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Art. 195 - Testimonianza indiretta

1. Quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.

2. Il giudice può disporre anche di ufficio l’esame delle persone indicate nel comma 1.

3. L’inosservanza della disposizione del comma 1 rende inutilizzabili le dichiarazioni relative a fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da altre persone, salvo che l’esame di queste risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità.

4. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettere a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo.

5. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche quando il testimone abbia avuto comunicazione del fatto in forma diversa da quella orale.

6. I testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.

7. Non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame.

Rassegna giurisprudenziale

Testimonianza indiretta (art. 195)

È costituzionalmente illegittimo l’art. 195 comma 4 se interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di PG non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lettere a) e b) e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state rispettate (Corte costituzionale, sentenza 305/2008).

In tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il c.d. “pentimento”, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all’intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un’intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l’indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona  e quindi sulla genuinità del suo pentimento  quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni.

Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti alla vita e le attività del sodalizio criminoso, appresi come componente dello stesso, seppure non sono assimilabili a dichiarazioni “de relato”, possono assumere rilievo probatorio, purché supportate da validi elementi di verifica che consentano di ritenerle effettivamente oggetto di patrimonio conoscitivo comune agli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti ex art. 192.

Sono direttamente utilizzabili le dichiarazioni rese da collaboratore di giustizia su circostanze apprese in relazione al ruolo di vertice del sodalizio criminoso di appartenenza e derivanti da patrimonio conoscitivo costituito da un flusso circolare di informazioni relative a fatti di interesse comune degli associati, in quanto non assimilabili né a dichiarazioni “de relato”, utilizzabili solo attraverso la particolare procedura di cui all’art. 195, né alle cosiddette “voci correnti nel pubblico” delle quali la legge prevede l’inutilizzabilità.

In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l’accertata falsità di uno specifico fatto narrato non impedisce di valorizzare le ulteriori parti di un racconto più complesso svolto dal dichiarante, se supportate da precisione di riscontri, anche non specifici su ciascun elemento dichiarato, idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva.

Allorché il chiamante in reità o correità renda dichiarazioni concernenti un’attività continuativa di programmazione ed organizzazione di un fatto di reato, gli elementi di riscontro esterno relativi ad alcuni sviluppi significativi, pur se penalmente irrilevanti, di detta attività sono sufficienti a fornire conferma anche dei segmenti ulteriori, assurgenti a rilievo penale, attesa l’inscindibilità della valutazione di attendibilità riferita ad un tessuto dichiarativo unitario (Sez. 5, 12188/2019).

La testimonianza indiretta è pienamente utilizzabile nel giudizio abbreviato “incondizionato”, operando l’inutilizzabilità prevista dall’art. 195, comma 7, solo nell’ipotesi in cui l’imputato abbia subordinato l’accesso al rito ad una integrazione probatoria costituita dall’assunzione del teste indiretto e se, nonostante l’audizione, sia rimasta non individuata la fonte dell’informazione (Sez. 4, 29511/2018).

Il giudizio abbreviato ha come base probatoria gli atti raccolti in fase investigativa ai quali, per volontà dell’imputato viene assegnata piena capacità probatoria: tale investitura copre anche le dichiarazioni de relato che sono pienamente utilizzabili tenuto conto del fatto che l’art. 195 è operativo solo in ambiente dibattimentale (Sez. 2, 29434/2018).

La regola prevista dall’art. 195 è operativa in ambiente dibattimentale, mentre nel caso in cui si proceda con il rito abbreviato, se non sono state disposte integrazioni probatorie, la dichiarazione cartolare, anche se de relato è pienamente utilizzabile, seppure con le cautele che caratterizzano la valutazione fonte testimoniale indiretta (Sez. 2, 20125/2018).

In tema di testimonianza indiretta, il divieto posto dal comma 7 dell’art. 195 non opera in maniera automatica ogni qualvolta il testimone non è in grado di fornire elementi idonei ad una univoca ed immediata identificazione della fonte delle informazioni da lui riferite, ma solo quando, per effetto di tale omessa identificazione, non sia possibile discutere, sulla base di dati certi e non seriamente controvertibili, dell’esistenza e attendibilità di tale fonte (Sez. 5, 27696/2018).

A fronte di dichiarazioni inutilizzabili ai sensi dell’art. 195, comma 4, la Cassazione è tenuta a ricorrere al c.d. criterio di resistenza, valutando se tale prova sia decisiva per la coerenza complessiva della motivazione e per la dichiarazione di responsabilità (Sez. 2, 18745/2018).

La sanzione di inutilizzabilità ex art. 195 fa seguito esclusivamente alla mancata citazione a deporre, su istanza della parte che lo ha richiesto, del c.d. teste di riferimento (Sez. 6, 20252/2018).

Le dichiarazioni “de relato” sono utilizzabili ove nessuna delle parti si sia avvalsa del diritto di chiedere che sia chiamato a deporre il teste di riferimento, essendo l’ipotesi di inutilizzabilità circoscritta, per legge, solo al caso in cui il giudice abbia omesso la citazione dei testimoni diretti, nonostante l’espressa richiesta di parte. Il diritto di esaminare la fonte della testimonianza indiretta va, peraltro, esercitato nel giudizio di primo grado

Sono quindi utilizzabili, senza alcuna violazione dell’art. 195, comma 1, le dichiarazioni “de relato” qualora nel giudizio di primo grado la difesa non si sia avvalsa del diritto di esaminare la fonte della testimonianza indiretta; d’altra parte, la facoltà riconosciuta alla parte di richiedere nel giudizio di appello l’integrazione dell’istruttoria dibattimentale non può valere a consentire l’esercizio tardivo del diritto di accesso alla fonte del testimone indiretto e, pertanto, detta richiesta deve essere valutata secondo i criteri posti dall’art. 603 (Sez. 4, 14658/2018).

In caso di contrasto tra quanto riferito dai testi “de relato” e dalla fonte da essi indicata, è legittima l’attribuzione, in esito ad esauriente verifica, di maggiore veridicità alle dichiarazioni dei primi, in quanto l’art. 195 non stabilisce al riguardo alcuna gerarchia, ma prevede solo l’obbligo, a impulso di parte, di escussione giudiziaria della fonte diretta (Sez. 2, 20129/2018).

Il divieto di testimonianza indiretta di cui all’art. 195, comma 4, ha ad oggetto le dichiarazioni acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) (denunce, querele, istanze presentate oralmente) e b) (sommarie informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini), non invece i fatti e le situazioni, compresi i comportamenti delle persone, caduti sotto la diretta percezione del testimone e oggetto di verbalizzazione ai sensi dell’art. 357, comma 2 lett. f) (Sez. 4, 27401/2018).

La disciplina prevista in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 non trova applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita da un soggetto che rivesta la qualità di imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso (Sez. 1, 20762/2018).

Gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l’imputato, costituiscono fonte di prova diretta soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, previsto dall’art. 192, comma 1, senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno; qualora, tuttavia, tali elementi abbiano natura indiziaria, essi dovranno possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza in conformità del disposto dell’art. 192, comma 2.

La ragione per cui la posizione del conversante non è equiparabile al chiamante in correità è stata spiegata nei seguenti termini: «Quest’ultimo è persona che, interrogata da un giudice o da un ufficiale di PG, accusa altri di avere commesso reati e tale accusa può anche essere originata da intenti calunniatori o volti opportunisticamente a procacciarsi le misure premiali previste dalla vigente legislazione per i collaboratori di giustizia. Per queste ragioni la giurisprudenza prima e il legislatore poi, con la previsione dell’art. 192, commi 3 e 4, hanno attorniato la chiamata in reità o correità da una serie di cautele e prudenziali criteri di valutazione.

Situazione del tutto diversa è quella riguardante i c.d. conversanti, cioè persone che, nel corso di colloqui privati, parlano liberamente dei più vari argomenti, si scambiano informazioni e confidenze, discutono, commentano, chiacchierano. La differenza tra le due categorie di persone  loquenti nel corso di procedimento penale e conversanti in privati colloqui  appare del tutto evidente, perché in questo secondo caso l’intento di chi parla è quello di scambiare libere opinioni con altra persona.

Trattasi di una diversità genetica e strutturale, che spiega e giustifica la differenza di regime normativo a cui sono sottoposte le due tipologie di dichiarazioni.

Le riserve e le prudenze previste dal legislatore all’art. 192 per valutare la genuinità e l’attendibilità delle dichiarazioni del collaboranti non hanno ragione di esistere quando si tratta di conversazioni intercettate. Analoga conclusione va adottata sia per quanto concerne l’inapplicabilità ai conversanti intercettati dell’art. 195, che disciplina “la testimonianza indiretta”, che si ha quando il testimone - ossia una persona che depone dinanzi all’AG - si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, che, a richiesta di parte, il giudice dispone che siano chiamate a deporre. Tutte le predette norme non si applicano ai conversanti intercettati proprio per la profonda diversità sopra indicata (Sez. 2. 34227/2018).

Il divieto di testimonianza indiretta posto dall’art. 195 comma 6 non opera esclusivamente nel dibattimento e conseguentemente la sua violazione non comporta soltanto l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del testimone in senso proprio inteso. Secondo la legge processuale, infatti, l’assunzione della testimonianza indiretta non è vietata in via generale e la stessa è altresì utilizzabile salvo che non ricorrano le condizioni negative previste dal primo e dal settimo comma dell’art. 195 citato e cioè che, se richiesto, non si sia proceduto all’assunzione della fonte della conoscenza del testimone indiretto ovvero che quest’ultimo non sia stato in grado o si sia rifiutato di indicare tale fonte.

L’assenza di un espresso divieto generale di ricorrere alla testimonianza indiretta spiega quindi perché si sia reso necessario con la L. 63/2001 precisare nel comma 1-bis dell’art. 273, all’uopo introdotto, che nemmeno nella fase cautelare sono utilizzabili le dichiarazioni de relato di colui che non ha consentito l’individuazione della fonte diretta.

Alla regola generale fanno però eccezione le due ipotesi contemplate nella prima parte del quarto comma e nel sesto comma dell’art. 195, disposizioni che invece vietano l’assunzione della testimonianza dell’ufficiale e agente di PG sul contenuto delle sommarie informazioni verbalizzate nel corso delle indagini preliminari o, per l’appunto, o quella di chi ha appreso i fatti dalle persone che non possono essere obbligate a deporre ai sensi degli artt. 200 e 201, a meno che queste abbiano deciso di deporre o abbiano comunque divulgato i medesimi fatti.

Si tratta di veri e propri divieti probatori, che laddove violati comportano, ai sensi dell’art. 191, l’inutilizzabilità delle testimonianze comunque assunte. Inutilizzabilità che certamente ha natura patologica, atteso che il divieto è riconnesso alla tutela del segreto professionale in quanto tale ed è dunque operativo in tutte le fasi del procedimento a prescindere dalla fase processuale in cui le dichiarazioni vengono assunte o al loro ambito di utilizzazione (Sez. 5, 29495/2018).