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Art. 24 - Confisca

1. Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale. Se il tribunale non dispone la confisca, può applicare anche d’ufficio le misure di cui agli articoli 34 e 34–bis ove ricorrano i presupposti ivi previsti. (2)

1–bis. Il tribunale, quando dispone la confisca di partecipazioni sociali totalitarie, ordina la confisca anche dei relativi beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile. Nel decreto di confisca avente ad oggetto partecipazioni sociali il tribunale indica in modo specifico i conti correnti e i beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile ai quali si estende la confisca. (3)

2. Il provvedimento di sequestro perde efficacia se il tribunale non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, il termine di cui al primo periodo può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per sei mesi. Ai fini del computo dei termini suddetti, si tiene conto delle cause di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, previste dal codice di procedura penale, in quanto compatibili; il termine resta sospeso per un tempo non superiore a novanta giorni ove sia necessario procedere all’espletamento di accertamenti peritali sui beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente. Il termine resta altresì sospeso per il tempo necessario per la decisione definitiva sull’istanza di ricusazione presentata dal difensore e per il tempo decorrente dalla morte del proposto, intervenuta durante il procedimento, fino all’identificazione e alla citazione dei soggetti previsti dall’articolo 18, comma 2, nonché durante la pendenza dei termini previsti dai commi 10–sexies, 10–septies e 10–octies dell’articolo 7. (1)

2–bis. Con il provvedimento di revoca o di annullamento definitivi del decreto di confisca è ordinata la cancellazione di tutte le trascrizioni e le annotazioni. (4)

3. Il sequestro e la confisca possono essere adottati, su richiesta dei soggetti di cui all’articolo 17, commi 1 e 2, quando ne ricorrano le condizioni, anche dopo l’applicazione di una misura di prevenzione personale. Sulla richiesta provvede lo stesso tribunale che ha disposto la misura di prevenzione personale, con le forme previste per il relativo procedimento e rispettando le disposizioni del presente titolo.

(1) Comma sostituito dall’ art. 1, comma 189, lett. a), L. 228/2012, a decorrere dal 1° gennaio 2013. Successivamente, il presente comma è stato così sostituito dall’ art. 5, comma 8, lett. b), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 2 con gli attuali commi 2 e 2–bis.

(2) Comma così sostituito dall’ art. 5, comma 8, lett. a), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 1 con gli attuali commi 1 e 1–bis.

(3) Comma inserito dall’ art. 5, comma 8, lett. a), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 1 con gli attuali commi 1 e 1–bis.

(4) Comma inserito dall’ art. 5, comma 8, lett. b), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 2 con gli attuali commi 2 e 2–bis.

Rassegna di giurisprudenza

Natura della confisca di prevenzione

La confisca disposta ai sensi dell’art. 2–ter L. 575/1965, non è di per sé provvedimento di prevenzione in senso stretto, ma piuttosto sanzione amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta dall’art. 240, comma 2, CP, ciò che fa ad essa conseguire l’istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato bene che ne costituisce l’oggetto (SU, 57/2007).

Quel che pare anche avere avuto soluzione è la natura dell’acquisto del bene confiscato da parte dello Stato che, a seguito dell’estinzione di diritto dei pesi e degli oneri iscritti o trascritti prima della misura di prevenzione della confisca acquista un bene non più a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri, pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di prevenzione.

In sostanza, superando la condivisa opinione della giurisprudenza civile e penale sulla natura derivativa del titolo di acquisto del bene immobile da parte dello Stato a seguito della confisca, il legislatore ha inteso ricomprendere questa misura nel solco delle cause di estinzione dell’ipoteca disciplinate dall’art. 2878 c.c.

Alla stregua di tale normativa, dunque, in ogni caso, la confisca prevarrà sull’ipoteca. La salvaguardia del preminente interesse pubblico, dunque, giustifica il sacrificio inflitto al terzo di buona fede, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, ammesso, ora, ad una tutela di tipo risarcitorio (SU civili, 10532/2013).

L’acquisto, da parte dello Stato, di un bene sottoposto alla misura di prevenzione della confisca di cui alla L. 575/1965  ha, dopo l’entrata in vigore della L. 228/2012, natura originaria (e non derivativa) e – poiché tale nuova disciplina è applicabile a tutte le misure di prevenzione disposte prima del 13 ottobre 2011, ex art. 1, comma 194, della L. 228 – la stessa, in base al principio “tempus regit actum”, trova immediata applicazione, quale “ius superveniens”, anche nei giudizi in corso, con conseguente inapplicabilità dell’art. 111 CPC (essendosi al di fuori del fenomeno della successione a titolo particolare nel diritto controverso) ed esclusione, per il prevenuto il cui immobile sia stato confiscato, della possibilità di continuare ad esercitare, come sostituto processuale dello Stato, le azioni a tutela del diritto di proprietà (Sez. 6 civile, 12586/2017; SU civili, 10532/2013) (Sez. 6 civile, 5003/2018).

 

La procedura finalizzata alla confisca di prevenzione non si traduce in un’actio in rem

Le Sezioni unite (SU, 4880/2015) hanno chiarito che la possibilità di applicazione disgiunta della confisca dalla misura di prevenzione personale, così come emerge dalle riforme normative operate dalle LL. 125/2008 e 94/2009, oltre che dal D. Lgs. 159/2011, non ha introdotto nel nostro ordinamento una “actio in rem”, in quanto rimane presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale la pericolosità del soggetto proposto al momento dell’acquisto del bene da confiscare.

La pericolosità – si è precisato – si trasferisce alla res per via della sua illecita acquisizione da parte di un soggetto socialmente pericoloso, in quanto rientrante in una delle categorie previste dalla normativa di settore, e ad essa inerisce in via permanente e tendenzialmente indissolubile, per cui la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo (Sez. 6, 7121/2019).

 

Conformità alla Costituzione della normativa in materia di misure di prevenzione patrimoniali

La generale questione della conformità della normativa italiana in materia di misure di prevenzione (anche patrimoniali) ai principi comunitari ed alla Carta Costituzionale è già stata risolta in senso positivo sia dalla Corte EDU che dal Giudice delle leggi e non v’è ragione alcuna per sottoporla anche alla CGUE atteso che l’art. 17 della Carta di Nizza (CDFUE) disponendo che “Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente” e che “Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge ...” di fatto enuncia principi coincidenti con quelli di cui all’art. 42 della Costituzione e conformi ai principi generali della Convenzione EDU.

È appena il caso di evidenziare che l’art. 17 CDFUE fa riferimento al diritto di godere della proprietà dei beni acquisiti “legalmente”, mentre quelli oggetto della confisca di prevenzione sono beni che, al ricorrere di certe condizioni, si ha ragione di ritenere che siano stati acquisiti “illegalmente”.

Ancora, è pacifico che sussiste un “pubblico interesse” a privare i soggetti ritenuti pericolosi dei beni che si ritengono oggetto di illecita accumulazione e che le regole e le condizioni in base alle quali si può procedere all’ablazione dei beni sono effettivamente “previste dalla legge” (nella specie il Decreto 159/2011 che ha sostituito la L. 1423/1956 e le altre disposizioni in materia).

Del tutto inconferente è, poi, l’osservazione difensiva relativa al fatto che le pronunce della Corte EDU che hanno riconosciuto validità ed assenza di contrasto tra la normativa comunitaria e la normativa italiana in materia di misure di prevenzione, hanno avuto principale riguardo ai profili della c.d. “pericolosità qualificata”, ritenendo che proprio in un settore nel quale è più forte l’interesse dello Stato a contrastare le attività della criminalità organizzata è, in un certo senso, possibile comprimere le esigenze difensive procedendo ad una inversione dell’onere della prova e prevedere forme di aggressione ai patrimoni illeciti sulla base non di prove ma di presunzioni qualificate.

In realtà non v’è chi non veda come l’interesse pubblico ricorre anche nell’aggressione ai patrimoni dei c.d. “pericolosi generici” e ciò di fatto ha trovato conferma in una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 24/2019) che si è anche occupata della questione della determinatezza della normativa in materia, atteso che l’art. 16 fa richiamo, quanto all’individuazione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, ai “soggetti di cui all’art. 4” e quest’ultimo fa, a sua volta, richiamo non solo ai soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416–bis CP od indiziati di aver commesso altri reati comunque legati a vicende di criminalità organizzata (art. 4, comma 1, lett. a e b) ma anche a quelli “di cui all’art. 1, lett. a) e b)”, cioè ai c.d. “pericolosi generici”.

Al riguardo, infatti, il Giudice delle leggi, occupandosi delle questioni di costituzionalità delle fattispecie astratte previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 L. 1423/1956, poi riprodotte in termini pressoché identici nelle lettere a) e b) dell’art. 1 che vedono come destinatari «coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi» (lett. a), e «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (lett. b), ha evidenziato e ricordato che: a) presupposto comune dell’applicazione della normativa è la pericolosità del soggetto e che, al riscontro probatorio delle sue passate attività criminose, deve dunque affiancarsi una ulteriore verifica processuale circa la sua pericolosità, in termini – cioè – di rilevante probabilità di commissione, nel futuro, di ulteriori attività criminose; b) il requisito della pericolosità per la sicurezza pubblica del destinatario delle misure di prevenzione deve risultare da evidenze che la legge indica ora come «elementi di fatto», evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali; c) sono comunque necessari elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU e la stessa Costituzione sanciscono per la materia penale; d) la Corte EDU ha espressamente escluso che le misure di prevenzione personali (ma la questione di riflesso involge anche quelle patrimoniali) sottoposte al suo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la CEDU detta in relazione alla “materia penale” (Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, paragrafo 143), ulteriormente chiarendo che le misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento italiano sono legittime in quanto sussistano le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma convenzionale in questione (in particolare: idonea base legale, finalità legittima, “necessità in una società democratica” della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti); e) le misure di prevenzione patrimoniali sono del tutto indipendenti dal procedimento penale eventualmente aperto nei confronti del destinatario della proposta di misura di prevenzione, essendo piuttosto basate sui medesimi “indizi che legittimano l’applicazione delle misure di prevenzione personali: a tali indizi la disciplina originaria ha affiancato ulteriori presupposti quali la sussistenza di «sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati», dai quali si possa ritenere che i beni dei quali il soggetto risultava disporre, anche indirettamente, «fossero il frutto di attività illecite o ne costituissero il reimpiego», nonché ai fini della loro definitiva confisca, la mancata dimostrazione dell’origine lecita dei beni già oggetto di sequestro; f) la concreta adozione delle misure patrimoniali, come affermato dalla stessa Corte costituzionale, non ha la sua ragion d’essere esclusivamente nei caratteri dei beni che colpiscono, in quanto esse sono rivolte non a beni come tali, in conseguenza della loro sospetta provenienza illegittima, ma a beni che,  oltre a ciò, sono nella disponibilità di persone socialmente pericolose; in altre parole, la pericolosità del bene è considerata dalla legge derivare dalla pericolosità della persona che ne può disporre (sentenza 335/1996); g) il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione è «la ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (SU, 4880/2014); il sequestro e la confisca in parola condividono, a ben guardare, la medesima finalità sottesa alla confisca cosiddetta “allargata” misura che la stessa Corte costituzionale ha recentemente ritenuto radicarsi, per l’appunto, «sulla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato derivino dall’accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono ordinariamente idonee a produrre» (sentenza 33/2018); h) la confisca “di prevenzione” e la confisca “allargata” (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) costituiscono dunque altrettante species di un unico genus, che la Corte costituzionale ha identificato nella «confisca dei beni di sospetta origine illecita», ossia accertata mediante uno schema legale di carattere presuntivo, la quale rappresenta uno strumento di contrasto alla criminalità lucro–genetica ormai largamente diffuso in sede internazionale: tale strumento è caratterizzato «sia da un –allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e il singolo reato, sia, soprattutto, da un affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa», in funzione dell’esigenza di «superare i limiti di efficacia della confisca penale “classica”: limiti legati all’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso di pertinenza – in termini di strumentalità o di derivazione – tra i beni da confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna»; i) la giurisprudenza di legittimità, con riferimento tanto al sequestro e alla confisca di prevenzione quanto alla confisca “allargata”, ha da tempo intrapreso un percorso volto a circoscrivere l’area dei beni confiscabili, limitandoli a quelli acquisiti in un arco temporale ragionevolmente correlato a quello in cui il soggetto risulta essere stato impegnato in attività criminose; rispetto, in particolare, al sequestro e alla confisca di prevenzione, le Sezioni unite sono pervenute a tale risultato chiarendo la necessità di accertare lo svolgimento di attività criminose da parte del soggetto con riferimento al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare (SU, 4880/2014), requisito, quest’ultimo, non scritto, ma discendente evidentemente dalla necessità di conservare ragionevolezza alla presunzione (relativa) di illecito acquisto dei beni, sulla quale il sequestro e la confisca di prevenzione si fondano.

Tale presunzione, infatti, in tanto ha senso, in quanto si possa ragionevolmente ipotizzare che i beni o il denaro confiscati costituiscano il frutto delle attività criminose nelle quali il soggetto risultava essere impegnato all’epoca della loro acquisizione, ancorché non sia necessario stabilirne la precisa derivazione causale da uno specifico delitto; l) la presunzione relativa di origine illecita dei beni, che ne giustifica l’ablazione in favore della collettività, non conduce necessariamente a riconoscere la natura sostanzialmente sanzionatorio–punitiva delle misure in questione, ciò in quanto l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina – come ben evidenziato dalla recente pronuncia, già menzionata, delle Sezioni unite – un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando «sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico.

Non può, dunque, ritenersi compatibile con quella funzione l’acquisizione di beni contra legem, sicché nei confronti dell’ordinamento statuale non è mai opponibile un acquisto inficiato da illecite modalità»; m) nelle numerose occasioni in cui la Corte EDU ha sinora esaminato doglianze relative all’applicazione della confisca di prevenzione, mai è stata riconosciuta natura sostanzialmente penale a questa misura.

È stato conseguentemente escluso che ad essa possano applicarsi gli artt. 6, nel suo “volet pénal”, e 7 CEDU; e si è invece affermato che la misura rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1, Prot. addizionale CEDU, in ragione della sua incidenza limitatrice rispetto al diritto di proprietà (ex multis: Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; decisione 15 giugno 1999, Prisco contro Italia; sentenza 22 febbraio 1994, Raimondo contro Italia); n) pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addizionale CEDU): esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente: 1) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addizionale CEDU); 2) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addizionale CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a  tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché 3) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil’), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.

Tutto ciò doverosamente premesso, la Corte costituzionale ha ulteriormente ricordato, con specifico riguardo alla legittimità della normativa che prevede l’applicazione delle misure di prevenzione (anche patrimoniali) ai soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e a «coloro [...] che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose», alla luce del decisum della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza De Tommaso del 23 febbraio 2017 che ha ritenuto che le disposizioni in parola non soddisfino gli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai suoi protocolli che, con riferimento alle “fattispecie di pericolosità generica” disciplinate dall’art. 1, numeri 1) e 2), L. 1423/1956 e – oggi – dall’art. 1, lettere a) e b): a) allorché si versi – come nelle questioni ora all’esame – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, purché tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa; b) la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato; c) la giurisprudenza di legittimità ha correttamente delineato i limiti applicativi di detta disposizione.

In sostanza, la Corte costituzionale ha rilevato in tempi recentissimi che la normativa di cui all’art. 1, lettera a), a sua volta richiamata dagli artt. 16 e 24, è conforme sia ai parametri costituzionali che a quelli della normativa comunitaria e, per l’effetto, ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 6, 8, 16, 20 e 24, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, e all’art. 25, terzo comma, Cost., nonché degli artt. 20 e 24, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, il che – come detto – rende manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale in questa sede sostanzialmente riproposte (Sez. 2, 31549/2019).

 

La confisca di prevenzione non rientra nel concetto di “materia penale” messo a fuoco dalla giurisprudenza della Corte EDU

Deve essere escluso in radice il carattere sanzionatorio della confisca di prevenzione. Come puntualmente osservato da SU, Spinelli, la Corte di Strasburgo ha escluso che, in rapporto ai criteri identificativi della penalty e della matière pénale – come individuati da consolidata linea interpretativa, maturata sulla scia delle sentenze 08/06/1976, Engel c. Paesi Bassi; 09/01/1995, Welch c. Regno Unito; 30/08/2007, Sud Fondi c. Italia ed altre, alla luce degli artt. 6 e 7 CEDU, e cioè: natura dell’infrazione secondo il diritto interno; natura della sanzione e concreta gravità della stessa – fosse giustificabile l’inquadramento dell’istituto nella categoria sanzionatoria.

Proprio con riferimento alla confisca di prevenzione italiana, numerose pronunce della stessa Corte EDU hanno escluso l’operatività dei principi di irretroattività e del ne bis in idem dettati per la materia penale dall’art. 7 CEDU, mentre in altre pronunce (17/05/2011, Capitani e Campanella c. Italia; 02/02/2010, Leone c. Italia; 05/01/2010, Bongiorno c. Italia; 08/07/2008, Perre c. Italia; 13/11/2007, Bocellari e Rizza c. Italia), nel censurare la difformità della procedura di prevenzione italiana rispetto alla regola dell’udienza pubblica, si è puntualizzato che la previsione convenzionale violata, ex art. 6 CEDU, attiene a quella parte della disciplina del “giusto processo” che non è riservata all’ambito della “materia penale”).

La sentenza Corte EDU del 22/02/1994, Raimondo c. Italia, ha osservato che la confisca di prevenzione è «destinata a bloccare i movimenti di capitali sospetti per cui costituisce un’arma efficace e necessaria per combattere questo flagello», mentre la sentenza del 15/06/1999, Prisco c. Italia, ha affermato che la confisca di prevenzione «colpisce beni di cui l’AG ha contestato l’origine illegale allo scopo che il ricorrente potesse utilizzarli per realizzare ulteriormente vantaggio a proprio profitto o profitto dell’organizzazione criminale con la quale è sospettato di intrattenere relazione».

Va, del resto, considerato che l’ordinamento sovranazionale consente interventi dell’autorità invasivi del «diritto al rispetto dei beni» quando ciò sia determinato da ragioni di pubblica utilità, come sancito dall’art. 1, Prot. 1, CEDU, riconoscendo la potestà discrezionale degli Stati–membri di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni «in modo conforme all’interesse generale».

Ed è utile, altresì, il riferimento alla decisione–quadro UE, GAI n. 212 del 2005, adottata nell’ambito del Titolo VI del Trattato sull’Unione Europea, e, da ultimo, la Direttiva 2014/42/UE, approvata dal Parlamento europeo il 25 febbraio 2014, che, nel considerando 21, stabilisce che «la confisca estesa dovrebbe essere possibile quando un’AG é convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose.

Ciò non significa che debba essere accertato che i beni in questione derivino da condotte criminose. Gli Stati membri possono disporre, ad esempio, che sia sufficiente che l’AG ritenga, in base ad una ponderazione delle probabilità, o possa ragionevolmente presumere che sia molto più probabile che i beni in questione siano il frutto di condotte criminose piuttosto che di altre attività. In tale contesto, l’AG deve considerare le circostanze specifiche del caso, compresi i fatti e gli elementi di prova disponibile in base ai quali può essere adottata una decisione di confisca estesa. Una sproporzione tra il bene dell’interessato ed il suo reddito legittimo può rientrare tra i fatti idonei ad indurre l’AG a concludere che i beni derivano da condotte criminose.

Gli Stati membri possono inoltre fissare un periodo di tempo entro il quale si può ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose». Alla stregua della vigente normativa, la precipua finalità della confisca di prevenzione è, dunque, quella di sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati alla disponibilità di determinati soggetti, che non possano dimostrarne la legittima provenienza. Tale finalità si pone, dunque, in piena sintonia con la ratio decidendi delle menzionate pronunce EDU e con i principi informatori dell’ordinamento convenzionale.

E’ risaputo, d’altronde, che, nell’approccio ermeneutico agli istituti delle diverse legislazioni, la giurisprudenza comunitaria reputa decisiva, ai fini dell’accertamento della reale essenza giuridica, l’individuazione dei tratti sostanziali, enucleabili dalla disciplina positiva, applicando i menzionati parametri identificativi, al fine di scongiurare quella che, efficacemente, è stata definita la “truffa delle etichette”, ovverosia la suggestione di ingannevoli qualificazioni nominalistiche degli stessi istituti da parte degli ordinamenti interni (Sez. 6, 48610/2017).

 

Rapporto tra confisca di prevenzione e giudizio penale per art. 12–sexies DL 306/1992

Il giudizio negativo sulla confiscabilità dei beni, espresso nel procedimento svolto ex art. 12–sexies DL 306/1992, non determina automatiche preclusioni nell’ambito del giudizio di prevenzione, successivamente avviato: infatti, la valutazione relativa alla confiscabilità dei beni ha un contenuto più ampio nel processo di prevenzione rispetto a quello che ha nel procedimento per la cosiddetta confisca allargata, perché rilevano direttamente l’origine e le modalità di formazione del patrimonio, che diventa confiscabile purché si accerti che è frutto o costituisce il reimpiego di attività illecite (inclusa l’evasione fiscale) senza necessità di distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso.

Pertanto, la definitività del provvedimento di rigetto della richiesta di confisca ex art. 12–sexies osta alla confisca degli stessi beni ex art. 24 solo se la decisione riguarda accertamenti in fatto relativi ai presupposti comuni ai due tipi confisca ma non anche se attiene a ragioni di mero rito o a altri presupposti delle misure (Sez. 6, 34965/2018).

Nel rapporto tra misura di prevenzione patrimoniale e misura emessa ai sensi dell’art. 12–sexies DL 306/1992 non vi è spazio per parlare di preclusione da giudicato, dal momento che si tratta di provvedimenti che vengono adottati su presupposti diversi, sicché deve escludersi che si possa ipotizzare un ne bis in idem.

È invece prospettabile una forma di preclusione processuale, sul tipo di quella che si può realizzare in materia cautelare, suscettibile di essere messa in discussione dalla sopravvenienza di fatti nuovi.

Tuttavia, tale forma di pregiudizialità opera solo se le decisioni sono intervenute su presupposti comuni, come ad esempio la sproporzione della disponibilità dei beni rispetto al reddito oppure la titolarità del bene, ma deve essere esclusa negli altri casi relativi ad altri aspetti che caratterizzano le singole misure patrimoniali.

Così deve escludersi che vi sia preclusione quando le diverse valutazioni sui provvedimenti risultino ascritte al presupposto diverso delle due misure, ad esempio responsabilità penale per l’art. 12–sexies e pericolosità sociale per la misura di prevenzione, anche se proiettate a livello di misure cautelari (Sez. 6, 23040/2017).

 

Presupposti della confisca

…Concetto di disponibilità dei beni

Precise indicazioni, in tema di presunzioni, sono offerte dall’art. 26, comma 2, il quale riproduce testualmente quanto previsto dall’art. 10, comma 3, DL 92/2009, convertito con modificazioni, con L. 125/2009, nella parte in cui aveva introdotto il quattordicesimo comma all’art. 2–ter L. 575/1965, e successive modificazioni.

Secondo le due disposizioni, di identica formulazione letterale, «fino a prova contraria si presumono fittizi: a) i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, dei coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado; b) i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione».

La disposizione e, più in generale, il tema dell’accertamento della natura fittizia o reale dei trasferimenti e delle intestazioni di beni ai fini dell’applicazione della confisca di prevenzione, hanno costituito oggetto di approfondito esame da parte delle Sezioni unite (SU, 12621/2017). Questa decisione, innanzitutto, in riferimento alle nozioni di «trasferimenti» e «intestazioni», ha precisato: «La particolare ampiezza della formulazione –  che utilizza la dizione congiunta “trasferimenti” e “intestazioni” – sta ad indicare lo sforzo del legislatore di ricomprendervi, alla stregua dell’id quod plerumque accidit, qualunque atto idoneo a determinare la disponibilità formale del bene in capo ad altri, valorizzando, sul piano interpretativo, la ratio antielusiva della norma».

Con riguardo all’accertamento della fittizietà dell’intestazione o del trasferimento, le Sezioni unite hanno affermato che «l’art. 26, comma 2, lett. a), introduce nel sistema un’ulteriore presunzione, dotata di propria autonomia, che se, da un lato, non fa venire meno quella prevista dall’art. 19, comma 3, – relativa a determinate figure soggettive (coniuge, figli e coloro che, nell’ultimo quinquennio, hanno convissuto con il proposto) per le quali continua ad essere previsto l’obbligo delle indagini patrimoniali –, dall’altro lato, si estende su una più ampia platea di soggetti (l’ascendente, i parenti entro il sesto grado e gli affini entro il quarto), per i quali sono presunte iuris tantum le operazioni intervenute a qualunque titolo, gratuito ovvero oneroso, entro un arco temporale definito nei due anni antecedenti la presentazione della proposta».

Hanno peraltro evidenziato, richiamando precedenti decisioni delle sezioni semplici, che «il rapporto esistente fra il proposto e il coniuge, i figli e gli altri conviventi, costituisce, pur al di fuori dei casi oggetto delle specifiche presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, d.Lgs. cit., una circostanza di fatto significativa, con elevata probabilità, della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza, quando il terzo familiare convivente, che risulta formalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica».

Con riferimento a tale profilo, hanno anche rilevato che, così come osservato dalla giurisprudenza, fuori del caso previsto dall’art. 26, comma 2, «i rapporti di parentela affinità e convivenza ivi esplicitati», pur non giustificando l’inversione probatoria imposta ex lege dal meccanismo delle presunzioni, «finiranno per costituire uno dei possibili momenti logici utili per pervenire alla possibile affermazione della interposizione senza che operi la presunzione di legge».

In questa prospettiva, situazioni concretamente rilevanti ai fini del carattere puramente formale dell’intestazione possono essere costituite sia dalle «relazioni in ambito familiare», sia «dalla eventuale intromissione del proposto nella gestione del bene», sia, ancora, «dalla incapacità del terzo, sotto il profilo economico, di acquisirne la titolarità, specie nell’ipotesi in cui il terzo intestatario non alleghi circostanze idonee a prospettare una diversa configurazione del rapporto, o una diversa provenienza delle risorse necessarie all’acquisto del bene».

La decisione delle Sezioni unite precisa poi che detti elementi, «specie se esaminati unitariamente, contribuiscono a formare la prova necessaria per la individuazione del reale dominus dell’operazione e la conseguente adozione del provvedimento ablativo».

Nella medesima pronuncia si è precisato che le presunzioni di fittizietà non possono estendersi agli atti traslativi compiuti da chi, come erede o terzo avente causa, abbia derivato i propri diritti dal soggetto che è o è stato pericoloso: si osserva, in particolare, che le disposizioni da cui desumere le presunzioni, sono circoscritte, anche nella loro «formulazione letterale, alla relazione che stringe i soggetti ivi indicati al proposto», e, quindi, rivestono «una portata eccezionale come tale non suscettibile di applicazioni analogiche o estensive».

Per concludere si ribadisce che la presunzione di fittizietà dell’intestazione o del trasferimento opera esclusivamente per gli atti compiuti nel biennio antecedente la presentazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione; per gli atti compiuti in epoca anteriore, invece, il rapporto di parentela o di affinità costituisce un elemento di valutazione significativo, ma da solo non sufficiente per affermare la natura apparente dell’interposizione.

D’altro canto, se non si accedesse a questa conclusione, si priverebbe di utile significato la disciplina dettata dal sistema normativo: il legislatore, infatti, pone espressamente la presunzione di fittizietà – fino a prova contraria – nelle sole ipotesi previste dall’art. 26, comma 2, lett. a) e b), mentre all’art. 17, comma 3, si limita a disporre l’obbligo di svolgimento di indagini nei confronti del coniuge, dei figli, e di coloro che nell’ultimo quinquennio hanno convissuto con il proposto (oltre che delle società e degli enti di cui il medesimo risulta poter disporre, in tutto o in parte, direttamente o indirettamente).

Si ribadisce, inoltre, che ulteriori elementi di valutazione apprezzabili ai fini dell’individuazione della natura fittizia dell’intestazione o del trasferimento, che si affiancano a quello integrato dalle relazioni familiari, sono costituiti, così come puntualmente segnalato dalle Sezioni unite, «dalla eventuale intromissione del proposto nella gestione del bene», e dalla incapacità patrimoniale e finanziaria del terzo ad acquisire la titolarità della cosa.

Si aggiunge, infine, che un altro dato valutabile è quello consistente nella dismissione del bene da parte del potenziale proposto in pendenza di un’indagine nei suoi confronti, e a lui nota, per il delitto di cui all’art. 416–bis CP, posto che a questa ordinariamente consegue l’adozione di misure patrimoniali in sede penale e di prevenzione.

D’altra parte, per quanto concerne la possibilità di disporre la confisca dei beni nei confronti dei più stretti famigliari del proposto, deve ricordarsi che la giurisprudenza è da sempre orientata nel ritenere giustificata, in forza del rapporto di coniugio e di filiazione, la presunzione d’intestazione fittizia (da ultimo Sez. 1, 5184/2016, secondo la quale “In materia di misure di prevenzione patrimoniali, ai fini della confisca prevista dall’art. 2–bis, comma 3, L. 575/1965, l’accertamento giudiziale della disponibilità, in capo al proposto, dei beni formalmente intestati a terzi, opera diversamente per il coniuge, i figli ed i conviventi di quest’ultimo, rispetto a tutte le altre persone fisiche o giuridiche, in quanto nei confronti dei primi siffatta disponibilità è legittimamente presunta senza la necessità di specifici accertamenti, quando risulti l’assenza di risorse economiche proprie del terzo intestatario, mentre, con riferimento alle seconde, devono essere acquisiti specifici elementi di prova circa il carattere fittizio dell’intestazione” (Sez. 1, 12629/2019).

In tema di misure di prevenzione patrimoniale, la “disponibilità” dei beni – che costituisce il presupposto per la confisca in capo alla persona pericolosa di quelli di cui si sospetta la provenienza illecita – non deve necessariamente concretarsi in situazioni giuridiche formali, essendo sufficiente che il prevenuto possa di fatto utilizzarli, anche se formalmente appartenenti a terzi, come se ne fosse il vero proprietario; e nei confronti del coniuge, dei figli e dei conviventi siffatta disponibilità è presunta, senza necessità di specifici accertamenti, dal momento che l’art. 2–bis L. 575/1965 considera separatamente dette persone rispetto a tutte le altre, fisiche o giuridiche, della cui interposizione fittizia, invece, devono risultare gli elementi di prova (Sez. 2, 18569/2019).

La giurisprudenza di legittimità ritiene che la nozione di disponibilità indiretta non debba essere limitata alla mera relazione naturalistica o di fatto col bene, ma estesa, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricada nella sfera degli interessi economici del prevenuto, ancorché il medesimo eserciti il proprio potere su di esso per il tramite di altri, sicché viene in rilievo una gamma di ipotesi diversificate, comprensive anche di «situazioni di intestazione fittizia ad un terzo soggetto, in virtù ad esempio di un contratto simulato o fiduciario» e di «situazioni di mero fatto basate su una posizione di mera soggezione cui soggiace il terzo titolare del bene nei confronti del sottoposto alla misura di sicurezza personale».

Come precisato dalle Sezioni unite (SU, 12621/2017), l’art. 26 introduce una presunzione che «non fa venire meno quella prevista dall’art. 19, comma 3», relativa, quest’ultima, «a determinate figure soggettive (coniuge, figli e coloro che, nell’ultimo quinquennio, hanno convissuto con il proposto) per le quali continua ad essere previsto l’obbligo delle indagini patrimoniali»; invero, «il rapporto esistente fra il proposto ed il coniuge, i figli e gli altri conviventi costituisce, pur al di fuori dei casi oggetto delle specifiche presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, una circostanza di fatto significativa, con elevata probabilità, della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza, quando il terzo familiare convivente, che risulta formalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica»..

Viene dunque in rilievo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in forza del quale, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, ai fini della confisca prevista – già dall’art. 2–bis, comma terzo, L. 575/1965, ora – dall’art. 19, comma 3, l’accertamento giudiziale della disponibilità, in capo al proposto, dei beni formalmente intestati a terzi, opera diversamente per il coniuge, i figli ed i conviventi di quest’ultimo, rispetto a tutte le altre persone fisiche o giuridiche, in quanto nei confronti dei primi siffatta disponibilità è legittimamente presunta senza la necessità di specifici accertamenti, quando risulti l’assenza di risorse economiche proprie del terzo intestatario, mentre, con riferimento alle seconde, devono essere acquisiti specifici elementi di prova circa il carattere fittizio dell’intestazione (Sez. 5, 51756/2018).

In tema di confisca di prevenzione di beni riferibili a sospettato di appartenenza ad associazione di stampo mafioso, il concetto di disponibilità indiretta, di cui all’art. 2–ter L. 575/1965, non può ritenersi limitato alla mera relazione naturalistica o di fatto col bene, ma va esteso, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricada nella sfera degli interessi economici del prevenuto, ancorché il medesimo eserciti il proprio potere su di esso per il tramite di altri (Sez. 1, 18423/2013).

La simulazione (ex art. 26) e la “disponibilità” sono due differenti istituti giuridici.

Infatti il legislatore ha ben distinto: a) la situazione nella quale la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento risulti essere titolare, anche per interposta persona fisica o giuridica, del bene confiscabile di cui non possa giustificare la legittima provenienza: tale ipotesi, presuppone che il proposto sia il titolare del bene “per interposta persona fisica o giuridica”: quindi, la norma prende in considerazione l’ipotesi che il proposto abbia alienato il bene confiscabile intestandolo, in modo simulato, ad un terzo; b) la situazione nella quale la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo del bene confiscabile di cui non possa giustificare la legittima provenienza: questa ipotesi si differenzia, come si può notare, da quella precedente (ossia dalla simulazione), perché prevede una fattispecie del tutto peculiare (la mera disponibilità del bene) che funge come una sorta di norma di chiusura dell’intero sistema volto a sottrarre i beni a soggetti pericolosi socialmente.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito il concetto di “disponibilità” nei seguenti testuali termini: «in tema di misure di prevenzione patrimoniale, la “disponibilità” dei beni – che costituisce il presupposto per la confisca in capo alla persona pericolosa di quelli di cui si sospetta la provenienza illecita – non deve necessariamente concretarsi in situazioni giuridiche formali, essendo sufficiente che il prevenuto possa di fatto utilizzarli, anche se formalmente appartenenti a terzi, come se ne fosse il vero proprietario».

E’ chiara, quindi, la ratio sottesa alla suddetta norma: il legislatore ha inteso prendere in considerazione proprio le ipotesi più frequenti e, quindi, più pericolose, che si verificano quando il proposto, pur non apparendo mai nei vari passaggi di proprietà dei beni confiscabili, di fatto, li gestisca come un vero e proprio dominus: si tratta, lo si ripete, di una vera e propria norma di chiusura con la quale il legislatore ha inteso evitare un vuoto legislativo attraverso il quale il proposto avrebbe potuto eludere facilmente le rigide disposizioni dettate per la confisca.

Nel solco di quanto appena detto si è anche chiarito che «in tema di confisca di beni intestati a terzi, l’immissione di capitali privi di legittima provenienza da parte del soggetto socialmente pericoloso in direzione di un cespite formalmente di proprietà di un terzo determina la disponibilità sostanziale dello stesso in capo al proposto, utile a giustificare l’ablazione in prevenzione, laddove gli investimenti si rivelino assorbenti in tutto o in gran parte rispetto al valore del bene» (Sez. 2, 31549/2019).

Una volta raggiunta la prova della disponibilità del bene in capo al soggetto indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, divengono irrilevanti i profili della sproporzione reddituale, che in ogni caso dovrebbero concernere la persona del proposto e non più il fittizio intestatario: si tratta cioè di applicare il principio secondo il quale “il valore sproporzionato dei beni – che è solo un indice sintomatico di illecita accumulazione della ricchezza – non rileva, in quanto è stata ritenuta provata la diversa ipotesi dell’immissione di capitali illeciti; l’art. 2–ter, comma 3, L. 575/1965 (nonché l’attuale art. 24) prevede, infatti, “la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” (Sez. 5, 32996/2017).

L’art. 20 ed il successivo art. 24 adottano, con riferimento ai beni suscettibili rispettivamente di sequestro e di confisca, una nozione di disponibilità assolutamente ampia ed aperta a qualsiasi figura giuridica, laddove si riferiscono a beni di cui il proposto “risulti titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo” (così l’art. 24, ed analogamente l’art. 20 si riferisce a beni di cui il predetto “risulta poter disporre, direttamente o indirettamente”), ed è innegabile che il conduttore di un bene concesso in leasing sia nella disponibilità di tale bene.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha già avuto modo di rilevare che in tema di confisca di prevenzione di beni riferibili a sospettato di appartenenza ad associazione di stampo mafioso, il concetto di disponibilità indiretta non può ritenersi limitato alla mera relazione naturalistica o di fatto col bene, ma va esteso, al pari della nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricada nella sfera degli interessi economici del prevenuto, ancorché il medesimo eserciti il proprio potere su di esso per il tramite di altri (Sez. 1, 18423/2013) e si è anche rilevato che l’immissione di capitali privi di legittima provenienza da parte del soggetto socialmente pericoloso in direzione di un cespite formalmente ed anche sostanzialmente di proprietà di un terzo determina la disponibilità sostanziale dello stesso in capo al proposto, utile a giustificare l’ablazione in prevenzione, laddove gli investimenti si rivelino assorbenti in tutto o in gran parte rispetto al valore del bene (Sez. 6, 47983/2012).

Del resto, per quanto la formale titolarità del bene concesso in leasing resti al concedente sino all’eventuale esercizio del diritto di opzione all’acquisto, tanto che la giurisprudenza civile ha riconosciuto l’applicabilità al leasing traslativo della disciplina di carattere inderogabile di cui all’art. 1526 CC)– in tema di vendita con riserva della proprietà (Sez. 3, 19732/2011), è innegabile che l’utilizzatore non abbia un mero diritto di godimento del bene ma ne dispone, anche perché questo di fatto viene a rientrare nel suo patrimonio, tanto che lo stesso non solo è legittimato a disporre della propria posizione contrattuale con lo strumento della cessione del contratto, ma può rendere unilateralmente definitiva l’acquisizione del bene con l’esercizio del diritto di opzione all’acquisto, al contrario del locatore finanziario la cui posizione è di fatto subordinata alla volontà dell’utilizzatore in ordine all’esercizio o meno dell’opzione (Sez. 2, 33538/2017).

Non può essere disposta la confisca di un bene utilizzato dal proposto in virtù di un contratto di leasing traslativo, se alla società di leasing, terza proprietaria fino al pagamento dell’ultimo canone locatizio, sia riconoscibile il requisito della buona fede al momento della conclusione del contratto (Sez. 1, 33521/2010).

 

…Periodo di manifestazione della pericolosità sociale e sua rilevanza per le misure patrimoniali

La pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla cosiddetta pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (SU, 4880/2015).

Fermo restando il principio che la pericolosità (rectius l’ambito cronologico della sua esplicazione) è “misura” dell’ablazione, la proiezione temporale di tale qualità non sempre è circoscrivibile in un determinato arco temporale. Tuttavia, nell’ipotesi in cui la pericolosità investa, come accade ordinariamente, l’intero percorso esistenziale del proposto e ricorrano i requisiti di legge, è pienamente legittima l’apprensione di tutte le componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza, delle quali non risulti, in alcun modo, giustificato il legittimo possesso.

Resta ovviamente salva – come per la pericolosità generica – la facoltà dell’interessato di fornire prova contraria e liberatoria, attraverso la dimostrazione della legittimità degli acquisti in virtù di impiego di lecite fonti reddituali. Con l’imprescindibile corollario che una prova siffatta, specie per gli acquisti risalenti nel tempo, non deve rispondere, neppure in questo caso, ai rigorosi canoni probatori del giudizio petitorio, con il rischio di assurgere al rango di probatio diabolica, potendo anche affidarsi a mere allegazioni, ossia a riscontrabili prospettazioni di fatti e situazioni che rendano, ragionevolmente, ipotizzabile la legittima provenienza dei beni in contestazione (SU, 4880/2015).

Le Sezioni Unite pretendono da tempo che la pericolosità sociale sia, oltre che presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, sicchè con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (SU, 4880/2015). Ciò che legittima il vincolo di prevenzione, pertanto, non è la verifica della pericolosità “attuale”, ma l’accertamento della correlazione temporale tra stato di pericolosità ed acquisto del bene da vincolare (Sez. 5, 18303/2019).

Le Sezioni unite hanno impostato in termini economici la stessa individuazione dei profili di disponibilità di fatto del bene, rilevante a fini della confisca di prevenzione, individuando come aspetto legittimante l’ablazione non la generica contaminazione – per il suo utilizzo da parte del soggetto pericoloso –, bensì la modalità illecita della sua acquisizione finanziaria, in tutto in parte, con prova indiziaria di derivazione di tale acquisizione con risorse illecite, il che consente di ritenere trasferita al bene la pericolosità. Inoltre, va osservato come la stessa sproporzione di valori tra redditi leciti ed investimenti riferibili al soggetto pericoloso, altro non rappresenta che una presunzione legale relativa di derivazione illecita, contrastabile con idonee allegazioni da parte del soggetto medesimo e, pertanto, non assurge ad autonomo presupposto della confisca, trattandosi, piuttosto, di un criterio di semplificazione probatoria alternativo alla prova di derivazione diretta del bene dal profitto dell’attività illecita; ciò risulta, peraltro, in linea con la direttiva 2014/24/UE, oltre che con la giurisprudenza di legittimità che, tradizionalmente ha affermato come la sproporzione di valori funga da parametro indicatore e da criterio di semplificazione probatoria, che cede il passo alla prova della derivazione diretta dei beni dall’attività illecita svolta dal proposto, su cui si fonda l’in sé del meccanismo ablatorio (Sez. 5, 43405/2019).

Il provvedimento ablativo deve essere sempre rispettoso del principio di equità e contemperare il principio costituzionale di cui all’art. 42 Cost. con le generali esigenze di prevenzione e di difesa sociale, sicché esso deve colpire solo i beni di accertata provenienza illecita o quelli di cui non sia giustificata la (lecita) provenienza: tali non sono, certamente, quelli acquisiti nel periodo in cui nessun rimprovero di pericolosità è stato mosso al proposto, ovvero quelli acquisiti – anche in epoca sospetta – con fondi di accertata provenienza lecita (Sez. 5, 3846/2017).

Ai fini dell’applicazione di misura di prevenzione patrimoniale, è sempre necessario un concreto accertamento incidentale intorno ai contenuti e alla datazione della pericolosità personale del proposto, poiché l’istituto della confisca di prevenzione, pur se utilizzabile anche in assenza di pericolosità attuale del destinatario del provvedimento al momento in cui ne è presentata la richiesta, si caratterizza in ogni caso per la funzione di fronteggiare la pericolosità del prevenuto esistente al momento dell’acquisizione dei beni oggetto di ablazione e che, come tale, determina la pericolosità di questi ultimi (Sez. 2, 24276/2014).

La riforma del sistema delle misure di prevenzione portata a compimento negli anni 2008 e 2009 e l’introduzione della possibilità di confisca definita disgiunta non hanno inciso sulla necessità del riscontro del nesso di concreta correlazione tra la pericolosità in termini di prevenzione di un determinato soggetto, appurata sulla scorta degli indici comportamentali a lui ascrivibili, e gli effetti in termini di acquisizione patrimoniale che ne sono derivati, sicché è imprescindibile che per addivenire alla confisca in sede di prevenzione di determinati cespiti risulti appurato che essi siano stati acquisiti al patrimonio formale o alla disponibilità di fatto del suddetto soggetto nel periodo corrispondente a quello in cui si è manifestata la pericolosità o nel tempo immediatamente successivo, se si tratti di effetto del relativo reimpiego (Sez. 1, 50463/2017).

Nel quadro disegnato, anche di recente, dalla giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza 33/2018)) e sovranazionale (Direttiva 2014/42/UE) possono essere individuate due convergenti esigenze: che, per un verso, venga individuata una qualche condotta criminosa fonte di una illecita accumulazione di denaro o altri beni; per altro verso, che la derivazione dell’illecito arricchimento possa essere ricavata da tutte le circostanze del caso di specie, tra le quali, in particolare, finisce per assumere una pregnanza contenutistica determinante quella della incoerenza economica tra il valore di quei beni e il reddito legittimo della persona cui l’illecita condotta viene ad essere ascritta.

La questione involge la portata e le implicazioni della sentenza 4880/2015 con cui le Sezioni unite, all’esito di una ampia ricostruzione, hanno concluso nel senso che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, con la conseguenza per cui, con riferimento alla cosiddetta pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. 2, 18254/2018).

In tema di misure di prevenzione, ove la fattispecie concreta consenta al giudice di determinare il momento iniziale ed il termine finale della pericolosità sociale qualificata, sono suscettibili di confisca solo i beni acquistati in detto periodo temporale, salva restando la possibilità per il proposto di dimostrare l’acquisto dei beni con risorse preesistenti all’inizio dell’attività illecita (Sez. 6, 31634/2017).

È legittima la confisca di prevenzione di una società, acquisita dal proposto nel periodo di accertata pericolosità, la cui attività sia caratterizzata sin dall’origine dall’impiego sproporzionato di risorse illecite in misura tale da viziare geneticamente l’operatività dell’ente, divenuto il risultato di siffatto impiego, rendendo indistinguibile l’attività illecita da quella lecita (Sez. 6, 43447/2017).

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell’intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell’impresa “mafiosa”, ai sensi dell’art. 2–ter  L. 575/1965, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base della presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite (Sez. 2, 14165/2018).

Allorché gli acquisti si realizzino in un periodo corrispondente con quello per cui è stata asseverata la pericolosità qualificata ed il giudice del merito dia conto dell’esistenza di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi che dette acquisizioni patrimoniali siano la diretta derivazione causale proprio della provvista formatasi nel periodo di illecita attività, legittimamente può applicarsi la misura ablatoria, in quanto esistente un collegamento di tipo logico tra il fatto presupposto, la pericolosità del proposto, e l’incremento patrimoniale “ingiustificato” che ha generato le risorse oggetto di confisca (Sez. 5, 35842/2018).

In tema di misure di prevenzione, il venir meno, per eventi successivi, dell’accertata pericolosità sociale del prevenuto non ha influenza alcuna sulla confisca del patrimonio a lui riconducibile e ritenuto frutto o reimpiego delle sue attività illecite (Sez. 2, 21894/2012).

 

…Non è necessario che la confisca sia preceduta dal sequestro

La confisca di prevenzione non presuppone indefettibilmente il sequestro e così i due vincoli possono susseguirsi sugli stessi beni ovvero può intervenire direttamente il provvedimento ablatorio definitivo senza essere stato preceduto dal sequestro (SU, 20215/2015).

Se il sequestro non costituisce condizione per l’applicazione della misura ablatoria definitiva, anche ove esso perda efficacia per inosservanza delle sequenze temporali, ciò non impedisce che la confisca possa essere autonomamente disposta, pur essendo stata (illegittimamente) ripristinata la cautela reale e materialmente non restituiti i beni agli aventi diritto (Sez. 6, 30752/2019).

 

…Sproporzione e reimpiego

Come è noto, la legge prevede che, per procedere all’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, è necessario che il proposto “disponga” direttamente od indirettamente di beni di valore “sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando si ha motivo di ritenere che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

Non sfugge che la norma di cui all’art. 24 dispone testualmente che può procedersi alla confisca dei beni che “risultino essere il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” e che detta norma richiede un requisito più stringente rispetto all’art. 20 del medesimo decreto atteso che, mentre si può procedere a sequestro di prevenzione in presenza “sufficienti indizi”, per la confisca il legislatore ha utilizzato il verbo risultare declinato nella forma indicativa presente (“risultino”).

Il dettato normativo non regola, invece, la questione relativa alla problematica, tutt’altro che infrequente, della “confusione” nel patrimonio del proposto – dedito ad attività commerciali o imprenditoriali – tra beni di provenienza lecita e beni di provenienza illecita: del resto, per un principio di stretta legalità e di compatibilità costituzionale del sistema, è chiaro che l’oggetto del sequestro non possa che riguardare – come recita la norma – solo i beni di valore sproporzionato rispetto alle condizioni economiche e/o “frutto di attività illecite” e quelli che costituiscono il reimpiego delle stesse attività illecite.

La giurisprudenza di legittimità con un principio certamente estensibile anche al caso qui in esame ha chiarito che «il sequestro e la successiva confisca non possono indiscriminatamente colpire tutti i beni di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione personali, bensì solo quelli che si ha motivo di ritenere frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego.

Ne consegue che nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta di illiceità penale, avvenga mediante addizioni, accrescimenti, trasformazioni o miglioramenti di beni già nella disponibilità del soggetto medesimo, in virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato da dimostrato titolo lecito, il provvedimento ablativo deve essere rispettoso del generale principio di equità e, per non contrastare il principio costituzionale di cui all’art. 42 Cost., non può coinvolgere il bene nel suo complesso, ma, nell’indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle private della garanzia della proprietà tutelabile, deve essere limitato soltanto al valore del bene medesimo, proporzionato all’incremento patrimoniale per il reimpiego in esso effettuato di profitti illeciti. Il che si realizza mediante la confisca della quota ideale del bene, rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego e valutata al momento della confisca medesima» (Sez. 1, 33479/2007).

In tempi più recenti (Sez. 5, 12493/2014), con riferimento ad un caso di confisca di prevenzione relativa ad un soggetto “pericoloso qualificato”“ ma con un principio certamente applicabile anche ai cosiddetti “pericolosi generici” si è chiarito che non può bastare che un determinato soggetto sia socialmente pericoloso ed abbia messo in atto iniziative imprenditoriali per far scattare l’ablazione di beni destinati all’attività produttiva e comunque conseguiti grazie ad essa, essendo necessario provare che l’attività non sarebbe sorta o non si sarebbe sviluppata in quel modo se non fosse stata pesantemente condizionata dal potere e dall’intervento del soggetto pericoloso: occorre invece la prova, secondo lo statuto probatorio del giudizio di prevenzione, che l’azienda sia “frutto di attività illecita” e, ancora più in particolare occorre a) che l’acquisto originario sia stato reso possibile dall’attività illecita dell’acquirente (o del fondatore), in qualunque modo espletata, pur senza pretendere la prova di un diretto collegamento, sotto forma di nesso causale, tra l’attività – illecita – e l’acquisizione patrimoniale; b) che la crescita e l’accumulo di ricchezza da parte dell’impresa sia stata concretamente agevolata dall’attività illecita del titolare, perché solo in questo caso può dirsi – stando al dettato normativo – che l’incremento patrimoniale è “frutto di attività illecite”.

In dottrina si è, poi, evidenziato che il fatto che possono formare oggetto di sequestro e confisca, oltre ai beni frutto di attività illecite, anche quelli che ne costituiscono il reimpiego risponde alla ratio di sottrarre al soggetto pericoloso ogni utilità inquinata perché derivante, direttamente o indirettamente, dal crimine.

Tuttavia, il distinguo, limpido sotto il profilo teorico, può non esserlo altrettanto in pratica, in quanto si assiste spesso alla commistione, nello stesso bene, di capitali leciti e illeciti.

Può accadere, ad esempio, che il cespite sia stato acquistato con capitali di provenienza in parte lecita e in parte illecita oppure che redditi leciti siano stati impiegati per incrementare il valore di un bene frutto o reimpiego di attività illecita oppure, ancora, che capitali illeciti siano stati investiti a beneficio di beni di lecita provenienza.

Al riguardo, come già sopra accennato, la giurisprudenza ha operato una serie di chiarimenti, che impongono al giudice incaricato di decidere sulla misura patrimoniale una attenta disamina dei profili fattuali e delle allegazioni difensive onde consentire ove possibile lo scorporo delle immissioni di illecita provenienza da quanto risulti legittimamente acquisito, procedendo poi alla sola confisca pro quota.

Si è, ad esempio, chiarito (Sez. 1, 29186/2013) che, quando risulti che un immobile lecitamente acquistato sia stato ampliato o migliorato con l’impiego di disponibilità economiche prive di giustificazione, la confisca può investire il bene nella sua interezza nel caso in cui le trasformazioni e le addizioni abbiano natura e valore preminente, tale da non consentire una effettiva separazione dei distinti valori pro quota. In conformità agli scopi nella disciplina di prevenzione preordinata a colpire investimenti anche se leciti, di risorse finanziarie prodotte da attività illecite è, pertanto, stata ritenuta legittima la confisca di un edificio realizzato con fondi di provenienza illecita su di un suolo di provenienza lecita, se il primo abbia un valore preponderante rispetto al secondo, poiché, quando un bene si compone di più unità, il regime penalistico cui assoggettare il cespite nella sua interezza è quello proprio della parte di valore economico e di utilizzabilità nettamente prevalenti, diventando irrilevante il principio civilistico dell’accessione.

Per converso, il predetto principio civilistico è tornato ad essere valorizzato in giurisprudenza per affermare la legittimità della confisca di fabbricati costruiti su terreni sottoposti a sequestro e poi a confisca, ancorché non menzionati nei provvedimenti ablativi, in quanto, in virtù del principio di accessione, i beni costruiti sul fondo appartengono al relativo proprietario, con la conseguenza che l’edificazione di un nuovo fabbricato resta automaticamente esposta alla misura patrimoniale che colpisce il bene principale, senza che ciò comporti alcun peggioramento della misura in atto. In sostanza, al di là dei principi formalmente richiamati, la misura va a colpire, nella loro interezza, beni che, ai fini di prevenzione, sono ritenuti non suscettibili di valutazione separata.

Il tema del discrimine tra rapporti leciti e illeciti va però impostato in modo peculiare con riferimento alle attività economiche, nell’ambito delle quali contributi – in termini di interessi soci e capitali – di provenienza lecita ed illecita finiscono – come risulta essere avvenuto nel caso in esame – per fondersi in un tutto inscindibile.

Tale considerazione, ancorata ai dati fenomenici ha sorretto la costruzione giurisprudenziale (Sez. 5, 16311/2014) dell’impresa mafiosa ed ha giustificato il principio per il quale la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta solo con riferimento alla quota ideale riconducibile all’utilizzo di risorse illecite, non potendosi distinguere, in ragione del carattere unitario del bene, l’apporto di componenti lecite riferibili alla capacità ed alla iniziativa imprenditoriale da quello imputabile a mezzi illeciti, specie quando il consolidamento e l’espansione dell’attività economica siano stati agevolati dall’organizzazione criminale.

Peraltro, nel caso di impresa (mafiosa) costituita in forma societaria lo stesso ragionamento impone di estendere il sequestro e la confisca a tutto il patrimonio aziendale ed a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote laddove sia accertata la disponibilità sostanziale dell’impresa da parte del proposto e laddove l’attività economica risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti.

In quest’ottica, la giurisprudenza di merito non risulta avere incentrato l’indagine finalizzata alla confisca alla ricerca del reimpiego di proventi non giustificati od affatto estranei all’attività economica del proposto, ma ha teso a verificare se l’iniziativa economica si sia espansa ed abbia prodotto redditi beneficiando della sinergia del suo titolare con la consorteria mafiosa, notoriamente volta al condizionamento delle attività di impresa. A ritenere diversamente – nel caso di impresa mafiosa – si priverebbe di efficacia il sistema delle misure di prevenzio

ne patrimoniali, strutturato e potenziato dal legislatore nella consapevolezza che è nel settore delle attività produttive che oggi si manifesta la maggiore pericolosità dell’indiziato mafioso, il quale sempre più di frequente trova rispondente alle sue finalità illecite non tanto acquistare singoli beni improduttivi o comunque non strumentali all’attività imprenditoriale, quanto a divenire egli stesso imprenditore anche se per interposta persona, acquisendo aziende già costituite, costituendone di nuove e comunque condizionando l’operare e lo sviluppo delle iniziative produttive non solo per investire e far fruttare una ricchezza inquinata ma anche allo scopo di accrescere le possibilità di infiltrazioni nel tessuto economico e sociale.

È chiaro, pertanto, che dinanzi ad un fenomeno di commistione tra attività imprenditoriale ed appartenenza all’associazione mafiosa, sarebbe riduttivo e fuorviante limitarsi a verificare se ogni operazione sia immediatamente caratterizzata da evidenti requisiti di illiceità costituendo ad esempio il risultato di una determinata attività delittuosa essendo stata resa possibile la stessa solamente in virtù dell’attivazione di un determinato canale illecito.

Tutte le operazioni attuate per il tramite di un’impresa costituita o sviluppatasi grazie all’estrinsecarsi dell’attività mafiosa sul versante economico rimangono geneticamente collegate, più o meno direttamente ad una situazione antigiuridica e finiscono per contribuire alla creazione di quella ricchezza inquinata che il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali vuole colpire con la confisca dei beni che rappresentano il frutto di condotte illecite o ne costituiscono il reimpiego.

Affermare i principi di cui sopra non significa affatto disconoscere l’orientamento secondo cui la confisca non può aggredire indiscriminatamente tutto il patrimonio del proposto bensì deve sempre riguardare singoli beni rispetto ai quali siano individuabili le ragioni della illegittima provenienza, ma vuol dire solamente prendere atto che tale impostazione, quando si è di fronte ad una realtà produttiva nel suo complesso e dinamico operare, non può che riferirsi all’intera azienda. Se il discorso che precede può ben valere per l’impresa mafiosa e quindi per i cosiddetti “pericolosi qualificati”, occorre ora verificare se sia possibile applicare tali principi anche nei confronti delle imprese/società riconducibili ad un soggetto “pericoloso generico”.

Orbene, si ritiene che tali principi siano estensibili, nel particolare caso in esame, anche al pericoloso generico, ciò attraverso la dimostrazione che la costituzione o l’acquisizione delle partecipazioni (anche solo di fatto) negli enti e nelle società e negli enti oggetto del provvedimento di confisca siano state in qualche modo strumentali al perseguimento delle attività illecite, così “sporcando” anche la parte di denaro di provenienza lecita eventualmente utilizzata nelle operazioni imprenditoriali de quibus.

E’ quindi corretto che, in caso di impresa esercitata in forma societaria e di strutture imprenditoriali complesse, la confisca si estende a tutto il patrimonio aziendale e al complesso dell’attività (Sez. 2, 9774/2015) deve ritenersi applicabile, fermi restando i diversi presupposti per l’affermazione di pericolosità, anche in caso di pericolosità generica, poiché il bene non viene confiscato solo perché il soggetto è pericoloso, ma perché, in chiave dinamica, tale condizione determina l’oggettiva pericolosità di mantenere il bene nella disponibilità di chi è risultato appartenere ad una delle categorie soggettive di pericolosità (secondo quanto chiarito sempre dalle Sezioni Unite “Spinelli” sulla ragione d’essere stessa e sulla natura preventiva e non punitiva di tutto il sistema delle misure di prevenzione).

Sotto questo profilo è l’attività economica nel suo complesso gestita dal soggetto pericoloso a costituire un fattore patogeno ed inquinante del mercato e delle relazioni economiche, per la permanente immissione di profitti illeciti che si autoalimentano e si confondono con quelli leciti, indipendentemente dalla qualifica della pericolosità. Legittimamente, perciò, la confisca può essere estesa agli investimenti con proventi illeciti anche precedenti al periodo di pericolosità e a quelli che costituiscono reimpiego di proventi non leciti, pur sempre nei limiti della provata riferibilità al soggetto delle imprese formalmente terze.

Ai fini della confisca è infatti necessario raggiungere un grado di ragionevole certezza in ordine alla mancanza da parte dei terzi di un’autonoma partecipazione all’attività d’impresa e la impossibilità di distinguere l’attività imprenditoriale ordinaria da quella di reimpiego o occultamento del profitto, quanto meno con un criterio di certezza quanto all’an e di rilevante prevalenza in relazione al quantum.

A questo punto bisogna però fare un breve passo indietro ritornando alla distinzione tra le condizioni per attivare il sequestro di prevenzione rispetto a quelle per attivare la confisca di prevenzione: si è detto della diversità dei termini utilizzati dal legislatore che, mentre per il sequestro ha utilizzato le espressioni “si ha motivo di ritenere” e “sufficienti indizi” (art. 20), per la confisca ha utilizzato la parola “risultino” (art. 24). Si ritiene che la predetta differenza terminologica sia semplicemente finalizzata a richiedere un maggiore substrato probatorio in caso di ablazione definitiva dei beni mediante confisca, situazione non richiesta per il sequestro di prevenzione che mantiene, invece, una funzione eminentemente cautelare.

Tuttavia ciò non ha alcuna incidenza sulla ripartizione dell’onere della prova che continua a rimanere il medesimo che permea l’intero campo delle misure di prevenzione. Del resto, l’analisi testuale del primo comma dell’art. 24 tiene ben distinte le due situazioni nelle quali può procedersi alla confisca: a) quella nella quale “risulti” che il soggetto interessato (anche per interposta persona) sia titolare od abbia la disponibilità a qualsiasi titolo di beni in valore sproporzionato al proprio reddito od alla propria attività economica; b) quella nella quale “risulti” che i beni de quibus siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Ciò significa, innanzitutto, che non è necessario che i beni oggetto del provvedimento appartengano simultaneamente ad entrambe le citate categorie bastando la loro riconducibilità anche ad una sola di esse: la congiunzione “nonché” preceduta da una virgola ha infatti nel testo della norma la sola funzione di elencare le situazioni nelle quali può procedersi a confisca (distinguendo i beni dal primo tipo da quelli del secondo tipo) e non consente di ritenere che sia necessaria la contestuale ricorrenza delle due ipotesi.

Inoltre, il legislatore, sempre nel testo normativo in esame, ha inserito, con valenza per entrambe le indicate situazioni legittimanti la confisca, l’inciso “beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza”, così ponendo a carico del proposto non un onere “probatorio” ma quantomeno un onere “giustificativo” della (legittima) provenienza dei beni.

In sostanza, il giudizio di prevenzione avente ad oggetto misure patrimoniali non si basa su un’inversione dell’onere della prova: la prova della sproporzione, infatti, è sempre a carico dell’accusa, gravando sul proposto, una volta che il suddetto onere – come nel caso in esame ed attraverso analitiche attività di accertamento – sia stato assolto, solo un onere di allegazione diretto a “sminuire od elidere l’efficacia probatoria degli elementi offerti dall’accusa.

Il legislatore, in altri termini, ha agito anche in questo campo con il legittimo meccanismo delle presunzioni, indicando, a titolo esemplificativo, quale possibile fattore individuante – anche unico – della illecita provenienza dei beni, l’incompatibilità tra impiego di capitali ed ammontare dei redditi noti, elemento questo dal quale – una volta che sia provato dalla pubblica accusa – può ragionevolmente risalirsi a redditi ignoti, frutto, secondo il normale accadimento delle cose, di attività redditizie.

Da ciò ne consegue che in tema di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, come è il caso in esame, la legge richiede che risulti la sproporzione reddituale o, in alternativa, che risultino concreti e validi elementi della provenienza illecita dei beni, anche sotto l’aspetto di reimpiego di illeciti guadagni, elementi dei quali la stessa legge fa un esempio (notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati), e soltanto in presenza di tali elementi, che il giudice di merito è tenuto ad accertare, è consentita la confisca, sempre che, come detto, l’interessato non dimostri (rectius: alleghi fondati elementi per ritenere) la legittima provenienza dei beni. In tal modo – giova ribadirlo – non è prevista una vera e propria inversione dello onere della prova sulla legittima provenienza dei beni, inversione che, se sussistesse, non si sottrarrebbe a fondati sospetti di (il)legittimità costituzionale. Invero a carico dell’interessato è posto, sempre che sia accertata l’esistenza di quegli elementi, soltanto un onere di allegazione, poiché, in effetti, rientra nel suo stesso interesse lo sminuire od elidere l’efficacia probatoria degli elementi offerti dall’accusa.

Ciò del resto corrisponde al c.d. “principio di vicinanza della prova” ben noto in dottrina ed in giurisprudenza, principio che, pur essendo stato coniato con riferimento al procedimento penale, ben può essere esteso anche al procedimento di prevenzione e secondo il quale «in tema di distribuzione dell’onere probatorio, spetta alla pubblica accusa la prova del reato; tuttavia, ove l’imputato deduca eccezioni o argomenti difensivi, spetta a lui provare o allegare, sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, le suddette eccezioni perché è l’imputato che, in considerazione del principio della cd. “vicinanza della prova”, può acquisire o quantomeno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva».

Al proposto, infatti, non si chiede di allegare o provare un fatto negativo (“non ho commesso attività illecite”), ma di indicare specifiche circostanze positive, contrarie a quelle provate dalla pubblica accusa (“la mia attività è stata lecita, i miei averi sono proporzionati ai miei redditi ed alla mia attività imprenditoriale”), con indicazione, quindi, dei dati fattuali che contraddicono le proposizioni accusatorie, dalle quali possa desumersi che l’attività illecita contestata non è avvenuta  (Sez. 2, 31549/2019).

La norma di cui all’art. 24 non consente di distinguere quali oggetto di confisca due autonome categorie di cespiti, quelli di provenienza illecita e quelli la cui  acquisizione sia non giustificata: al contrario, prevede l’ablazione di forme di ricchezza  di illegittima acquisizione, riferibili quanto ad appartenenza al proposto in via di diritto o di mera disponibilità di fatto, e di cui non sia dimostrata l’origine lecita e consente di ritenere dimostrato il primo requisito con due modalità alternative, ossia quando sia positivamente provata la derivazione da reato, oppure in via di presunzione relativa quando sussista la sproporzione tra redditi dichiarati ed attività economiche e valore dei beni.

In altri termini, la possibilità di avvalersi al fine di imporre la confisca del criterio della sproporzione offre soltanto un’agevolazione probatoria, ma non giustifica sul piano dogmatico e definitorio la differenziazione pretesa dalla difesa e nemmeno la conseguente discriminazione tra due tipologie di beni quanto a confiscabilità dei frutti civili, che sono suscettibili di essere prodotti con identico meccanismo e che analogamente ripetono la natura illecita del bene da cui sono ricavati, divenendo espropriabili in base al principio, valevole per il pignoramento, ma estensibile anche tutte le forme di privazione della titolarità del patrimonio o d’imposizione di un vincolo d’indisponibilità, dettato dall’art. 2912 CC (Sez. 1, 27147/2016).

Laddove la provvista necessaria all’acquisto trovi riscontro nella disponibilità finanziaria acquisita in ragione della dismissione di un cespite acquistato in precedenza, è altresì necessario che i fondi utilizzati per l’acquisto del bene dismesso siano di provenienza lecita. Se l’acquisto del bene dismesso, il cui ricavato è stato utilizzato per acquisire l’utilità oggetto di confisca, non trova conforto in una proporzionata disponibilità finanziaria, reddituale o comunque lecita, del periodo di riferimento, ecco che anche l’acquisizione oggetto di ablazione risulta viziata, in via derivata, dalla originaria illiceità del primo acquisto (Sez. 6, 35240/2013).

In tema di misure di prevenzione di carattere patrimoniale nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, ai fini dei provvedimenti di sequestro e di confisca di cui all’art. 2–ter, ultimo comma, L. 575/1965, la legge richiede che sussistano concreti e validi indizi della provenienza illecita dei beni, anche sotto l’aspetto di reimpiego di illeciti guadagni, indizi dei quali la stessa legge fa un esempio (notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati); soltanto in presenza di tali indizi, che il giudice di merito è tenuto ad accertare, è consentita la confisca, sempre che l’interessato non dimostri la legittima provenienza dei beni. In tal modo non è prevista una vera e propria inversione dello onere della prova sulla legittima provenienza dei beni, inversione che, se sussistesse, non si sottrarrebbe a fondati sospetti di illegittimità costituzionale.

Invero a carico dell’interessato è posto, sempre che sia accertata l’esistenza di quegli indizi, soltanto un onere di allegazione, che, in effetti, rientra nel suo stesso interesse di sminuire od elidere l’efficacia probatoria degli elementi indizianti offerti dall’accusa. E di recente le Sezioni unite hanno ribadito il principio secondo il quale, in tema di confisca di prevenzione, anche a seguito delle modifiche apportate all’art. 2–ter, comma 3, primo periodo, L. 575/1965, dalla L. 125/2008, spetta alla parte pubblica l’onere della prova della sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del soggetto nonchè della illecita provenienza dei beni, dimostrabile anche in base a presunzioni, mentre è riconosciuta al proposto la facoltà di offrire prova contraria (SU, 4880/2014).

Con la sentenza citata le Sezioni unite hanno offerto una lettura della normativa in materia di confisca di prevenzione non contrastante con í parametri costituzionali e convenzionali; e, per quanto interessa in questa sede, hanno chiarito, in relazione alla ripartizione dell’onere probatorio, che le novelle normative non hanno apportato sostanziali modifiche, rimanendo onere della parte pubblica la prova, raggiungibile anche in base a presunzioni, in ordine alla sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituale del proposto, nonché in ordine all’illecita provenienza dei beni, mentre è riconosciuta al proposto, la facoltà di offrire prova contraria e liberatoria, in guisa da dimostrare la legittima provenienza dei beni medesimi.

Infatti, si precisa che è proprio tale facoltà di prova contraria assicurata al soggetto inciso, in merito alla legittimità dell’acquisto del bene, che assicura la conformità della confisca e dell’intero sistema di prevenzione patrimoniale alla Costituzione ed ai principi dell’ordinamento sovranazionale. In ragione di ciò, pertanto, deve ritenersi la natura meramente relativa della presunzione di illecita provenienza dei beni, cui corrisponde un onere probatorio a carico del soggetto inciso, “che non è modulato sui canoni, rigorosi e formali, vigenti in materia petitoria, ma tale che per il suo assolvimento è sufficiente la mera allegazione di fatti, situazioni od eventi che, ragionevolmente e plausibilmente, siano atti ad indicare la lecita provenienza dei beni oggetto di richiesta di confisca e siano, ovviamente, riscontrabili”.

E nella sentenza delle Sezioni Unite si fa specifico riferimento alla disciplina prevista dall’art. 24: “È  significativo, del resto, che identico regime probatorio sia stato riprodotto nell’art. 24 del menzionato “codice antimafia”, in base al quale l’applicazione della confisca è subordinata ad una serie di parametri probatori, così individuabili (nell’ordine della prospettazione normativa): a) mancata giustificazione della provenienza dei beni da parte del soggetto nei cui confronti è instaurato il procedimento di prevenzione; b) titolarità o disponibilità, a qualsiasi titolo, degli stessi beni, da parte dello stesso soggetto, sia direttamente che indirettamente, in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, od alla propria attività economica; c) provenienza dei beni, che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

I principi affermati in ordine al regime probatorio riguardante il proposto non possono che trovare applicazione anche (e a maggior ragione) ai terzi interessati, tenuto conto del complesso di interessi che si inseriscono nel procedimento di prevenzione.

Chiariti i suddetti principi in materia di regime probatorio, si deve sottolineare che in casi come quello in esame incomba sulla parte pubblica l’onere di dimostrare rigorosamente l’esistenza di situazioni che avallino concretamente la prospettazione della fittizietà della intestazione dei beni a soggetti diversi dal proposto; prospettazione che deve essere accertata con indagine rigorosa e con l’obbligo per il giudice di motivare specificamente sulle ragioni poste a fondamento della ritenuta interposizione fittizia, che non può che essere basata su elementi fattuali connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza. Insomma, anche nell’ipotesi di beni intestati (in epoca antecedente al biennio dalla proposta di applicazione della misura) a terzi che abbiano vincoli “lato sensu” di parentela o di convivenza con il proposto nell’ultimo quinquennio, ma che si assume siano nella disponibilità della persona sottoposta a misura di prevenzione personale (in quanto indiziata di appartenere ad associazione di tipo mafioso) e, come tali, soggetti a confisca ove non se ne dimostri dall’interessato la legittima provenienza, l’indagine al fine di disporre la misura di prevenzione reale deve essere rigorosa.

Ed invero, non è senza significato la distinzione che fa il secondo comma del citato articolo 26 ai beni intestati nel biennio alle persone che hanno vincoli con il proposto con le altre situazioni previste dalla stessa normativa in materia, giacché il legislatore ha ritenuto più accentuato il pericolo della fittizia intestazione al coniuge, ai figli e ai conviventi infraquinquennali del proposto e più probabile l’effettiva disponibilità da parte del medesimo dei beni in un arco temporale prossimo a quello in cui vengono accertati i presupposti di pericolosità per l’applicazione della misura (Sez. 5. 20728/2016).

I proventi di evasione fiscale non sono utilizzabili come giustificazione difensiva della sproporzione tra patrimonio e capacità reddituale

In tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2–ter l. 575/1965 (attualmente art. 24), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso (SU, 33451/2014).

Il requisito della pericolosità generica che legittima l’applicazione della confisca non può essere desunto dal mero “status” di evasore fiscale seriale, in quanto, per stabilire se il proposto viva abitualmente con i proventi dell’attività delittuosa, occorre considerare la struttura dei reati commessi - assumendo rilievo le sole condotte generatrici di un profitto e non anche quelle meramente dirette ad evitare il pagamento di imposte riferite a redditi lecitamente prodotti - nonché l’eventuale definizione in sede conciliativa della pretesa fiscale da cui sia derivato il recupero dell’imposta evasa (Sez. 5, 33158/2020)

 

Il rilievo dello scudo fiscale

L’art. 13–bis DL 78/2009 dispone al comma 4 che «l’effettivo pagamento dell’imposta comporta, in materia di esclusione della punibilità penale,” limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo, l’applicazione della disposizione di cui al già vigente articolo 8, comma 6, lettera c), della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni», il quale a sua volta indica «l’esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 10 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nonché per i reati previsti dagli articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491–bis e 492 del codice penale, nonché degli articoli 2621, 2622 e 2623 del codice civile, quando tali reati sono stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguire il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria».

Da ciò ne deriva una prima conseguenza che è quella che l’accesso alla procedura del cosiddetto “scudo fiscale” di per sé incide sulla punibilità degli eventuali reati tributari e sugli altri reati sopra indicati ma, in ogni caso, non trasforma ex sé le somme di provenienza illecita in proventi leciti nel momento in cui gli stessi derivano da condotte delittuose diverse da quelle indicate. A ciò si aggiunge l’osservazione che «ai fini della applicazione della speciale causa di non punibilità introdotta dall’art. 13–bis, DL 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla L. 102/2009, come ulteriormente modificato dal DL 103/2009, convertito, con modificazioni, dalla L. 141/2009, relativa al rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute irregolarmente fuori dal territorio dello Stato (cosiddetto “scudo fiscale”), è preciso onere dell’interessato indicare gli specifici elementi e le circostanze dai quali poter desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono a quelle oggetto della condotta incriminata o comunque hanno attinenza con il reato contestato» (Sez. 3, 2221/2016) (riassunzione dovuta a Sez. 2, 31549/2019).

 

Confiscabilità dell’”impresa mafiosa”

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di osservare che dell’impresa cosiddetta mafiosa va sottoposto a confisca tutto il complesso delle quote e dei beni aziendali, là dove l’impresa abbia avuto la possibilità di espandersi e di produrre reddito, proprio attraverso l’uso distorto dell’attività e dei beni stessi. Le entrate accumulate nell’esercizio dell’attività e reimpiegate per lo sviluppo aziendale, dunque, assumono connotazioni di illiceità cosiddetta derivata che ne condiziona irrimediabilmente la natura.

Nello sviluppo di questo tracciato si è escluso che si possa disporre la confisca di una sola quota ideale, riconducibile all’utilizzo di risorse illecite, non potendosi distinguere in ragione del carattere unitario del bene, l’apporto lecito da quello illecito, specie quando il consolidamento e l’espansione siano stati agevolati dall’organizzazione criminale (Sez. 1, 9913/2016).

È legittima la confisca di prevenzione di una società, acquisita dal proposto nel periodo di accertata pericolosità, la cui attività sia caratterizzata sin dall’origine dall’impiego sproporzionato di risorse illecite in misura tale da viziare geneticamente l’operatività dell’ente, divenuto il risultato di siffatto impiego, rendendo indistinguibile l’attività illecita da quella lecita (Sez. 6, 43447/2017).

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell’intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell’impresa “mafiosa”, ai sensi dell’art. 2–ter  L. 575/1965, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base della presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite (Sez. 2, 14165/2018).

Allorché gli acquisti si realizzino in un periodo corrispondente con quello per cui è stata asseverata la pericolosità qualificata ed il giudice del merito dia conto dell’esistenza di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi che dette acquisizioni patrimoniali siano la diretta derivazione causale proprio della provvista formatasi nel periodo di illecita attività, legittimamente può applicarsi la misura ablatoria, in quanto esistente un collegamento di tipo logico tra il fatto presupposto, la pericolosità del proposto, e l’incremento patrimoniale “ingiustificato” che ha generato le risorse oggetto di confisca (Sez. 5, 35842/2018).

Il concetto di impresa mafiosa prescinde dall’eventuale origine formalmente lecita dei beni aziendali, poiché implica un’attività imprenditoriale inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati sull’intimidazione mafiosa e laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto e l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti, la confisca disposta in sede di prevenzione sulla base di una accertata pericolosità qualificata si estende a tutto il patrimonio aziendale e a tutto il capitale sociale (ivi comprese le quote sociali di terzi), nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote (Sez. 6, 30200/2019).

L’impresa mafiosa, come noto, costituisce una species del genus “impresa illecita”. Secondo la nozione datane dalla giurisprudenza di legittimità, si parla di “impresa mafiosa” allorquando esista una situazione di totale sovrapposizione fra la compagine associativa e la consorteria criminale o, comunque, quando l’intera attività d’impresa sia “inquinata” dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto, che abbiano determinato una contaminazione irreversibile dei meccanismi di accumulazione della ricchezza prodotta, di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6, 39911/2014).

A tale ipotesi, è stato aggiunto anche il caso in cui l’impresa sia posta sotto il diretto controllo della consorteria, condividendone progetti e dinamiche operative e divenendone, quindi, lo strumento operativo per la realizzazione del programma criminoso, determinando così una obiettiva commistione di interessi fra attività di impresa ed attività mafiosa (Sez. 6, 13296/2018). Volendo ricostruire l’argomento in modo sistematico, deve rilevarsi che la dottrina individua tre tipologie di impresa mafiosa: l’impresa mafiosa “originaria”, caratterizzata da una forte individualizzazione intorno alla figura dominante del fondatore, che la gestisce direttamente con metodo mafioso; l’impresa di proprietà del mafioso, che non la gestisce direttamente, ma esercita in modo mediato la funzione di direzione, avvalendosi di un prestanome; l’impresa “a partecipazione mafiosa”, nella quale il titolare non è un prestanome, ma rappresenta anche i propri interessi.

Tale differenziazione, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, riveste fondamentale importanza ai fini della determinazione dei patrimoni confiscabili e dell’individuazione del requisito della disponibilità dei beni, a prescindere dalla formale intestazione; ed invero, mentre nei primi due casi non sussistono particolari problemi, perché ci si trova innanzi ad imprese create con capitali di origine illecita e gestite con metodo mafioso, nella terza ipotesi occorre operare un ulteriore discrimine tra la situazione in cui vi sia stata una “semplice” immissione di capitali illeciti, senza alterazione del ciclo aziendale, e quella in cui vi sia stato un inquinamento del ciclo aziendale, in quanto quest’ultimo è esercitato con metodi mafiosi (Sez. 5, 32688/2018).

È noto che la giurisprudenza di legittimità, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, ha avuto modo di affermare che la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta, in ragione del carattere unitario del bene che ne è oggetto, con limitazione alle componenti di provenienza illecita, specie nel caso in cui l’intera attività di impresa sia stata agevolata dalle cointeressenze con organizzazioni criminali di tipo mafioso (Sez. 5, 16311/2014).

E, ancora, è stato sostenuto che la confisca, disposta ai sensi dell’art. 2–ter L. 575/1965, di una impresa costituita in forma societaria, della quale sia stato accertato il carattere mafioso per il fatto di avere stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un’associazione mafiosa ed in cointeressenza con essa, si estende a tutto il patrimonio aziendale ed a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto e laddove l’attività economica posta in essere risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti (Sez. 2, 9774/2015).

In base a tale orientamento ermeneutico, quindi, anche nell’ipotesi di un’origine lecita l’evoluzione dell’impresa è compromessa nel suo insieme dall’inquinamento arrecato dall’illecita commistione di affari ed interessi economici con il potentato mafioso, cui si è offerta o di cui si è accettata la contiguità: infatti, a fronte di una comprovata situazione di contiguità mafiosa, il sintomo principale dell’illecita provenienza dei beni, e cioè la sproporzione tra patrimonio e reddito d’impresa, cede necessariamente all’evidenza del fattore inquinante di origine, e cioè la contiguità mafiosa stessa (Sez. 1, 14280/2012).

Di talché, sarebbe comunque irrilevante l’eventuale origine formalmente “pulita” dei beni aziendali, trattandosi di attività imprenditoriale inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati sulla intimidazione mafiosa; l’impresa mafiosa, infatti, non solo pratica forme più o meno intense di intimidazione verso la concorrenza, ma deve la produzione di reddito a vantaggi di origine illecita, quali la disponibilità agevole di liquidità di fonte illecita e la diffusa intimidazione esercitata sul territorio (Sez. 5, 32688/2018).

Una pronuncia abbastanza recente, precisando ed in parte modificando i principi di diritto sopra riportati, ha statuito che, affinché l’azienda possa dirsi confiscabile nella sua interezza, è necessario operare un giudizio di prevalenza, per valore, dell’attività illecita rispetto a quella lecita; invero, accedendo alla tesi dell’unitarietà del bene, questo potrà dirsi di provenienza illecita, e dunque sarà integralmente confiscabile, solo in caso di assoluta o “nettissima” preponderanza della componente illecita.

Pertanto, ne deriverebbe che, anche a fronte di apporti illeciti rilevanti, si possano sottoporre ad ablazione solo quelle parti o quote di valore (e di patrimonio) riferibili alle attività illecite medesime (Sez. 6, 31634/2017).

Deve ulteriormente darsi conto dell’orientamento secondo il quale, proprio in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell’intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell’impresa mafiosa, ai sensi dell’art. 2–ter L. 575/1965, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base di una presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite.

In sostanza, applicando il principio secondo il quale l’ambito cronologico dell’esplicazione della pericolosità è “misura” dell’ablazione anche nel caso di pericolosità qualificata, saranno suscettibili di apprensione coattiva soltanto i beni ricadenti nell’anzidetto perimetro temporale, restando ovviamente salva la facoltà dell’interessato di fornire prova contraria e liberatoria, attraverso la dimostrazione della legittimità degli acquisti in virtù dell’impiego di lecite fonti reddituali (Sez. 6, 48610/2017) ((riassunzione operata da Sez. 5, 43505/2019).

 

Casistica

In tema di misure di prevenzione è legittima la confisca di un edificio realizzato con fondi di provenienza illecita su un suolo di provenienza lecita, se il primo abbia un valore preponderante rispetto al secondo, poiché, quando un bene si compone di più unità, il regime penalistico cui assoggettare il cespite nella sua interezza è quello proprio della parte di valore economico e di utilizzabilità nettamente prevalenti, diventando irrilevante il principio civilistico dell'accessione (Sez. 6, 23494/2020).

 

Linee guida, circolari e prassi

G. Muntoni (presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma), “Giurisprudenza e prassi operative del tribunale di Roma, sezione misure di prevenzione”, relazione tenuta per il corso su “Misure di prevenzione patrimoniale: potenzialità e problematiche del contrasto ai patrimoni illeciti” organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, 6 giugno 2019, reperibile al seguente link: https://www.fondazioneforensefirenze.it/uploads/fff/files/2019/2019_06%20–%20Giugno/13%20–%20Misure%20di%20prevenzione/Relazione%20–%20Dott_%20Guglielmo%20Muntoni.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: problematiche organizzative e operative”, nota n. 6815 del 10 novembre 2017, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_16709.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario”, nota n. 5810 dell’8 novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_21020.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Torino, “Quinta lettera di prevenzione”, novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.osservatoriomisurediprevenzione.it/prassi–e–documenti/