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Art. 200 - Segreto professionale

1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria:

a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;

b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;

c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;

d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.

2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga.

3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni.

Rassegna giurisprudenziale

Segreto professionale (art. 200)

Premessa esplicativa

Il segreto è una condizione che obbliga qualcuno che ha conoscenza di qualcosa a non divulgarla ad altri.

Il segreto professionale è una specificazione del segreto in generale e consiste nell’obbligo, posto a carico degli esercenti di talune attività professionali, di non rivelare indebitamente conoscenze attinenti a dati sensibili che abbiano acquisito in virtù del rapporto professionale con i loro clienti.

Quest’obbligo fa normalmente parte dell’ordinamento deontologico delle attività professionali interessate e, ciò che più conta, è tutelato penalmente dalla fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 622 Cod. pen. che punisce appunto il comportamento di chi «avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela senza giusta causa ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto».

È chiaro allora che l’attribuzione della facoltà di non deporre a protezione del segreto professionale è espressione del principio di non contraddizione che caratterizza ogni ordinamento giuridico, non potendosi al tempo stesso punire penalmente la rivelazione del segreto e poi consentirla in ambito processuale.

L’art. 256, comma 1 prevede che coloro i quali possono far valere il segreto professionale o di ufficio a norma degli artt. 200 e 201, hanno l’obbligo di «consegnare immediatamente» all’AG gli atti, documenti, informazioni e programmi informatici dalla stessa richiesti, «salvo che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto di Stato ovvero di segreto inerente al loro ufficio o professione».

La disposizione, quindi, da un punto di vista letterale, non fa alcun cenno all’obbligo dell’autorità procedente di informare i soggetti indicati dagli artt. 200 e 201 della facoltà di avvalersi del segreto professionale o di ufficio, ma si limita a prevedere che dette persone possono avvalersi di tale prerogativa.

La medesima statuizione, inoltre, pone un vincolo procedimentale per l’opposizione del segreto, chiedendo una dichiarazione «per iscritto», del tutto inusuale per l’esercizio di una facoltà di cui debba darsi formale avviso all’interessato.

Sembra perciò ragionevole ritenere che l’esecuzione di una perquisizione e sequestro nei confronti di una delle persone indicate dagli artt. 200 e 201 non debba essere preceduta dall’avvertimento della facoltà di opporre il segreto professionale o di ufficio, e possa perciò essere eseguita nelle forme ordinarie, senza ulteriori limitazioni, fino alla opposizione «per iscritto» del limite.

Né tale conclusione può trovare diversa soluzione in relazione al giornalista professionista rispetto agli altri titolari di segreto professionale o di ufficio: l’art. 256 prevede l’applicabilità della disciplina da esso delineata con riferimento a tutte le «persone indicate negli artt. 200 e 201», senza operare alcun distinguo; i giornalisti professionisti iscritti all’albo professionale, in quanto espressamente citati dall’art. 200, rientrano senza dubbio tra quelle «persone» (Sez. 6, 9989/2018).

I limiti legali che devono preservare la legittimità degli atti di “interferenza” che l’AG è abilitata ad esercitare sono fissati nell’art. 200 comma 3, in base al quale il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni ivi tassativamente previste: a) che la rivelazione della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede, prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa l’attività di indagine, e non semplicemente riconducibili all’astratto nomen iuris; b) che le notizie non possano essere accertate se non attraverso la identificazione della fonte. Siffatte condizioni di veridicità e indispensabilità devono sussistere entrambe, affinché il giudice possa ordinare al giornalista di svelare la fonte.

Non basta, dunque, un semplice nesso di “pertinenzialità” tra le notizie ed il generico tema dell’indagine, ma occorre che l’ingerenza rispetto alle fonti rappresenti la extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova necessaria per perseguire il reato.

I presupposti dell’ordine di deporre, infatti, traducono sul piano legislativo la delicata opera di bilanciamento fra interessi costituzionali (libertà di informazione e accertamento dei fatti e delle responsabilità) che il giudice deve effettuare in relazione alle fattispecie di segreto, nella prospettiva di individuare una soluzione improntata alla ragionevolezza e idonea ad assicurare, nel caso concreto, un congruo vaglio di proporzionalità tra il mezzo (la restrizione di un bene costituzionale) ed il fine (la tutela di un altro bene costituzionale con il primo confliggente) (Sez. 6, 39452/2016).

I testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli artt. 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette abbiano già deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati (Sez. 2, 20287/2014).