Art. 129 - Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità
1. In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza.
2. Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta.
Rassegna giurisprudenziale
Obbligo dell’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità (art. 129)
In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. Il disposto di cui all’art. 129, laddove impone di dichiarare la causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di una condanna in primo grado che impone ai sensi dell’art. 578 di pronunciarsi sulla azione civile; in tali ipotesi, la valutazione della regiudicanda non deve avvenire secondo i canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. La pronuncia ex art. 578 impone, cioè, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto il compendio probatorio, ai fini della responsabilità civile (SU, 35490/2009).
La sentenza di non luogo a procedere non acquisisce mai autorità di cosa giudicata e ha natura squisitamente processuale (Sez. 4, 47279/2017).
L’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 (Sez. 7, 39653/2018).
In presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontra nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una ‘constatazione’, che a un atto di ‘apprezzamento’ e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. E invero il concetto di ‘evidenza’, richiesto dal secondo comma dell’art. 129, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato. Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui ‘positivamente’ deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 4, 34838/2018).
A seguito della reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello ad opera dell’art. 1, comma 56, della L. 103/2017, il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599-bis, non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 né sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove, in quanto, a causa dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 2, 35480/2018).
La pronuncia di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato comporta la revoca delle statuizioni civili, con la conseguenza che dei fatti depenalizzati dovrà occuparsi in via esclusiva il giudice civile, e ciò non diversamente di quanto può avvenire a seguito del proscioglimento ex art. 529. Posto che, a norma dell’art. 652, solo la pronuncia di una sentenza di assoluzione nel giudizio penale, ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno promosso dal danneggiato, la pronuncia di non doversi procedere per difetto di querela non impedisce – come quella di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato – alla già costituita parte civile di promuovere una controversia civilistica allo scopo di far accertare la natura di “illecito civile” del fatto (già integrante gli estremi del delitto di danneggiamento prima della depenalizzazione), con la conseguenza che il giudice civile, ove accolga la domanda di risarcimento del danno, può, a norma dell’art. 8 D. Lgs. 7/2017, parimenti applicare la sanzione civile pecuniaria. Il giudice civile, indipendentemente dal fatto che venga adito a seguito della definizione del giudizio di penale con la formula assolutoria “il fatto non è previsto dalla legge come” o con quella “non doversi procedere per difetto di valida querela”, può in entrambi i casi utilizzare gli elementi di prova acquisiti nel giudizio penale, che potrà liberamente valutare unitamente agli altri elementi di prova (SU, 46688/2016).
Il proscioglimento per mancanza di querela, è formula più favorevole rispetto alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione (Sez. 4, 4123/2018).
L’avvenuta espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, se provata in modo concreto ed affidabile, consente, ai sensi dell’art. 13, comma 3-quater, del D. Lgs. 286/1998, la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, a condizione, però, che non sia stato emesso decreto che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente (Sez. 4, 47279/2017).
Un’interpretazione convenzionalmente conforme, cui il giudice nazionale è tenuto, dell’articolo 44, comma 2 DPR 380/2001 implica che, in presenza di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca urbanistica, il giudice del dibattimento, qualora maturi una causa di estinzione del reato (nel caso di specie, prescrizione), non ha l’obbligo di immediata declaratoria della causa di non punibilità ex articolo 129. Ulteriore conseguenza è che il giudice del dibattimento può disporre la confisca urbanistica, anche in assenza di una sentenza di condanna ma in presenza del necessario accertamento del reato nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio e, a tal fine, deve, pur in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato (nel caso di specie, prescrizione), proseguire nell’istruttoria dibattimentale, differendo, se del caso, la declaratoria di estinzione del reato all’esito del giudizio e disponendo la confisca urbanistica a condizione che sia accertato il fatto reato, cioè la lottizzazione abusiva, in tutte le sue componenti oggettive e di imputazione soggettiva almeno colpevole. Non è pertanto assolutamente predicabile, come erroneamente assume il ricorrente, un difetto di giurisdizione del giudice penale allorquando, esercitata l’azione penale e sopravvenuta una causa di estinzione del reato, venga disposta, accertata la lottizzazione in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, la confisca nel corso di un procedimento penale, essendo la legge stessa, ai sensi del citato art. 44, ad attribuire al giudice il potere-dovere di pronunciarsi sull’applicazione della misura ablativa. Tale esegesi deve inoltre ritenersi anche costituzionalmente conforme perché in linea con le pronunce della Consulta (Corte costituzionale, sentenza 49/2015 e ordinanza 187/2015), la quale ha affermato che la sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Varvara (Corte EDU, Sez. 1, Varvara c. Italia, decisione del 29.10.2013 ma si veda anche la più recente Corte EDU, Grande Camera, GIEM e altri c. Italia, sentenza del 28 giugno 2016 - NDA) può essere letta nel senso che la confisca urbanistica non esige una sentenza di condanna da parte del giudice penale, posto che il rispetto delle garanzie previste dalla CEDU richiede solo un pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, con la conseguenza che i canoni dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme devono orientare il giudice comune ad escludere che la condanna penale costituisca presupposto esclusivo per disporre la confisca urbanistica, non potendosi esigere la condanna penale per l’applicazione di una sanzione di carattere amministrativo (quale è, secondo la giurisprudenza costante, la confisca di una lottizzazione abusiva), per quanto assistita dalle garanzie della “pena” ai sensi dell’art. 7 della CEDU, determinandosi altrimenti l’integrale assorbimento della misura nell’ambito del diritto penale e rappresentando una soluzione di dubbia compatibilità con il «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (Corte costituzionale, sentenza 487/1989; di seguito, Corte costituzionale, sentenza 49/2015). Il giudice delle leggi ha poi considerato che, ai fini dell’osservanza della CEDU, rileva non la forma della pronuncia con cui è applicata una misura sanzionatoria ma la pienezza dell’accertamento di responsabilità, tale da vincere la presunzione di non colpevolezza, con la conseguenza che il pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa è compatibile con una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato conseguente alla prescrizione (Corte costituzionale, sentenze 49/2015, 239/2009 e 85/2008). Epiloghi, quelli sin qui richiamati, cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità quando ha affermato che la confisca dei terreni può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (Sez. 3, 17066/2013) (ricostruzione sistematica fatta da Sez. 3, 53692/2017).
La sentenza di proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469, può essere pronunciata solo nelle ipotesi ivi previste (mancanza di una condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale ovvero presenza di una causa di estinzione del reato) e sempre che le parti, interpellate in proposito, non si siano opposte, non potendo, in detta fase, trovare applicazione la disposizione dell’art. 129, da riferire esclusivamente al giudizio in senso tecnico. Tale principio va affermato anche con riferimento alla nuova disposizione prevista dall’art. 469, comma 1-bis, introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. a), D. Lgs. 28/2015, in quanto l’effetto della novella, sul punto, è stato quello di inserire tra le cause che legittimano il proscioglimento prima del dibattimento previste dal comma 1 del menzionato art. 469, la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis Cod. pen., che, dunque, il giudice procedente potrà applicare nella fase predibattimentale solo dopo avere messo il PM, l’imputato e la persona offesa, in condizione di esprimere le proprie osservazioni al riguardo e sempre che il PM e l’imputato non si oppongano, dovendosi altrimenti procedere al dibattimento (Sez. 3, 45941/2017).
Nel giudizio d’appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’art. 469, in quanto il combinato disposto degli artt. 598, 599 e 601 non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina, né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell’art. 129, poiché l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio (SU, 28954/2017).
Le sentenze ex art. 129 possono essere pronunciate solo dopo l’apertura del dibattimento, quando attraverso le richieste di prova e la relativa ammissione, rendono chiaro il progetto processuale ed accrescono la base cognitiva a disposizione del giudice. Di contro, nella fase immediatamente successiva alla costituzione delle parti possono essere pronunciate solo le sentenze “predibattimentali”, tipiche e previste tassativamente dall’art. 469 ovvero quelle funzionali alla dichiarazione dell’assenza di una condizione di procedibilità o dell’estinzione del reato, pronunciabili solo dopo avere sentito le parti necessarie ed avere verificato la loro mancata opposizione. La violazione di legge correlata alla emissione di sentenze non riconducibili al paradigma normativo previsto dall’art. 469 genera una violazione di legge che può essere fatta valere con il ricorso per cassazione (Fattispecie nella quale il giudice di pace aveva assolto l’imputato dal reato previsto dall’art. 633 c.p. perché il “fatto non sussiste”, rilevando che i terreni asseritamente invasi erano in comproprietà tra il ricorrente e la parte civile, sicché risultava carente il requisito della altruità. La sentenza veniva emessa dopo la costituzione delle parti e prima della apertura del dibattimento; venivano sentite le parti: il pubblico ministero e la difesa dell’imputato concludevano in modo conforme per l’assoluzione mentre la parte civile si opponeva. Quest’ultima proponeva ricorso per cassazione deducendo violazione di legge per essere stata la sentenza illegittimamente dichiarata in fase predibattimentale senza alcuna decisione in ordine alle eventuali richieste di prova. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di pace competente per l’ulteriore corso) (Sez. 2, 20774/2021).
Nell’ipotesi di sentenza d’appello pronunciata de plano in violazione del contraddittorio tra le parti, che, in riforma della sentenza dì condanna di primo grado, dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di Cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, (SU, 28954/2017).
La sentenza con cui il giudice di primo grado, dopo la costituzione delle parti e prima di dichiarare formalmente aperto il dibattimento, assolve, ai sensi dell’art. 129, l’imputato con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, ancorché pronunciata al di fuori dei casi previsti dall’art. 469, deve essere qualificata come sentenza predibattimentale, sicché, trattandosi di sentenza inappellabile, il suo annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione impone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado (Sez. 6, 28151/2014).