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Art. 7 - Procedimento applicativo

1. Il tribunale provvede, con decreto motivato, entro trenta giorni dal deposito della proposta. L’udienza si svolge senza la presenza del pubblico. Il presidente dispone che il procedimento si svolga in pubblica udienza quando l’interessato ne faccia richiesta. (2)

2. Il presidente fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. L’avviso è comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta e contiene la concisa esposizione dei contenuti della proposta. Se l’interessato è privo di difensore, l’avviso è dato a quello di ufficio. (3)

3. Fino a cinque giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.

4. L’udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. Gli altri destinatari dell’avviso sono sentiti se compaiono. Se l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa tempestiva richiesta, la partecipazione all’udienza è assicurata a distanza mediante collegamento audiovisivo ai sensi dell’articolo 146–bis, commi 3, 4, 5, 6 e 7, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, salvo che il collegio ritenga necessaria la presenza della parte. Il presidente dispone altresì la traduzione dell’interessato detenuto o internato in caso di indisponibilità di mezzi tecnici idonei. (4)

4–bis. Il tribunale, dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue. (5)

5. L’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’interessato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice. L’udienza è rinviata anche se sussiste un legittimo impedimento del difensore. (6)

6. Ove l’interessato non intervenga e occorra la sua presenza per essere sentito, il presidente lo invita a comparire, avvisandolo che avrà la facoltà di non rispondere. (7)

7. Le disposizioni dei commi 2, 4, primo, secondo e terzo periodo, e 5, sono previste a pena di nullità.

8. Qualora il tribunale debba sentire soggetti informati su fatti rilevanti per il procedimento, il presidente del collegio può disporre l’esame a distanza nei casi e nei modi indicati all’articolo 147–bis, comma 2, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. (1)

9. Per quanto non espressamente previsto dal presente decreto, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nell’articolo 666 del codice di procedura penale.

10. Le comunicazioni di cui al presente titolo possono essere effettuate con le modalità previste dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.

10–bis. Le questioni concernenti la competenza per territorio devono essere rilevate o eccepite, a pena di decadenza, alla prima udienza e comunque subito dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti e il tribunale le decide immediatamente. (8)

10–ter. Il tribunale, se ritiene la propria incompetenza, la dichiara con decreto e ordina la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente; la declaratoria di incompetenza non produce l’inefficacia degli elementi già acquisiti. Le disposizioni del comma 10–bis si applicano anche qualora la proposta sia stata avanzata da soggetti non legittimati ai sensi dell’articolo 5. (9)

10–quater. Quando il tribunale dispone ai sensi del comma 10–ter, il sequestro perde efficacia se, entro venti giorni dal deposito del provvedimento che pronuncia l’incompetenza, il tribunale competente non provvede ai sensi dell’articolo 20. Il termine previsto dall’articolo 24, comma 2, decorre nuovamente dalla data del decreto di sequestro emesso dal tribunale competente. (8)

10–quinquies. Il decreto di accoglimento, anche parziale, della proposta pone a carico del proposto il pagamento delle spese processuali. (9)

10–sexies. Il decreto del tribunale è depositato in cancelleria entro quindici giorni dalla conclusione dell’udienza. (9)

10–septies. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il tribunale, se ritiene di non poter depositare il decreto nel termine previsto dal comma 10–sexies, dopo le conclusioni delle parti, può indicare un termine più lungo, comunque non superiore a novanta giorni. (9)

10–octies. Al decreto del tribunale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. (9)

(1) Comma sostituito dall’ art. 1, comma 80, L. 103/2017, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 95, della medesima Legge n. 103/2017. Successivamente, il presente comma è stato così sostituito dall’ art. 2, comma 3, lett. e), L. 161/2017.

(2) Comma così sostituito dall’ art. 2, comma 3, lett. a), L. 161/2017.

(3) Comma così sostituito dall’ art. 2, comma 3, lett. a), L. 161/2017.

(4) Comma così sostituito dall’ art. 2, comma 3, lett. b), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 4 con gli attuali commi 4 e 4–bis.

(5) Comma inserito dall’ art. 2, comma 3, lett. b), L. 161/2017, che ha sostituito l’originario comma 4 con gli attuali commi 4 e 4–bis.

(6) Comma così modificato dall’ art. 2, comma 3, lett. c), L. 161/2017.

(7) Comma così sostituito dall’ art. 2, comma 3, lett. d), L. 161/2017.

(8) Comma aggiunto dall’ art. 2, comma 3, lett. f), L. 161/2017.

(9) Comma aggiunto dall’ art. 2, comma 3, lett. f), L. 161/2017.

Rassegna di giurisprudenza

Avviso d’udienza: contenuto e notifica

La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel parificare l’invito a comparire, destinato alla persona nei cui confronti è chiesta l’applicazione di una misura di prevenzione, al decreto di citazione nel giudizio di cognizione; la funzione dell’avviso sarebbe quella di portare a conoscenza dell’interessato la contestazione che è posta a fondamento della domanda di prevenzione, ossia la forma di pericolosità che s’intende porre a fondamento della misura proposta e gli elementi fattuali dai quali si pretende di desumerla. Tale atto deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione, non solo della misura di cui si chiede l’applicazione, ma anche della forma di pericolosità. Tale orientamento, formatosi nella vigenza della L. 1423/1956, art. 4, comma 6, non è superato o contraddetto dalle previsioni degli artt. 7 e ss., che, attraverso il riferimento all’art. 666 CPP, tende ad estendere al procedimento di prevenzione il modello camerale di cui all’art. 127 CPP (Sez. 6, 6491/2018).

L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179, comma 1, CPP, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma 4, CPP (SU, 24630/2015).

Mentre l’omessa notifica dell’avviso di udienza al proposto e al suo difensore determina una nullità di ordine generale, assoluta e insanabile ai sensi degli artt. 178, lett. a) e 179 CPP, l’omessa “chiamata” del terzo non comporta la nullità del procedimento, ma un’irregolarità che non inficia il procedimento medesimo e, quindi, l’applicazione della misura di prevenzione, fatta salva, come detto, la facoltà dell’extraneus di esplicare le sue difese (postume) con incidente di esecuzione (Sez. 1, 13035/2015).

È legittimo, anche in tema di procedimento di prevenzione, l’utilizzo della PEC per le notificazioni e le comunicazioni a persona diversa dall’imputato, ai sensi degli artt. 148, comma 2– bis, 149, 150 e 151, comma 2, CPP, eseguite sia da parte della cancelleria che dell’ufficio della procura della Repubblica o della procura generale presso la Corte di Appello (Sez. 6, 21740/2018).

 

Necessità dell’indicazione della categoria della pericolosità contestata

Anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 159/2011, l’invito a comparire deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione della misura di cui si chiede l’applicazione e della forma di pericolosità. Tuttavia, questo non comporta necessariamente che, nell’invito a comparire, sia tassativamente imposta l’indicazione della categoria di appartenenza del proposto: ciò che è richiesto, infatti, è l’indicazione del tipo di pericolosità posto a fondamento della richiesta e degli elementi di fatto dai quali la si ritiene. Si tratta, quindi, non tanto dì un requisito formale, ma sostanziale: cosicché, ad esempio, si è ritenuto che non si ha violazione del principio di correlazione tra contestazione e pronuncia qualora gli elementi fattuali posti a fondamento della prognosi di pericolosità, pur non essendo stati espressamente enunciati nella proposta, siano stati acquisiti nel contraddittorio con l’interessato; e nemmeno se, proposta l’applicazione di una misura di prevenzione con riferimento alla pericolosità sociale qualificata dagli indizi di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il provvedimento applicativo della misura risulti fondato sulla pericolosità generica del soggetto con riferimento a elementi di fatto sui quali l’interessato abbia avuto modo di difendersi (Sez. 1, 12174/2019).

 

Pubblicità dell’udienza

È noto che la Corte costituzionale, con sentenza 93/2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 L. 1423/1956 nella parte in cui non consentiva che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica. In merito alla mancata celebrazione dell’udienza in forma pubblica anziché camerale, su specifica richiesta del proposto, emergono nell’ambito della giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti: il primo esclude che tale omessa assunzione della forma pubblica dell’udienza possa integrare una qualche nullità, in quanto non espressamente prevista dall’art. 7; è significativo, anzi, che la trattazione del procedimento in pubblica udienza è contemplata dal comma 1, secondo periodo, dell’art. 7 cit., e che, però, questo articolo, al comma 7, commina espressamente la sanzione della nullità per la violazione di disposizioni contenute in altri commi, elencandole analiticamente, ma omette ogni riferimento al comma 1; il secondo orientamento afferma che tale omissione integra una nullità relativa che viene sanata nell’ipotesi in cui le parti interessate non l’abbiano eccepita. Si afferma da tempo in sede di legittimità che, allorché il giudizio si svolga nelle forme del rito camerale fuori dei casi previsti dalla legge, si verifica, al più, una nullità relativa che, a pena di decadenza, deve essere eccepita dalle parti presenti prima che venga compiuto il primo atto del procedimento o, se non è possibile, subitoTale principio, affermato in relazione al giudizio ordinario che si svolga – contrariamente alla previsione normativa – col rito camerale, vale a maggior ragione nel procedimento di prevenzione, dove la forma pubblica è condizionata ad una richiesta di parte. Inoltre, è stato osservato che anche secondo la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU in tema di pubblicità dell’udienza, può essere possibile una “compensazione” della mancanza di pubblicità del giudizio di primo grado, quando vi è lo svolgimento pubblico di un giudizio di impugnazione a cognizione non limitata, quale appunto quello di appello, che, atteso il richiamo operato dall’art. 10 alle disposizioni del codice di rito, consente un pieno riesame del merito della regiudicanda (Corte costituzionale, 80/2011, § 6.3) (Sez. 2, 27263/2019).

La mancata indicazione nell’intestazione dei moduli prestampati dei verbali della natura pubblica dell’udienza non è determinante, dovendosi verificare unicamente le concrete modalità attraverso le quali è stata celebrata (Sez. 2, 27263/2019).

 

Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice

È notorio che il principio dell’imparzialità del giudice si declina attraverso gli istituti della incompatibilità e dell’astensione/ricusazione. Più precisamente, la disciplina casistica in tema d’incompatibilità si propone di tutelare l’imparzialità della funzione giudicante, per così dire, indirettamente, preservandone l’autonomia e la distinzione rispetto ad attività compiute in gradi e fasi precedenti del medesimo processo: in altri termini, essendo la normativa in questione preordinata ad assicurare il “rispetto della logica del processo penale, delle sue scansioni e delle differenze di ruoli che in esso i diversi soggetti sono chiamati a svolgere” (Corte costituzionale, 306/1997), evitando in capo all’identico giudice persona fisica sovrapposizioni, appunto, di ruoli e di attività che devono restare distinti onde non ingenerare il sospetto di un pregiudizio rispetto all’esercizio della facoltà giudicante, essa opera esclusivamente all’interno del medesimo processo penale, su di un piano astratto, in quanto le ipotesi che la integrano sono delineate unicamente dal fatto di aver svolto determinate attività in seno allo stesso giudizio, indipendentemente dal concreto atteggiarsi di tale attività. Per contro, gli istituti dell’astensione e della ricusazione – fatta eccezione per il richiamo alle situazioni d’incompatibilità compiuto dall’art. 36 lett. g) CPP, nonché dal successivo art. 37, comma 1, lett. a) – si collocano su di un piano differente, poiché prescindono dalla struttura e dall’articolazione del processo ed attengono a situazioni personali del giudice, ovvero all’esistenza di suoi comportamenti che, “siano tenuti entro o fuori il processo stesso, per il loro concreto contenuto sono tali da poter fare ritenere la sussistenza di un pregiudizio in capo al giudice, rispetto alla causa da decidere” (così la già citata sentenza 306/1997). Onde dette cause sono previste in modo da operare non in astratto, ma nella specificità della singola vicenda processuale: il che si correla al fatto che l’ordinamento riconosce alla stessa iniziativa del giudice (esercizio della facoltà d’astensione), ovvero della parte interessata (istanza di ricusazione), l’avvio della procedura funzionale alla rimozione della situazione di pregiudizio, laddove, nel caso dell’incompatibilità, è la stessa organizzazione dell’ufficio ad essere potenzialmente idonea ad evitare l’insorgere delle situazioni normativamente contemplate, subentrando l’iniziativa personale solo in assenza del detto strumento organizzativo. Sul piano sovranazionale e, segnatamente, del diritto convenzionale, è altrettanto notorio che l’art. 6, comma 1, CEDU, sancisce il diritto di ogni individuo ad essere giudicato “da parte di un tribunale indipendente e imparziale”, con la precisazione che l’imparzialità va apprezzata come assenza di pregiudizi o preconcetti, suscettibile di accertamento in diversi modi. Relativamente ai criteri per la valutazione dell’imparzialità, la Corte EDU ha teorizzato la distinzione fra “approccio soggettivo” e “approccio oggettivo”: il primo è diretto ad accertare la manifestazione della personale convinzione del magistrato sul caso di cui trattasi, ovvero la sussistenza di un interesse del magistrato medesimo nel giudicare lo specifico caso; il secondo è invece volto a determinare se il giudice abbia offerto garanzie tali da dissipare ogni legittimo dubbio in ordine alla sua imparzialità. La stessa Corte EDU ha comunque rappresentato che le due nozioni non sono suscettibili di una netta separazione, atteso che la condotta tenuta da un magistrato potrebbe far sorgere dubbi sulla sua imparzialità dal punto di vista dell’osservatore esterno (approccio oggettivo), ma potrebbe anche essere spia sintomatica del personale convincimento di cui il suddetto è portatore (approccio soggettivo). In concreto, peraltro, stante la riconosciuta difficoltà di dimostrare la violazione dell’art. 6 sotto il profilo dell’assenza d’imparzialità soggettiva – in considerazione altresì del fatto che la personale imparzialità del giudice va presunta fino a prova contraria: la Corte ha principalmente concentrato il proprio sindacato sull’esame obiettivo, a tale riguardo venendo in considerazione tipicamente l’accertamento di rapporti gerarchici o di diverso tipo fra il giudice e le altre parti coinvolte nel procedimento, tali da giustificare obiettivamente dubbi circa l’imparzialità del giudice, che in una società democratica deve godere della fiducia dei cittadini e degli utenti della Giustizia, come pure l’esercizio di differenti funzioni da parte del giudice nel medesimo procedimento, esclusa l’ipotesi della pronuncia di decisioni di tipo meramente formale e procedurale. Conclusivamente, è possibile affermare che la «giurisdizionalizzazione» del procedimento di prevenzione trova la sua ragion d’essere nel rango costituzionale dei beni – la libertà personale ed il diritto di proprietà e di libera iniziativa economica – che vengono comunque ad essere significativamente incisi da detto procedimento, a prescindere dalla specificità sua propria, che non ne consente, anche per il modulo organizzativo prescelto, l’assimilazione alla tipologia penale. Fermo quanto sopra, l’attenzione dell’interprete va ora rivolta al peculiare istituto della ricusazione, la cui denegata applicazione costituisce oggetto del presente giudizio. A tale riguardo viene dunque in considerazione l’art. 37 CPP, nella lettura fornitane dai giudici della Consulta, che, con sentenza 283/2000, sulla scia di quanto statuito con decisione interpretativa di rigetto 113/2000 in relazione alle “gravi ragioni di convenienza” di cui alla lettera h) dell’art. 36 CPP – da ritenersi passibili di integrazione non solo alla stregua di ragioni di carattere personale, proprie del giudice uti privatus, ma anche dal legittimo svolgimento di pregresse funzioni giudiziarie – hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della succitata norma codicistica di cui all’art. 37, “nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto”. La tesi che, sulla scorta del ritenuto carattere “unidirezionale” della richiamata decisione costituzionale, vorrebbe sezionare l’istituto della ricusazione, escludendo dalla sua applicabilità al procedimento di prevenzione i casi del giudice che abbia emesso in altro procedimento, quale che esso sia, una precedente decisione di merito nei confronti del medesimo soggetto, in ordine allo stesso fatto su cui verte il giudizio pregiudicato, non pare affatto convincenteInvero, è la stessa sentenza 283/2000 della Corte costituzionale che non consente di sostenere la tesi della “unidirezionalità”, atteso che la motivazione della decisione è esplicita nel richiamare le proprie precedenti pronunce, significative del fatto “che il pregiudizio per l’imparzialità–neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza 306/1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell’ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (ordinanza 178/1999)”. Tanto in linea con il principio, ivi ancora una volta ribadito e sulla cui portata generale non v’è motivo di soffermarsi oltre, per cui “la disciplina in materia deve essere comunque idonea ad evitare che il giudice chiamato a svolgere funzioni di giudizio possa essere, o anche solo apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente svolte” Opinare diversamente significherebbe relegare il procedimento di prevenzione in un ambito contraddistinto da minor tutela, a fronte di un sistema di garanzie – quello, appunto, sull’imparzialità del giudice – che è naturalmente ed inscindibilmente connesso allo ius dicere, senza aggettivazioni ulteriori. Proprio la portata generale del principio, che trova esplicito riconoscimento nelle parole del giudice delle leggi, rende non condivisibile la valorizzazione della peculiare architettura propria del procedimento di prevenzione, che vale semmai a dar conto del diverso conformarsi del diritto di difesa. Si aggiunga che l’intervenuta declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 37 CPP, nei termini di cui alla sentenza 283/2000, legittima appieno l’esegesi proposta, in senso costituzionalmente orientato, in ragione del disposto ampliamento della sfera di applicabilità della norma de qua ad opera del giudice delle leggi, che, calata nell’ambito del procedimento di prevenzione, non può che condurre all’estensione “bidirezionale”, in forza di una naturale “attitudine estensiva” sua propria (Sez. 6, 41976/2019).

 

Principio dell’immutabilità del giudice

Il principio di immutabilità del giudice (art. 525 CPP), espressamente previsto per la sola fase dibattimentale, si applica anche al procedimento di prevenzione – avuto riguardo alle peculiarità di quest’ultimo, caratterizzato da procedure semplificate e, in particolare, dal fatto che si svolge in camera di consiglio – solo nel caso in cui le conclusioni delle parti siano ricevute da un collegio diverso da quello decidente, con la conseguenza che il mutamento del collegio determina la nullità assoluta di cui all’art. 525, comma 2, CPP; nell’ipotesi, invece, in cui dette parti siano ammesse a dedurre di nuovo le conclusioni dinanzi ad un collegio diversamente composto prima della decisione, non si verifica la suddetta nullità (Sez. 5, 5737/2004, richiamata adesivamente da Sez. 5, 11242/2019).

 

Irrilevanza del legittimo impedimento del difensore

Nel procedimento camerale a partecipazione necessaria, ex art. 7, comma 4, non rileva l’impedimento del difensore per legittimo impedimento, essendo espressamente previsto dal successivo comma 5 il rinvio dell’udienza unicamente per il legittimo impedimento dell’interessato, che abbia chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice (SU, 31461/2006; Sez. 1, 25844/2013, in cui si afferma che «l’effettività del diritto di difesa» (che il legislatore ha inteso garantire anche nei procedimenti camerali partecipati diversi dall’udienza preliminare),«non deve necessariamente comportare che il suo esercizio debba essere disciplinato in modo identico nella multiforme tipologia dei riti», per cui, si è affermato, che quando è prevista come necessaria la presenza del difensore, tale condizione può essere soddisfatta anche dall’intervento di altro difensore immediatamente reperibile designato come sostituto ai sensi dell’art. 97, comma 4, CPP,  nonché che detta interpretazione non contrasta con i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, avendo questa puntualizzato che l’art. 6, par. 3, CEDU, pur riconoscendo ad ogni imputato «il diritto di difendersi personalmente o di fruire dell’assistenza di un difensore di sua scelta», tuttavia «non ne precisa le condizioni di esercizio, lasciando agli Stati contraenti la scelta di mezzi idonei a consentire al loro sistema giudiziario di garantire siffatto diritto in modo che si concili con i requisiti di un equo processo, Corte EDU, 27/04/2006, Sannino» (Sez. 6, 23846/2019).

 

Necessità di un difensore munito di procura speciale per i terzi interessati

Per i soggetti portatori di un interesse meramente civilistico all’interno del giudizio penale, come è il caso dei terzi interessati nella procedura di prevenzione, vale la regola, espressamente menzionata dall’art. 100 CPP per la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, in forza alla quale essi “stanno in giudizio col ministero di un difensore munito di procura speciale”, al pari di quanto previsto nel processo civile dall’art. 83 CPC. A differenza della parte assoggettata all’azione penale a cui, nel caso, va equiparato il proposto rispetto alla chiesta misura di prevenzione patrimoniale, legittimati a stare in giudizio di persona, i soggetti portatori di ragioni di interesse esclusivamente civilistico, dunque, in conformità a quanto previsto per il processo civile (art. 83 CPC), non possono stare personalmente in giudizio, ma hanno un onere di patrocinio che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore. Ne conseguono due immediati corollari. La partecipazione al processo del soggetto sussumibile all’egida delle categorie disciplinate dall’art. 100 CPP è radicalmente inficiata sia nel caso in cui a tanto provveda lo stesso personalmente, sia laddove siffatta partecipazione venga realizzata tramite un difensore non munito del mandato ex art. 100 citato. Non rileva, poi, al fine, che l’art. 100 CPP non preveda espressamente, tra le categorie di soggetti ivi indicati, anche il terzo interessato nelle misure di prevenzione, risultando quest’ultima posizione processuale, in ragione del carattere meramente civilistico degli interessi che ne giustificano la partecipazione al relativo procedimento, pienamente equiparata a quelle espressamente menzionate, non in termini di tassativa, dalla norma in esame (Sez. 5, 40496/2019).

 

Rinnovazione istruttoria

La regola della rinnovazione istruttoria è tipica del giudizio di merito al pari del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, canone di giudizio che governa il processo penale e l’affermazione di responsabilità dell’imputato per un reato commesso, laddove il giudizio di prevenzione può anche prescindere dalla commissione di reati e anche dall’accertamento della colpevolezza, essendo appunto, destinato non a tal fine, ma all’applicazione di misure ante delitto con finalità precipuamente preventive (Sez. 6, 23846/2019).

 

Regole probatorie

Nei procedimenti in camera di consiglio, quali quello di prevenzione, di regola non sono applicabili le norme sulla mancata assunzione di una prova decisiva e sul diritto dell’imputato all’ammissione di prova a discarico sui fatti oggetto di prova a carico poiché, a norma dell’art. 495 comma 2, CPP, il diritto di ammissione della prova a discarico è previsto soltanto per il giudizio dibattimentale (Sez. 2, 33538/2017).

In tema di procedimento di prevenzione, non è necessaria l’assunzione delle prove dichiarative in contraddittorio tra le parti, essendo sufficiente che al proposto sia consentito, mediante l’esame degli atti, la possibilità di piena conoscenza del loro contenuto ed il diritto di controdedurre (Sez. 6, 40552/2017).

 

Termine di deposito della decisione

Il termine di trenta giorni per l’emanazione del decreto di applicazione della misura di prevenzione da parte del tribunale, stabilito dall’art. 4, comma 5, L. 1423/1956, in assenza di previsione legislativa di qualsiasi sanzione, deve essere ritenuto meramente ordinatorio, al pari, del resto, dell’analogo termine previsto dal comma 9 dello stesso art. 4 per l’adozione del decreto in grado di appello. Di conseguenza, il mancato rispetto di detti termini non produce né la nullità né l’inefficacia del decreto di applicazione della misura (Sez. 6, 41204/2017).

 

Motivazione del provvedimento di prevenzione

È del tutto pacifico che sia possibile svolgere in sede di legittimità il controllo inerente all’esatta applicazione della legge, sui provvedimenti applicativi della misura di prevenzione, ove si profila la totale esclusione di argomentazione su un elemento costitutivo della fattispecie che legittima l’applicazione della misura, configurandosi, in caso di radicale mancanza di argomentazione su punto essenziale, la nullità del provvedimento ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 111, comma 6, Cost., 125, comma 3, CPP e 7, comma 1, poiché l’apparato giustificativo costituisce l’essenza indefettibile del provvedimento giurisdizionale (SU, 111/2018).

È escluso che dalla sola individuazione di appartenenza ad un’associazione mafiosa, pur se riferibile a compagini storiche, possa automaticamente discendere l’attualità della pericolosità, a prescindere da ogni analisi rapportata ai tempi dell’intervento di prevenzione, come richiesto da tempo dalla stessa Corte costituzionale che, già con la sentenza 23/1964, aveva escluso la rilevanza dei semplici sospetti. In tal senso  il massimo consesso di legittimità ha sottolineato, richiamando la giurisprudenza costituzionale, come sia possibile “valorizzare, al fine dell’accertamento di pericolosità, specifiche circostanze di fatto che emergano da pronunce liberatorie, condizione che risulta fisiologicamente connessa alla mancanza di correlazione tra le misure di prevenzione e la consumazione di reati, posto che proprio la finalità preventiva consente l’intervento in presenza di fatti espressivi di una elevata pericolosità, sui quali è dato intervenire previamente per evitare la commissione di reati, ma risulta solo correttamente porre in evidenza che l’onere argomentativo in tali condizioni non può che uscirne rafforzato”. Ciò discende da fatto che, nel caso di applicazione di misura di prevenzione “si richiede quale presupposto applicativo, in luogo dell’esistenza di gravi indizi di consumazione del reato, l’accertamento di elementi sull’appartenenza alla compagine mafiosa, che costituiscono un minus rispetto a quanto legittima l’applicazione della misura cautelare, in quanto si attribuisce rilievo giuridico all’esistenza di un regime di vita non necessariamente connesso a fattispecie di reato attribuibili all’interessato, ma a fatti, anche privi di rilievo penale, che generino elementi indicativi di tale collegamento. Come già rilevato, il concetto di appartenenza, evocato dalla norma, è più ampio di quello di partecipazione, con il conseguente rilievo attribuito in tema di misure di prevenzione a condotte che non integrano neppure in ipotesi di accusa la presenza del vincolo stabile tra il proposto e la compagine, ma rivelano una attività di collaborazione, anche non continuativa. La differente struttura risulta essenziale nel senso di impedire, anche sul piano logico ricostruttivo, la piena equiparazione tra situazioni radicalmente diverse. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non siano apprezzati elementi indicativi di tale partecipazione, individuabile nella collaborazione strutturale con il gruppo illecito, nella consapevolezza della funzione del proprio apporto stabile e riconoscibile dai consociati, la collaborazione occasionalmente prestata, pur nel previo riconoscimento della funzione della stessa ai fini del raggiungimento degli scopi propri del gruppo, per la mancanza di stabilità connessa alla natura di tale cooperazione, non può legittimare l’applicazione di presunzioni semplici, la cui valenza è radicata nelle caratteristiche del patto sociale, la cui ideale sottoscrizione, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, costituisce il substrato giustificativo (Corte costituzionale, 231/2010) che l’apporto occasionale non possiede per definizione. In tal caso l’accertamento di attualità dovrà logicamente essere ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività dell’apporto, sulla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi in comune (Sez. 5, 43405/2019).

L’accertamento negativo contenuto in una sentenza irrevocabile di assoluzione impedisce di assumere una determinata condotta come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità sociale (Sez. 5, 17848/2022).

Nel procedimento di prevenzione, il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto (Sez. 2, 10999/2019).

Nel procedimento di prevenzione il giudice è titolare di un autonomo potere di valutazione degli elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, che possono essere utilizzati nei confronti dei soggetti indicati nella lett. a) dell’art. 4 anche qualora non siano stati ritenuti sufficienti ad integrare la prova della partecipazione ad associazione mafiosa, in ragione della diversità tra il concetto di “appartenenza” (evocato dalla disposizione citata) e quello di “partecipazione”, necessaria ai fini di integrare il reato di cui all’art. 416–bis CP; si è precisato, tuttavia, che, non di meno, qualora vi sia stata condanna nel procedimento penale, il giudice della prevenzione potrà riferirsi ad essa come ad un “fatto” solo se passata in giudicato, mentre, qualora non sia definitiva, egli non potrà limitarsi a richiamare la sentenza, dovendo confrontarsi “autonomamente” con gli elementi probatori per verificare la sussistenza dei presupposti che legittimano l’applicazione della misura (Sez. 5, 1831/2016).

In sede di verifica della pericolosità del soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo ad una sentenza di condanna a condizione, però, che non sia stata emessa una sentenza irrevocabile di assoluzione in quanto la negazione penale di un fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità; il potere di autonoma valutazione sussiste anche nel caso di emissione di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione purché il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti (Sez. 2, 11846/2018).

Il giudice del merito, ove fornisca solo un “simulacro” di motivazione, viene meno all’obbligo, impostogli dagli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, di provvedere, nel procedimento di prevenzione, con decreto motivato. L’impianto argomentativo del provvedimento di prevenzione risulta censurabile in Cassazione quando risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicità, ovvero quando si ponga come assolutamente inidoneo a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito; oppure, ancora, allorché le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far risultare oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione della misura. Il vizio di apparenza è, insomma, ravvisabile ove il giudice si avvalga di asserzioni del tutto generiche e di carattere apodittico o di proposizioni prive di effettiva valenza dimostrativa, determinando così il venir meno di qualunque supporto argomentativo a sostegno del decisum (Sez. 5, 43405/2019).

Se l’art. 125, comma 3, CPP, impone la motivazione di un provvedimento che in materia di prevenzione – ha forma di decreto ma natura di sentenza (SU, 600/2010), la «mancanza» del percorso giustificativo della decisione si realizza anche lì dove nella parte constatativa del giudizio di prevenzione si adottino criteri meramente probabilistici sulla identificazione delle condotte delittuose poste a base del giudizio di pericolosità, posto che a venire in rilievo è – in simili casi – la violazione del profilo funzionale della motivazione (Sez. 1, 21735/2019).

È viziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), CPP, il decreto che omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte quando questo, singolarmente considerato, sarebbe tale da determinare un esito opposto del giudizio; dunque, se il giudice ha l’obbligo di motivare il decreto in materia di misure di prevenzione a pena di nullità (artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, , in combinato disposto con l’art. 125, comma 3, CPP), non solo tale obbligo deve estendersi a tutti i punti oggetto della decisione, ma la delimitazione del contenuto del dovere argomentativo non può essere rimessa alla insindacabile valutazione del decidente (Sez. 5, 43405/2019).

Si ha mancanza di motivazione non solo ove essa sia graficamente assente, ma anche nei casi in cui risulti meramente apparente, poiché priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità, al punto da apparire assolutamente inidonea a rendere comprensibile l’iter giustificativo, ovvero allorquando le linee argomentative siano così scoordinate e carenti dei necessari passaggi esplicativi da rimanere del tutto oscure le ragioni della decisione (Sez. 1, 8279/2019).

È esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), CPP, potendosi esclusivamente denunciare, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dall’art. 7, comma 1, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente che ricorre quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettati da una parte che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio (Sez. 1, 17640/2019).

Nessun provvedimento giudiziario che sia soggetto ad obbligo di motivazione può essere validamente emesso attraverso la mera «indicazione» di una decisione emessa in altra sede non assistita da una – sia pur sintetica – considerazione autonoma della rilevanza dimostrativa dei dati in tale diversa sede emersi, considerazione tale da far comprendere al destinatario della decisione l’iter logico seguito (Sez. 1, 7585/2014).

Giova precisare, infatti, che anche il giudizio di prevenzione, lungi dal consistere in una mera valutazione di pericolosità soggettiva (cd. parte prognostica del giudizio) si alimenta in primis dall’apprezzamento di «fatti» storicamente apprezzabili e costituenti a loro volta «indicatori» della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (cd. parte constatativa del giudizio)Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione, in altre parole, non viene ritenuto «colpevole» o «non colpevole» in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto «pericoloso» o «non pericoloso» in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato ad «indice rivelatore» della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o dell’ordine economico e ciò in rapporto all’esistenza di precise disposizioni di legge che «qualificano» le categorie di pericolosità. Ciò deriva dalla fisionomia costituzionale assunta da tale versante della giurisdizione a seguito di numerose decisioni della Corte costituzionale, tra cui va ricordata la sentenza 177/1980, con cui proprio in ragione della difficoltà dimostrativa dei generici presupposti di fatto venne cancellata la categoria criminologica dei soggetti proclivi a delinquere: “invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l’accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l’altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale”, nonchè l’altrettanto fondamentale sentenza 23/1964, con cui la Corte costituzionale ebbe a dichiarare infondate le numerosi questioni all’epoca sollevate dai giudici di merito sul testo della L. 1423/1956: “non è esatto che dette misure possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti; l’applicazione di quelle norme, invece, richiede una oggettiva valutazione di fatti, da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona”. Ora, se valutazione di «fatti» deve necessariamente essere operata, è evidente che la stessa non può essere integralmente demandata alla considerazione dell’esito di un procedimento penale, specie ove detto esito sia ancora incerto. In casi del genere, il giudice della prevenzione ha il preciso dovere di verificare il motivo dell’annullamento e le sue eventuali «ricadute» in tema di tenuta di un apparato argomentativo tale da sorreggere la cd. “parte constatativa del «suo» giudizioCome è stato ribadito dalle Sezioni unite (SU, 13426/2010) il vizio di inutilizzabilità patologica, ad esempio, dei dati probatori raccolti nel procedimento penale può rifluire in sede di prevenzione, posto che il vero tratto distintivo che qualifica l’autonomia del procedimento di prevenzione dal processo penale, va intravisto esclusivamente nella diversa “grammatica probatoria” (intesa come diverso livello di persuasività) che deve sostenere i rispettivi giudizi; così come particolare impegno motivazionale va profuso in tutte le ipotesi di intervenuta assoluzione, in virtù della nuova previsione di legge in tema di «revocazione» delle misure di prevenzione patrimoniali (art. 28) ove si afferma un principio di indubbia portata generale (revocazione quando i fatti accertati con sentenze penali definitive escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca). In altre parole, la «spia» rappresentata dall’intervenuto annullamento (nel caso in esame per vizio di motivazione) della decisione emessa in sede penale e richiamata quale «presupposto in fatto» del giudizio di pericolosità esige, da parte del giudice della misura di prevenzione, una motivazione rafforzata e realmente autonoma dei «dati dimostrativi» singolarmente intesi che avevano in precedenza sostenuto l’affermazione di penale responsabilità (Sez. 2, 17332/2019).

Ogni valutazione relativa della pericolosità sociale in dipendenza della prolungata detenzione, esistente o sopraggiunta alla misura di prevenzione, deve essere rimessa all’organo che ha adottato il provvedimento che deve valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura (Corte costituzionale, 291/2013), sicché lo stato detentivo non costituisce ostacolo all’applicazione della misura (Sez. 1, 12769/2019).

Casistica

Poiché la revoca dell’autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato per svolgere, in modo stabile e continuativo, attività lavorativa implica, necessariamente, un giudizio di (ri)aumentata pericolosità e una modifica strutturale e permanente delle prescrizioni e, quindi, può essere disposta solo ai sensi dell’art. 11, comma 2, la stessa revoca deve essere disposta, in assenza di una specifica regolamentazione in quest’ultimo articolo, con l’ordinario procedimento di cui all’art. 7 (che, per quanto non espressamente previsto, rinvia alle disposizioni dell’art. 666 CPP), il quale impone che la decisione sia presa con la garanzia del contraddittorio tra le parti (Fattispecie nella quale la corte di appello, con provvedimento emesso de plano sulla base di una nota informativa dei carabinieri che segnalava plurime violazioni delle prescrizioni della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, aveva revocato l’autorizzazione in precedenza concessa al preposto ad allontanarsi dal comune obbligato per svolgere attività lavorativa. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla corte di appello competente) (Sez. 2, 19329/2022).

Ne bis in idem

In materia di misure di prevenzione, costituisce orientamento interpretativo consolidato e ribadito dalla costante giurisprudenza di legittimità che il principio del ne bis in idem o se si vuole la preclusione processuale ad un secondo giudizio sulla base degli stessi elementi di fatto si atteggia in maniera peculiare, atteso che non essendo tali misure destinate a sanzionare la realizzazione di fatti criminali quanto a prevenirne la consumazione, l’impedimento ad una rinnovata verifica della pericolosità sociale vale allo stato degli atti, fin quando cioè non emergano elementi ulteriori non solo di fatto ma anche di diritto (Sez. 6, 30200/2019).

È inapplicabile il principio del divieto del ne bis in idem tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto–reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale (fattispecie relativa all’applicazione della misura della sorveglianza speciale nei confronti di soggetto indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso, ancorché già condannato per partecipazione alla stessa associazione e, come tale, destinatario anche della misura di sicurezza della libertà vigilata). Anche di recente, in un caso relativo alla dedizione sistematica e professionale ad attività usuraria, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato “la piena autonomia dei due tipi di procedimenti anche sul fronte degli strumenti probatori e, nei casi in cui in sede penale non sia intervenuto verdetto di colpevolezza già irrevocabile, l’ampia libertà del giudice della prevenzione nell’apprezzamento degli elementi probatori tratti da procedimenti penali in corso, apprezzamento svincolato dal rispetto obbligatorio delle regole di giudizio proprie del dibattimento penale in tema di prova indiziaria e di prova dichiarativa, con gli unici vincoli di non fare ricorso a prove vietate e di dar conto delle ragioni per le quali da quegli elementi si traggono i presupposti applicativi della misura imposta” (Sez. 1, 27147/2016, secondo cui in tema di procedimento di prevenzione, le particolari finalità dello stesso e la sua disciplina positiva, comportano che non può estendersi in via generalizzata alle indagini del PM e della PG, finalizzate alla formulazione della proposta, la stessa regolamentazione e gli stessi limiti previsti per le indagini preliminari nel processo penale, con la conseguenza che al titolare della proposta di prevenzione è conferita ampia autonomia e libertà di forma nella raccolta dei dati informativi, compresa la facoltà di escutere fonti dichiarative, con l’unico limite del rispetto delle norme del codice di procedura penale in materia di prove illegali di cui all’art. 191 CPP) (Sez. 1, 37024/2018).

 

Condanna alle spese del procedimento di prevenzione

La condanna alle spese, anche nel procedimento relativo alle misure di prevenzione, incombe comunque sul proposto che sia stato soggetto, in prime cure o in sede di appello, ad una misura, sia essa personale sia reale (Sez. 5, 38737/2019).

 

Inammissibilità del ricorso per saltum

In tema di misure di prevenzione, è inammissibile il ricorso “per saltum” in cassazione contro le decisioni del tribunale; ciò in quanto il rinvio operato dall’art. 7 non è ai principi generali del codice di rito in materia d’impugnazioni, bensì alle “norme del codice di procedura penale riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza” (Sez. 2, 12385/2019).

 

Linee guida, circolari e prassi

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: problematiche organizzative e operative”, nota n. 6815 del 10 novembre 2017, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_16709.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Torino, “Quinta lettera di prevenzione”, novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.osservatoriomisurediprevenzione.it/prassi–e–documenti/