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Art. 127 - Procedimento in camera di consiglio

1. Quando si deve procedere in camera di consiglio, il giudice o il presidente del collegio fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. L’avviso è comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta. Se l’imputato è privo di difensore, l’avviso è dato a quello di ufficio.

2. Fino a cinque giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.

3. Il pubblico ministero, gli altri destinatari dell’avviso nonché i difensori sono sentiti se compaiono. Se l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo.

4. L’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice.

5. Le disposizioni dei commi 1, 3 e 4, sono previste a pena di nullità.

6. L’udienza si svolge senza la presenza del pubblico.

7. Il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nel comma 1, che possono proporre ricorso per cassazione.

8. Il ricorso non sospende l’esecuzione dell’ordinanza, a meno che il giudice che l’ha emessa disponga diversamente con decreto motivato.

9. L’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia altrimenti stabilito. Si applicano le disposizioni dei commi 7 e 8.

10. Il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell’art. 140 comma 2.

Rassegna giurisprudenziale

Procedimento in camera di consiglio (art. 127)

Ricorribilità del provvedimento di archiviazione

L’art. 409 comma 6 nella sua precedente formulazione prevedeva la ricorribilità dell’ordinanza di archiviazione solo nei casi di nullità previsti dall’art. 127 comma 5. La norma è stata abrogata dall’art. 1 comma 32 lett. c) della L. 103/2017, con decorrenza 3 agosto 2017, che con l’art. 1, comma 33 ha introdotto l’art. 410-bis che regola i casi di nullità del provvedimento di archiviazione ed il relativo procedimento di reclamo avanti al Tribunale in composizione monocratica.

Si applica in materia il principio tempus regit actum. Fatta questa precisazione, occorre rilevare che le ipotesi di cui all’art. 127, comma 5  limitano tassativamente il ricorso all’inosservanza delle disposizioni sull’intervento delle parti in camera di consiglio, a garanzia del contraddittorio formale e, pertanto, non possono essere oggetto di censura le valutazioni poste a fondamento dell’ordinanza di archiviazione, essendo al riguardo il giudice libero di motivare il proprio convincimento anche prescindendo dalle valutazioni dell’organo titolare dell’accusa e da quelle esposte dalla persona offesa in sede di opposizione (Sez. 4, 27426/2018).

L’ordinanza di archiviazione, ancorché nelle limitate ipotesi di nullità previste dall’art. 127, comma 5, è ora (dopo l’abrogazione dell’art. 1 comma 32 lett. c) della L. 103/2017) reclamabile avanti al tribunale in composizione monocratica (art. 410-bis comma 3), data l’abrogazione della norma prevista dall’art. 409 comma 6, quanto alla sua ricorribilità per cassazione (Sez. 3, 28769/2018).

 

Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto

Il sindacato di ammissibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto può essere compiuto senza formalità di procedura e le garanzie del contraddittorio scritto e senza seguire il rito camerale disciplinato dall’art. 127, in quanto l’art. 625-bis prevede, al fine di evitare un’inutile attività giurisdizionale nei casi in cui l’inammissibilità sia evidente, un procedimento preliminare, a cognizione sommaria, per la delibazione delle istanze finalizzate a contrastare un accertamento giudiziale divenuto irrevocabile (Sez. 3, 39179/2014).

nel procedimento per la restituzione in termini, sulla relativa istanza il giudice competente provvede de plano, a meno che non sia in corso un procedimento principale con rito camerale, nel qual caso sulla predetta istanza decide nelle medesime forme (SU, 14991/2006).

 

Giudizio di appello

Il procedimento relativo all’applicazione di misure cautelari a carico degli enti collettivi si fonda sulla previsione di un contraddittorio “anticipato” delle parti, poiché l’art. 47, comma 2, del D. Lgs. 231/2001 dispone che “se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’ente e ai difensori. L’ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda”.

L’adozione della misura, dunque, non è rimessa ad una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti quale strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente invasive sulla vita e sulle modalità di funzionamento della persona giuridica.

Si richiede, in tal modo, un vaglio giurisdizionale penetrante sulle ragioni dell’intervento cautelare a carico dell’ente, la cui oggettiva praticabilità può richiedere un’approfondita analisi in ordine ad una serie di profili rilevanti, che investono, ad es., l’analisi dell’assetto organizzativo, la valutazione dell’adeguatezza del programma di attività riparatorie, ovvero la verifica della necessità di consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente e disporre, in caso di accoglimento della richiesta, il commissariamento ai sensi dell’art. 45, comma 3, del citato decreto legislativo.

Entro tale disegno normativo trova la sua razionale collocazione l’istanza  che la società può avanzare, per l’ipotesi in cui l’interdizione sia disposta, ai sensi dell’art. 49  di sospensione della misura cautelare per porre in essere le attività riparatorie cui viene condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17. Se il giudice, infatti, ritiene di accogliere la richiesta dell’ente, determina una somma di denaro a titolo di cauzione e dispone la sospensione della misura, indicando il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui all’art. 17.

La finalità dell’istituto è quella di incentivare il ravvedimento post factum dell’ente secondo una logica premiale che mira a privilegiare la compensazione dell’offesa rispetto alla mera punizione dell’illecito: se la società adempie tempestivamente ed in modo corretto, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca, mentre in caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata, o per la quale è stata data garanzia, viene devoluta alla cassa delle ammende (art. 49, comma 3).

Se si realizzano le condizioni previste dall’art. 17 interviene la fattispecie estintiva della misura, sicchè il giudice ne dispone la revoca insieme alla restituzione della cauzione ovvero la cancellazione dell’ipoteca, mentre la fideiussione prestata si estingue. Nel momento in cui il giudice prende cognizione della vicenda per valutare la condotta dell’ente alla luce dei parametri dettati dall’art. 49, può disporre la revoca della misura cautelare anche a prescindere dalla valutazione positiva di idoneità e tempestività delle attività riparatorie, ogni qual volta ritenga siano venute meno, anche alla luce di fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità della cautela.

L’art. 50, comma 1 consente, infatti, un’immediata decisione liberatoria, anche d’ufficio, nelle ipotesi in cui il quadro indiziario della responsabilità sia del tutto mancante, anche per fatti sopravvenuti, ovvero quando non risulti più attuale l’originaria individuazione delle esigenze cautelari, o, ancora, al verificarsi delle condizioni stabilite dall’art. 17.

L’art. 49, comma 4, ripropone, a sua volta, all’interno del procedimento incidentale finalizzato alla sospensione della misura cautelare su richiesta dell’ente, la medesima regola fissata dalla norma generale dell’art. 50, comma 1, secondo cui s’impone la revoca della misura allorché intervengano gli adempimenti di cui al citato art. 17, ossia il risarcimento del danno, la messa a disposizione del profitto, l’adozione e l’efficace attuazione dei cd. compliance programs.

La revoca, pertanto, può costituire il risultato di una valutazione ex ante, nel senso che il giudice ritenga insussistenti ab origine i presupposti legittimanti il provvedimento cautelare, ovvero ex post, nel caso in cui questi ultimi, ancorché sussistenti al momento della disposizione della cautela, siano successivamente venuti meno: interpretazione, questa, esplicitamente desumibile dal disposto normativo, ove si specifica che la mancanza delle condizioni applicative possa derivare anche da fatti sopravvenuti.

In tal senso, ad es., assumono rilievo una eventuale evoluzione del quadro probatorio in senso favorevole all’indagato, oppure un miglioramento dello stato organizzativo aziendale, suscettibile di escludere la permanenza del periculum.

Quest’ultimo profilo risulta solo in parte assorbito dalla seconda condizione legittimante un provvedimento di revoca, ovvero dall’adempimento delle condotte di cui all’art. 17: nonostante lo stretto collegamento con l’art. 49, infatti, la revoca disciplinata nell’art. 50, comma 1, rappresenta un istituto a sé, operante anche in conseguenza dell’adempimento delle condotte riparatorie prescritte dall’art. 17, avuto riguardo al fatto che le stesse possono maturare durante tutto il periodo di applicazione della misura, anche a prescindere dalla richiesta di sospensione formulata ai sensi dell’art. 49, comma 1. 

Si pone, dunque, la questione del rapporto  di concorrenza o di alternatività  fra le ipotesi di revoca delle misure cautelari applicate agli enti collettivi cui fa riferimento l’art. 50: da un lato, la revoca per mancanza, anche sopravvenuta, delle condizioni di applicabilità di cui all’art. 45, dall’altro lato la revoca disposta in presenza delle condizioni disciplinate dal combinato disposto degli artt. 17 e 49 (sospensione delle misure cautelari su richiesta dell’ente di realizzare gli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17, con la successiva revoca della misura cautelare, in presenza dell’accertata verificazione della condizione sospensiva).

Non pertinente, in primo luogo, deve ritenersi il richiamo ad un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 6 penale, 32627/2006), che ha ravvisato l’interesse dell’ente ad impugnare l’ordinanza con la quale era stata applicata nei suoi confronti la misura cautelare interdittiva di cui all’art. 45, ancorché la stessa fosse stata revocata nelle more del procedimento di impugnazione. Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha affermato che non è consentito al giudice, nel revocare la misura cautelare interdittiva, imporre all’ente l’adozione coattiva di modelli organizzativi. Dall’annullamento dell’ordinanza, invero, poteva derivare, quale sua diretta conseguenza, l’immediata inefficacia degli adempimenti coattivamente imposti con il provvedimento di revoca.

Nella specifica evenienza ivi esaminata, infatti, il giudice non si era limitato a revocare la misura cautelare interdittiva, ma aveva “ordinato” alla società di adottare i modelli organizzativi predisposti dal commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, dando incarico al commissario di accertare l’avvenuta ed effettiva adozione dei modelli organizzativi.

Nel caso ora menzionato, dunque, il giudice cautelare aveva sostanzialmente imposto l’adozione di un modello organizzativo alla società, secondo una procedura che, come evidenziato dalla Corte, non trova appiglio nella normativa in materia di responsabilità degli enti collettivi, ove non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare, nella fase cautelare, la sospensione o la non applicazione delle misure interdittive (ex art. 49).

Da tale precedente, pertanto, non può logicamente inferirsi la conseguenza che il ricorrente prospetta riguardo alla permanenza dell’interesse all’impugnazione qualora la misura cautelare interdittiva sia stata revocata nelle more del relativo procedimento, così imponendosi la forma del contraddittorio camerale partecipato, ostativa all’operatività della disposizione di cui all’art. 127, comma 9, c.p.p.

Dal tenore letterale dell’art. 50 sembra evincersi, di contro, che il legislatore ha inteso porre in alternativa, quali fattori di revoca della misura cautelare applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza sopravvenuta delle condizioni indicate dal precedente art. 45, tra le quali è compreso anche il rischio di recidiva.

Muovendo da tale opzione ermeneutica (Sez. 6 penale, 18635/2015) questa Corte ha conseguentemente affermato il principio secondo cui la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi dell’art. 49, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall’attuazione delle misure riparatorie volte all’eliminazione delle carenze organizzative.

L’alternatività delle ipotesi di revoca previste dall’art. 50 potrebbe indurre a ritenere, unitamente al rilievo dell’effetto immediato della vicenda estintiva della cautela, che il provvedimento debba adottarsi de plano, risultando difficile configurare, prima facie, un contraddittorio orale anticipato alla stregua di quanto previsto dall’art. 47 in sede di applicazione della misura.

È pur vero, tuttavia, che il vaglio delibativo in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 17 potrebbe esigere una puntuale verifica circa l’effettivo adempimento delle condotte riparatorie da parte dell’ente e che il giudice, attraverso il richiamo alla possibilità prevista nell’ordinamento processuale dall’art. 299, comma 4-ter, c.p.p. - ove tale norma sia ritenuta compatibile con la disciplina degli enti collettivi ai sensi dell’art. 34 - potrebbe disporre tutti gli accertamenti necessari al fine di valutare il rispetto delle condizioni sottostanti alla realizzazione delle condotte di cui all’art. 17.

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi, infatti, che il procedimento di applicazione delle misure cautelari a carico degli enti collettivi mostra connotati tipicamente “dialogici” e si fonda sulla esigenza di un contraddittorio anticipato rispetto all’adozione della cautela, senza alcuna manifestazione di rinuncia preventiva dell’ente alla contestazione dei presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive.

In tal senso, dunque, potrebbe ritenersi la permanenza dell’interesse ad impugnare, al fine di ottenere una decisione sulla legittimità della misura interdittiva anche in presenza della sua intervenuta revoca, allorché ad una eventuale pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi, come si è già osservato, una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione complessiva del ricorrente, con effetti significativi, ad es., sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie prestate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare d’appalto, sulla eventuale restituzione di cospicue somme di denaro già versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva, ovvero per dimostrare l’insussistenza del profitto, o, infine, sulla rimozione di tutte le possibili conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della cautela.

Il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura cautelare potrebbe richiedere inoltre, quale causa non originaria di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dalla connessa disposizione di cui all’art. 17, sì da imporre un approfondito accertamento sulla persistenza o meno dell’interesse ad impugnare, che solo un contraddittorio camerale in forma partecipata consentirebbe di realizzare nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa.

Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, dunque, in ragione del contrasto giurisprudenziale formatosi riguardo alle forme procedimentali prodromiche alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, la rimessione degli atti alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 618 c.p.p., in relazione al seguente quesito: «se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura cautelare - nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società - possa essere dichiarato inammissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa» (ordinanza di rimessione alle SU emessa da Sez. 6, 26032/2018).

Il predetto conflitto è stato risolto dalle Sezioni unite le quali hanno osservato che l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 D. Lgs. 231/2001 poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, cod. proc. pen., ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, previamente avvisate.

Difatti, la revoca della misura interdittiva disposta a seguito delle condotte riparatorie poste in essere ex art. 17 D. Lgs. 231/2001, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina autonomamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione (SU, 51515/2018).

Nel giudizio d’appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’art. 469, in quanto il combinato disposto degli artt. 598, 599 e 601  non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina, né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell’art. 129, poiché l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio. (Sez. 1, 28954/2017).

È legittima la declaratoria di inammissibilità dell’appello, pronunciata de plano, senza che debbano essere osservati gli adempimenti per il procedimento camerale prescritti dall’art. 127, il quale non è richiamato dalla norma generale di cui all’art. 591 comma 2, che si limita a disporre che il giudice adotta la pronuncia anche d’ufficio (Sez. 5, 7448/2013).

 

Procedimento di esecuzione

Il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 666 comma 3, deve provvedere sulle richieste delle parti dopo avere tenuto udienza in camera di consiglio, che si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del PM. Il giudice può provvedere de plano, con la possibilità per l’interessato di proporre opposizione, solo nei casi espressamente previsti, tra i quali non rientra la revoca del beneficio della sospensione condizionale (Sez. 1, 28329/2018).

La notifica alle altre parti della richiesta di rimessione del processo costituisce una condizione indefettibile di ammissibilità della stessa, che non consente equipollenti, sicché, in mancanza di essa, l’istanza deve dichiararsi inammissibile, ancorché depositata in udienza (Sez. 2, 45333/2015).

 

Diritti dell’imputato soggetto a misure limitative della libertà personale

L’imputato detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire all’udienza, ha diritto di presenziare al giudizio camerale d’appello avverso la sentenza pronunciata in giudizio abbreviato, anche se ristretto in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice procedente (SU, 35399/2010).

 

Procedimento di prevenzione

In tema di procedimento di prevenzione, il termine di cui agli artt. 127 comma 2 e 7 comma 3, D. Lgs. 159/2011 relativo al deposito di atti deve ritenersi ordinatorio, non risultando, quindi, precluso alle parti procedere, oltre tale scadenza, al deposito di atti integrativi, memorie o documenti, sempre che venga rispettato il diritto della parte contro-interessata al contraddittorio (Sez. 6, 44408/2013).

Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata in udienza pubblica se il giudice deve esprimere un giudizio di merito idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati (principio affermato per le procedure di prevenzione) (Sez.3, 30408(2016).

 

Questioni procedurali

Il procedimento camerale, per la sua struttura scarsamente formale, consente al giudicante di acquisire informazioni e prove, anche di ufficio, senza l’osservanza dei principi sull’ammissione della prova di cui all’art. 190, essendo essenziale l’accertamento dei fatti, nel semplice rispetto della libertà morale delle persone e con le garanzie del contradditorio (Sez. 2, 3954/2017).

In materia di procedimenti in camera di consiglio, l’espressione “sono sentiti se compaiono”, contenuta nel comma terzo dell’art. 127 , non postula una specifica iniziativa del giudice, ma vincola quest’ultimo solo a raccogliere le dichiarazioni che le parti intendano fare, sicché, ove la parte non eserciti tale diritto, né manifesti l’intenzione di esercitarlo, nessuna violazione processuale può ravvisarsi nel comportamento del giudice che pervenga alla decisione senza alcuna audizione della parte stessa (Sez. 2, 50730/2016).