estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione, su proposta dei soggetti di cui all’articolo 17 competenti per il luogo di ultima dimora dell’interessato, relativamente ai beni che si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

5. Agli stessi fini il procedimento può essere iniziato o proseguito allorché la persona è sottoposta ad una misura di sicurezza detentiva o alla libertà vigilata.

Rassegna di giurisprudenza

Natura delle misure di prevenzione patrimoniale

La misura della confisca di prevenzione ha carattere che la assimila alle misure di sicurezza e che rende operativo lo statuto di cui all’art. 200 CP (SU, 4880/2015). In questa logica è stata esclusa l’assimilabilità ad una pena in senso stretto con recupero della sua funzione al principio di cui all’art. 7 CEDU (Sez. 1, 36853/2017).

 

Periodo di manifestazione della pericolosità sociale e sua rilevanza per le misure patrimoniali

La pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla cosiddetta pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (SU, 4880/2015).

Fermo restando il principio che la pericolosità (rectius, l’ambito cronologico della sua esplicazione) è “misura” dell’ablazione, la proiezione temporale di tale qualità non sempre è circoscrivibile in un determinato arco temporale.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui la pericolosità investa, come accade ordinariamente, l’intero percorso esistenziale del proposto e ricorrano i requisiti di legge, è pienamente legittima l’apprensione di tutte le componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza, delle quali non risulti, in alcun modo, giustificato il legittimo possesso.

Resta ovviamente salva – come per la pericolosità generica – la facoltà dell’interessato di fornire prova contraria e liberatoria, attraverso la dimostrazione della legittimità degli acquisti in virtù di impiego di lecite fonti reddituali.

Con l’imprescindibile corollario che una prova siffatta, specie per gli acquisti risalenti nel tempo, non deve rispondere, neppure in questo caso, ai rigorosi canoni probatori del giudizio petitorio, con il rischio di assurgere al rango di probatio diabolica, potendo anche affidarsi a mere allegazioni, ossia a riscontrabili prospettazioni di fatti e situazioni che rendano, ragionevolmente, ipotizzabile la legittima provenienza dei beni in contestazione (SU, 4880/2015).

Le Sezioni Unite pretendono da tempo che la pericolosità sociale sia, oltre che presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, sicchè con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (SU, 4880/2015).

Ciò che legittima il vincolo di prevenzione, pertanto, non è la verifica della pericolosità “attuale”, ma l’accertamento della correlazione temporale tra stato di pericolosità ed acquisto del bene da vincolare (Sez. 5, 18303/2019).

Le Sezioni unite hanno impostato in termini economici la stessa individuazione dei profili di disponibilità di fatto del bene, rilevante a fini della confisca di prevenzione, individuando come aspetto legittimante l’ablazione non la generica contaminazione – per il suo utilizzo da parte del soggetto pericoloso –, bensì la modalità illecita della sua acquisizione finanziaria, in tutto in parte, con prova indiziaria di derivazione di tale acquisizione con risorse illecite, il che consente di ritenere trasferita al bene la pericolosità.

Inoltre, va osservato come la stessa sproporzione di valori tra redditi leciti ed investimenti riferibili al soggetto pericoloso, altro non rappresenta che una presunzione legale relativa di derivazione illecita, contrastabile con idonee allegazioni da parte del soggetto medesimo e, pertanto, non assurge ad autonomo presupposto della confisca, trattandosi, piuttosto, di un criterio di semplificazione probatoria alternativo alla prova di derivazione diretta del bene dal profitto dell’attività illecita; ciò risulta, peraltro, in linea con la direttiva 2014/24/UE, oltre che con la giurisprudenza di legittimità che, tradizionalmente ha affermato come la sproporzione di valori funga da parametro indicatore e da criterio di semplificazione probatoria, che cede il passo alla prova della derivazione diretta dei beni dall’attività illecita svolta dal proposto, su cui si fonda l’in sé del meccanismo ablatorio (Sez. 5, 43405/2019).

Il provvedimento ablativo deve essere sempre rispettoso del principio di equità e contemperare il principio costituzionale di cui all’art. 42 Cost. con le generali esigenze di prevenzione e di difesa sociale, sicché esso deve colpire solo i beni di accertata provenienza illecita o quelli di cui non sia giustificata la (lecita) provenienza: tali non sono, certamente, quelli acquisiti nel periodo in cui nessun rimprovero di pericolosità è stato mosso al proposto, ovvero quelli acquisiti – anche in epoca sospetta – con fondi di accertata provenienza lecita (Sez. 5, 3846/2017).

Ai fini dell’applicazione di misura di prevenzione patrimoniale, è sempre necessario un concreto accertamento incidentale intorno ai contenuti e alla datazione della pericolosità personale del proposto, poiché l’istituto della confisca di prevenzione, pur se utilizzabile anche in assenza di pericolosità attuale del destinatario del provvedimento al momento in cui ne è presentata la richiesta, si caratterizza in ogni caso per la funzione di fronteggiare la pericolosità del prevenuto esistente al momento dell’acquisizione dei beni oggetto di ablazione e che, come tale, determina la pericolosità di questi ultimi (Sez. 2, 24276/2014).

La riforma del sistema delle misure di prevenzione portata a compimento negli anni 2008 e 2009 e l’introduzione della possibilità di confisca definita disgiunta non hanno inciso sulla necessità del riscontro del nesso di concreta correlazione tra la pericolosità in termini di prevenzione di un determinato soggetto, appurata sulla scorta degli indici comportamentali a lui ascrivibili, e gli effetti in termini di acquisizione patrimoniale che ne sono derivati, sicché è imprescindibile che per addivenire alla confisca in sede di prevenzione di determinati cespiti risulti appurato che essi siano stati acquisiti al patrimonio formale o alla disponibilità di fatto del suddetto soggetto nel periodo corrispondente a quello in cui si è manifestata la pericolosità o nel tempo immediatamente successivo, se si tratti di effetto del relativo reimpiego (Sez. 1, 50463/2017).

Nel quadro disegnato, anche di recente, dalla giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza 33/2018)) e sovranazionale (Direttiva 2014/42/UE) possono essere individuate due convergenti esigenze: che, per un verso, venga individuata una qualche condotta criminosa fonte di una illecita accumulazione di denaro o altri beni; per altro verso, che la derivazione dell’illecito arricchimento possa essere ricavata da tutte le circostanze del caso di specie, tra le quali, in particolare, finisce per assumere una pregnanza contenutistica determinante quella della incoerenza economica tra il valore di quei beni e il reddito legittimo della persona cui l’illecita condotta viene ad essere ascritta.

La questione involge la portata e le implicazioni della sentenza 4880/2015 con cui le Sezioni unite, all’esito di una ampia ricostruzione, hanno concluso nel senso che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, con la conseguenza per cui, con riferimento alla cosiddetta pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. 2, 18254/2018).

In tema di misure di prevenzione, ove la fattispecie concreta consenta al giudice di determinare il momento iniziale ed il termine finale della pericolosità sociale qualificata, sono suscettibili di confisca solo i beni acquistati in detto periodo temporale, salva restando la possibilità per il proposto di dimostrare l’acquisto dei beni con risorse preesistenti all’inizio dell’attività illecita (Sez. 6, 31634/2017).

È legittima la confisca di prevenzione di una società, acquisita dal proposto nel periodo di accertata pericolosità, la cui attività sia caratterizzata sin dall’origine dall’impiego sproporzionato di risorse illecite in misura tale da viziare geneticamente l’operatività dell’ente, divenuto il risultato di siffatto impiego, rendendo indistinguibile l’attività illecita da quella lecita (Sez. 6, 43447/2017).

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell’intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell’impresa “mafiosa”, ai sensi dell’art. 2–ter  L. 575/1965, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base della presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite (Sez. 2, 14165/2018).

Allorché gli acquisti si realizzino in un periodo corrispondente con quello per cui è stata asseverata la pericolosità qualificata ed il giudice del merito dia conto dell’esistenza di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi che dette acquisizioni patrimoniali siano la diretta derivazione causale proprio della provvista formatasi nel periodo di illecita attività, legittimamente può applicarsi la misura ablatoria, in quanto esistente un collegamento di tipo logico tra il fatto presupposto, la pericolosità del proposto, e l’incremento patrimoniale “ingiustificato” che ha generato le risorse oggetto di confisca (Sez. 5, 35842/2018).

Il concetto di impresa mafiosa prescinde dall’eventuale origine formalmente lecita dei beni aziendali, poiché implica un’attività imprenditoriale inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati sull’intimidazione mafiosa e laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto e l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti, la confisca disposta in sede di prevenzione sulla base di una accertata pericolosità qualificata si estende a tutto il patrimonio aziendale e a tutto il capitale sociale (ivi comprese le quote sociali di terzi), nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote (Sez. 6, 30200/2019).

L’impresa mafiosa, come noto, costituisce una species del genus “impresa illecita”. Secondo la nozione datane dalla giurisprudenza di legittimità, si parla di “impresa mafiosa” allorquando esista una situazione di totale sovrapposizione fra la compagine associativa e la consorteria criminale o, comunque, quando l’intera attività d’impresa sia “inquinata” dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto, che abbiano determinato una contaminazione irreversibile dei meccanismi di accumulazione della ricchezza prodotta, di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6, 39911/2014).

A tale ipotesi, è stato aggiunto anche il caso in cui l’impresa sia posta sotto il diretto controllo della consorteria, condividendone progetti e dinamiche operative e divenendone, quindi, lo strumento operativo per la realizzazione del programma criminoso, determinando così una obiettiva commistione di interessi fra attività di impresa ed attività mafiosa (Sez. 6, 13296/2018).

Volendo ricostruire l’argomento in modo sistematico, deve rilevarsi che la dottrina individua tre tipologie di impresa mafiosa: l’impresa mafiosa “originaria”, caratterizzata da una forte individualizzazione intorno alla figura dominante del fondatore, che la gestisce direttamente con metodo mafioso; l’impresa di proprietà del mafioso, che non la gestisce direttamente, ma esercita in modo mediato la funzione di direzione, avvalendosi di un prestanome; l’impresa “a partecipazione mafiosa”, nella quale il titolare non è un prestanome, ma rappresenta anche i propri interessi.

Tale differenziazione, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, riveste fondamentale importanza ai fini della determinazione dei patrimoni confiscabili e dell’individuazione del requisito della disponibilità dei beni, a prescindere dalla formale intestazione; ed invero, mentre nei primi due casi non sussistono particolari problemi, perché ci si trova innanzi ad imprese create con capitali di origine illecita e gestite con metodo mafioso, nella terza ipotesi occorre operare un ulteriore discrimine tra la situazione in cui vi sia stata una “semplice” immissione di capitali illeciti, senza alterazione del ciclo aziendale, e quella in cui vi sia stato un inquinamento del ciclo aziendale, in quanto quest’ultimo è esercitato con metodi mafiosi (Sez. 5, 32688/2018).

È noto che la giurisprudenza di legittimità, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, ha avuto modo di affermare che la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di provenienza illecita, specie nel caso in cui l’intera attività di impresa sia stata agevolata dalle cointeressenze con organizzazioni criminali di tipo mafioso (Sez. 5, 16311/2014).

E, ancora, è stato sostenuto che la confisca, disposta ai sensi dell’art. 2–ter L. 575/1965, di una impresa costituita in forma societaria, della quale sia stato accertato il carattere mafioso per il fatto di avere stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un’associazione mafiosa ed in cointeressenza con essa, si estende a tutto il patrimonio aziendale ed a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto e laddove l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti (Sez. 2, 9774/2015).

In base a tale orientamento ermeneutico, quindi, anche nell’ipotesi di un’origine lecita l’evoluzione dell’impresa è compromessa nel suo insieme dall’inquinamento arrecato dall’illecita commistione di affari ed interessi economici con il potentato mafioso, cui si è offerta o di cui si è accettata la contiguità: infatti, a fronte di una comprovata situazione di contiguità mafiosa, il sintomo principale dell’illecita provenienza dei beni, e cioè la sproporzione tra patrimonio e reddito d’impresa, cede necessariamente all’evidenza del fattore inquinante di origine, e cioè la contiguità mafiosa stessa (Sez. 1, 14280/2012).

Di talché, sarebbe comunque irrilevante l’eventuale origine formalmente “pulita” dei beni aziendali, trattandosi di attività imprenditoriale inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati sulla intimidazione mafiosa; l’impresa mafiosa, infatti, non solo pratica forme più o meno intense di intimidazione verso la concorrenza, ma deve la produzione di reddito a vantaggi di origine illecita, quali la disponibilità agevole di liquidità di fonte illecita e la diffusa intimidazione esercitata sul territorio (Sez. 5, 32688/2018).

Una pronuncia abbastanza recente, precisando ed in parte modificando i principi di diritto sopra riportati, ha statuito che, affinché l’azienda possa dirsi confiscabile nella sua interezza, è necessario operare un giudizio di prevalenza, per valore, dell’attività illecita rispetto a quella lecita; invero, accedendo alla tesi dell’unitarietà del bene, questo potrà dirsi di provenienza illecita, e dunque sarà integralmente confiscabile, solo in caso di assoluta o “nettissima” preponderanza della componente illecita.

Pertanto, ne deriverebbe che, anche a fronte di apporti illeciti rilevanti, si possano sottoporre ad ablazione solo quelle parti o quote di valore (e di patrimonio) riferibili alle attività illecite medesime (Sez. 6, 31634/2017).

Deve ulteriormente darsi conto dell’orientamento secondo il quale, proprio in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell’intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell’impresa mafiosa, ai sensi dell’art. 2–ter L. 575/1965, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base di una presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite.

In sostanza, applicando il principio secondo il quale l’ambito cronologico dell’esplicazione della pericolosità è “misura” dell’ablazione anche nel caso di pericolosità qualificata, saranno suscettibili di apprensione coattiva soltanto i beni ricadenti nell’anzidetto perimetro temporale, restando ovviamente salva la facoltà dell’interessato di fornire prova contraria e liberatoria, attraverso la dimostrazione della legittimità degli acquisti in virtù dell’impiego di lecite fonti reddituali (Sez. 6, 48610/2017) ((riassunzione operata da Sez. 5, 43505/2019).

 

Ripartizione dell’onere della prova

In tema di confisca di prevenzione, anche a seguito delle modifiche apportate all’art. 2–ter, comma 1, primo periodo, L. 575/1965, dalla L. 125/2008, spetta alla parte pubblica l’onere della prova della sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del soggetto nonchè della illecita provenienza dei beni, dimostrabile anche in base a presunzioni, mentre è riconosciuta al proposto la facoltà di offrire prova contraria; d’altra parte, la presunzione di illecita provenienza dei beni ha natura di presunzione relativa e per l’assolvimento dell’onere probatorio posto a carico del soggetto inciso è sufficiente la mera allegazione di fatti, situazioni o eventi che, ove riscontrabili, siano idonei, “ragionevolmente e plausibilmente”, ad indicare la lecita provenienza dei beni, posto che la conformità del sistema acquisitivo dei beni sottoposti a confisca di prevenzione ai parametri costituzionali ed ai principi dell’ordinamento sovranazionale è assicurata dal riconoscimento al soggetto inciso della facoltà di prova contraria, che rende la presunzione de qua meramente relativa (SU, 4880/2015).

In tema di confisca di prevenzione, la presunzione di illecita provenienza dei beni ha natura di presunzione relativa e per l’assolvimento dell’onere probatorio posto a carico del soggetto inciso è sufficiente la mera allegazione di fatti, situazioni o eventi che, ove riscontrabili, siano idonei, “ragionevolmente e plausibilmente’, ad indicare la lecita provenienza dei beni (SU, 4880/2015).

 

Irrilevanza del nesso causale tra condotta mafiosa e formazione del profitto illecito

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, è irrilevante l’assenza di motivazione del provvedimento ablativo in ordine al nesso causale fra la presunta condotta mafiosa e la formazione dell’illecito profitto, dovendosi ritenere sufficiente al riguardo la dimostrazione della illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca (Sez. 5, 18303/2019).

 

Assenza di preclusioni derivanti dall’esito del procedimento svolto in riferimento all’art. 12–sexies DL 306/1992

Il giudizio negativo sulla confiscabilità dei beni, espresso nel procedimento svolto ai sensi dell’art. 12–sexies DL 306/1992 non è idoneo a determinare preclusioni nell’ambito del giudizio di prevenzione, successivamente avviato, allorquando la valutazione in ordine all’assenza di sproporzione fra il patrimonio nella disponibilità del proposto e i proventi della sua attività economica sia dipeso, nella prima occasione, dalla considerazione di redditi sottratti alla imposizione fiscale, trattandosi di proventi dei quali non è invece possibile tenere conto, ai fini del giudizio di proporzionalità, nel procedimento per l’applicazione della confisca di prevenzione (Sez. 1, 50163/2017).

La confisca di prevenzione e la confisca cosiddetta allargata, di cui all’art. 12–sexies DL 306/1992 presentano presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che, se per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell’interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest’ultimo dichiarato ovvero all’attività economica dal medesimo esercitata, tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego; ne consegue che la preclusione ex art. 649 CPP opera solo se il primo giudizio, oltre ad avere riguardato gli stessi beni, nella disponibilità delle medesime persone, abbia avuto quale oggetto contenuti cognitivi omogenei avuto riguardo alla provenienza dei beni (Sez. 5, 15284/2018).

 

Confisca post–mortem

Con sentenza 12621/2017, le Sezioni unite, dopo aver evidenziato come lo scopo perseguito dal legislatore vada individuato nell’intento di eliminare dal circuito economico, collegato ad attività e soggetti criminosi, beni dei quali non venga fornita una dimostrazione di lecita acquisizione (SU, 4880/2015), scopo che la Corte costituzionale ha ritenuto in linea con il quadro dei princìpi delineato dalla Costituzione (sentenze 21/2012 e 216/2012), hanno riconosciuto come la qualità di successore non precluda la possibilità di far valere il proprio autonomo diritto sul bene oggetto della proposta di confisca.

Ciò premesso, le Sezioni unite riconoscono che le nozioni di «erede» e di «successore a titolo universale o particolare», cui fa riferimento l’art. 18, commi 2 e 3, sono quelle proprie del codice civile, senza alcuna possibilità di dare rilievo all’anomala figura di erede o successore “di fatto”. Invero, pur se le norme lasciano affiorare talune divergenze lessicali nella formulazione delle previsioni (vedi, comma 2 dell’art. 18, in cui si parla di eredi o aventi causa del soggetto proposto per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale e comma 3 dell’art. 18, inerente i successori a titolo universale o particolare), il riferimento alla disciplina del codice civile consente di individuare con certezza tali figure, poiché se la nozione di successore a titolo universale integra quella dell’erede che subentra nella totalità del patrimonio de cuius, ovvero in una sua quota, la connessa definizione di successore a titolo particolare sta ad indicare la posizione di colui che subentra in uno o più diritti specificamente individuati dal de cuius (il legatario), in parziale sovrapposizione con la più ampia area semantica della nozione di “aventi causa”, che fa riferimento al coinvolgimento anche di terzi intestatari di beni loro trasferiti in vita dal proposto.

V’è quindi consapevole richiamo a termini ed istituti che trovano la loro disciplina in ambito civilistico, con conseguente esclusione di interpretazioni di tipo analogico.

Peraltro, le medesime Sezioni Unite ricordano come le finalità e l’ampia estensione dei contenuti dell’azione di prevenzione patrimoniale – finalizzata al recupero di beni la cui illecita disponibilità da parte del de cuius prosegua a qualsiasi titolo, dunque anche nei termini di una “signoria di fatto” nei successori a titolo universale o particolare, ovvero nei terzi interessati ex art. 23 – non presuppongono, ai fini della materiale apprensione, il preventivo transito temporaneo dei beni all’interno del patrimonio ereditario, né possono subire limitazioni di ordine soggettivo sul piano della instaurazione del contraddittorio, non essendovi alcun rapporto di necessaria identificazione tra i destinatari formali dell’azione (i successori del soggetto indiziato di pericolosità) e i titolari dei diritti sui beni aggredibili nel procedimento di prevenzione (da coinvolgere nel contraddittorio come parti eventuali): conclusione – quest’ultima – che non può che prendere le mosse dall’ampia nozione di disponibilità “a qualsiasi titolo” del bene impiegata negli artt. 24, comma 1 e 20, comma 1, e dal presupposto che i beni nella disponibilità del soggetto pericoloso al momento del decesso, in quanto tali, presentano uno stigma tendenzialmente indissolubile e indipendente dalla persistenza in vita del soggetto potenziale destinatario della misura patrimoniale.

Analoghe limitazioni alla proponibilità dell’azione devono escludersi anche con riferimento all’esigenza di un preventivo obbligo giudiziale – dalla legge non contemplato – di declaratoria della nullità dell’atto dispositivo ai fini della validità della misura ablativa, potendosi compiere detto accertamento anche in via incidentale.

L’art. 26, comma 1, nel recepire il tenore letterale dell’abrogata disposizione di cui all’art. 2–ter L. 575/1965, per effetto delle modifiche apportate dal DL 92/2008 convertito con L. 125/2009, stabilisce, con una formulazione “aperta”, comprensiva di ogni atto che realizzi il concreto risultato di una volontaria attribuzione del bene al fine di eluderne l’apprensione statale, che «quando accerta che taluni beni sono stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, con il decreto che dispone la confisca il giudice dichiara la nullità dei relativi atti di disposizione». In realtà – ritengono le Sezioni unite – alla disposizione dell’art. 26 è attribuibile una valenza meramente esplicativa, ossia di formale ricognizione “esterna”, dell’effetto di acquisizione al patrimonio dello Stato che la confisca, ove disposta nel rispetto del contraddittorio con i terzi interessati, è per sé stessa in grado di produrre.

Appare chiaro pertanto come la confisca di prevenzione possa riguardare non solo i beni caduti in successione ma anche i beni che erano nella disponibilità del de cuius pericoloso, ma fittiziamente intestati e trasferiti a terzi. Sotto questo profilo, la semplice mancanza della qualità di erede non impedisce la valutazione della pericolosità dell’intestatario fittizio del bene ai fini dell’emissione a suo carico di una misura di prevenzione patrimoniale, ben potendosi apprezzare la finalità meramente elusiva che tale condotta di intestazione fittizia può in tal modo realizzare. Il bene viene pertanto colpito non solo se ricorrono gli ordinari presupposti dell’illecita provenienza, ma anche se è stato acquistato da persona che era, all’epoca, pericolosa.

Il mero decorso del tempo, o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto (ovvero, qualunque ragione che non consenta di applicare la misura di prevenzione), non possono avere l’effetto positivo di rendere lecito il possesso del bene da parte di colui che lo ha illecitamente acquisito o ne trae la conseguente utilità, sia pure di riflesso, quale successore a titolo universale o particolare (Sez. 2, 27431/2017).

Anche quando l’azione di prevenzione patrimoniale sia esercitata dopo la morte del soggetto socialmente pericoloso, la confisca può avere ad oggetto non solo i beni pervenuti a titolo di successione ereditaria, ma anche i beni che, al momento del decesso, erano comunque nella disponibilità del “de cuius”, essendo stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi (SU, 12621/2017).

L’art. 18, comma 3, consente l’esercizio dell’azione di prevenzione nei confronti degli eredi del soggetto che avrebbe potuto essere destinatario della medesima azione solo nel termine predetto: tuttavia, ciò vale solo nel caso “... in cui con la proposta si intenda attingere il patrimonio del de cuius in relazione alla pericolosità di lui e non anche in relazione alla pericolosità dell’erede, il quale ... potrebbe aver ricevuto i beni iure hereditario senza rientrare tra i soggetti di cui all’art. 4 e senza aver manifestato qualsivoglia pericolosità. In questo caso, il termine posto dalla legge salvaguarda l’affidamento dell’erede che non è socialmente pericoloso e la certezza dei rapporti giuridici (Sez. 2, 27430/2017).

Il termine quinquennale previsto dall’art. 18, comma 3, non si applica ai beni che siano stati fittiziamente intestati ai propri familiari dal proposto, in quanto non richiamato nell’art. 26 (nel cui secondo comma sono previsti dei termini ma solo in tema di presunzione della fittizietà (Sez. 2, 27431/2017).

Può essere applicata una misura di prevenzione patrimoniale a chi non abbia mai patito una condanna per un delitto in considerazione del sistema probatorio attenuato del processo di prevenzione, tanto più quando gli elementi che avrebbero potuto giustificare e sostenere l’accusa in giudizio sono stati accertati in epoca successiva al decesso del soggetto da sottoporre alla misura, tramite i suoi successori (Sez. 6, 31504/2017).

 

Soggetti dimoranti all’estero

Non sussiste alcun divieto di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali – al pari di quelle personali – nei confronti di soggetti dimoranti all’estero o nei cui confronti si sia pervenuti all’apprensione dei beni fuori del territorio nazionale (Sez. 5, 35842/2018).

Ai fini dell’applicazione dell’art. 18, comma 4, i concetti di residenza e dimora stanno a significare il riferimento al luogo di stabile abitazione del soggetto proposto, sia esso conforme alle risultanze formali (residenza) oppure no (dimora): donde la conclusione che lo spostamento all’estero del proposto deve avere il carattere se non della definitività, quanto meno della stabilità, non potendo perciò essere richiamate le nozioni civilistiche di residenza e – soprattutto – di dimora (della quale ultima, peraltro, il codice civile non offre alcuna definizione formale – che, non a caso, la giurisprudenza di legittimità ha utilizzato solo in funzione della risoluzione delle problematiche connesse all’individuazione del luogo di “ultima dimora” del proposto risultato assente o trasferitosi al di fuori del territorio nazionale.

Del che costituisce indiretta conferma logica la constatazione che, diversamente – ove, cioè, la “dimora” di cui all’art. 18 , comma 4, valesse a designare semplicemente il luogo di abitazione concreta del proposto, senza alcuna altra specificazione – sarebbe fin troppo semplice invocare la norma in questione allo scopo di pervenire ad un significativo restringimento dell’area dei beni suscettibili di sequestro e confisca, laddove l’esclusione della categoria delle res di valore sproporzionato, rispetto al reddito o all’attività svolta dal proposto, ha la sua ragion d’essere nella circostanza che l’operatività di quest’ultimo al di fuori del territorio nazionale non rende possibile un affidabile accertamento in tal senso (Sez. 6, 51640/2016).

 

Linee guida, circolari e prassi

G. Muntoni (presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma), “Giurisprudenza e prassi operative del tribunale di Roma, sezione misure di prevenzione”, relazione tenuta per il corso su “Misure di prevenzione patrimoniale: potenzialità e problematiche del contrasto ai patrimoni illeciti” organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, 6 giugno 2019, reperibile al seguente link: https://www.fondazioneforensefirenze.it/uploads/fff/files/2019/2019_06%20–%20Giugno/13%20–%20Misure%20di%20prevenzione/Relazione%20–%20Dott_%20Guglielmo%20Muntoni.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: problematiche organizzative e operative”, nota n. 6815 del 10 novembre 2017, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_16709.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario”, nota n. 5810 dell’8 novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_21020.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Torino, “Quinta lettera di prevenzione”, novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.osservatoriomisurediprevenzione.it/prassi–e–documenti/