x

x

Art. 202 - Segreto di Stato

1. I pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato.

2. Se il testimone oppone un segreto di Stato, l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei Ministri, ai fini dell’eventuale conferma, sospendendo ogni iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto.

3. Qualora il segreto sia confermato e per la definizione del processo risulti essenziale la conoscenza di quanto coperto dal segreto di Stato, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato.

4. Se entro trenta giorni dalla notificazione della richiesta il Presidente del Consiglio dei Ministri non dà conferma del segreto, l’autorità giudiziaria acquisisce la notizia e provvede per l’ulteriore corso del procedimento.

5. L’opposizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto.

6. Non è, in ogni caso, precluso all’autorità giudiziaria di procedere in base a elementi autonomi e indipendenti dagli atti, documenti e cose coperti dal segreto.

7. Quando è sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, qualora il conflitto sia risolto nel senso dell’insussistenza del segreto di Stato, il Presidente del Consiglio dei Ministri non può più opporlo con riferimento al medesimo oggetto. Qualora il conflitto sia risolto nel senso della sussistenza del segreto di Stato, l’autorità giudiziaria non può né acquisire né utilizzare, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali è stato opposto il segreto di Stato.

8. In nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale. La Corte adotta le necessarie garanzie per la segretezza del procedimento.

Rassegna giurisprudenziale

Segreto di Stato (art. 202)

Premessa esplicativa

È un vincolo, attualmente disciplinato dalla L. 124/2007 e successive modifiche, la cui apposizione, conferma e opposizione spetta esclusivamente al Presidente del Consiglio dei ministri e può riguardare atti, documenti, notizie, attività, cose e luoghi la cui conoscenza non autorizzata può danneggiare gravemente gli interessi fondamentali dello Stato.

Il segreto di Stato non può riguardare informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o concernenti terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale di tipo politico-mafioso.

La sua durata non può eccedere 15 anni ma questo termine può essere prorogato fino a 30 anni dal Presidente del Consiglio dei ministri. Il premier è tenuto a motivare l’opposizione e la conferma del segreto di Stato e a riferire al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica i casi di conferma dell’opposizione del segreto.

Il segreto di Stato è tutelato penalmente dagli artt. 261 e 263 Cod. pen. che incriminano rispettivamente la sua rivelazione e la sua utilizzazione.

L’istituto del segreto di Stato può rinvenire la sua base di legittimazione esclusivamente nell’esigenza di salvaguardare supremi interessi riferibili allo Stato-comunità, ponendosi quale «strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza», esterna e interna, «dello Stato e per garantirne l’esistenza, l’integrità, nonché l’assetto democratico»: valori che trovano espressione in un complesso di norme costituzionali, e particolarmente in quelle degli artt. 1, 5 e 52 Cost. (Corte costituzionale, sentenza 110/1998).

Anche l’imputato e l’indagato, particolarmente dopo la riforma apportata dalla L. 124/2007 e gli effetti riflessi da questa prodotti sull’art. 202, sono abilitati ad opporre il segreto di Stato (Corte costituzionale, sentenza 40/2012).

Tra le notizie tutelabili a mezzo del segreto di Stato possono essere fatte rientrare anche quelle inerenti agli ordini e alle direttive impartiti dal direttore del servizio informativo (e, in specie, del SISMI, ora AISI) agli appartenenti al medesimo organismo: e ciò, non soltanto allorché emerga la necessità di preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati, ma anche (e più in generale) in relazione all’esigenza di riserbo che deve tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da indebita pubblicità le sue modalità organizzative ed operative (Corte costituzionale, sentenza 106/2009).

La considerazione che il principio di preminenza del supremo interesse alla sicurezza della Repubblica, protetto dal segreto di Stato, rispetto a quello del regolare esercizio della funzione giurisdizionale (e, in specie, della giurisdizione penale, che qui interessa) non viene meno – stante il suo fondamento giustificativo – per il solo fatto che si discuta dell’accertamento di responsabilità legate alla irregolare gestione di risorse pubbliche.

L’esigenza di riserbo sulle modalità di impiego dei fondi destinati ai servizi di informazione – stante la peculiare natura dei compiti a essi affidati – è tenuta, d’altra parte, in particolare considerazione dallo stesso art. 29 della legge n. 124 del 2007 – invocato dal ricorrente a conforto della sua tesi – il quale prevede, proprio per assecondare tale esigenza, forme speciali di controllo sulla gestione delle spese dei servizi, derogatorie rispetto a quelle ordinarie. In particolare, è previsto che le «spese riservate», diversamente da quelle «ordinarie», vengano inserite esclusivamente nel bilancio preventivo, ma non in quello consuntivo (comma 3, lettera a), dovendo essere presentato, riguardo a esse, un rendiconto a parte, trimestrale, e una relazione finale, annuale, entrambi al Presidente del Consiglio dei ministri (comma 3, lettera f), nonché una informativa semestrale sulle «linee essenziali della gestione» al COPASIR (comma 3, lettera g), così da prefigurare un controllo di tipo precipuamente politico.

Ciò dimostra come, nel contesto della disciplina che regola il funzionamento dei servizi, non possa ritenersi affatto anomala l’eventualità che il segreto di Stato risulti idoneo a incidere sul controllo giurisdizionale relativo alla destinazione delle dotazioni finanziarie (Corte costituzionale, sentenza 40/2012).

Nell’ambito del segreto di Stato il Presidente del Consiglio dei Ministri gode di un ampio potere discrezionale sul cui esercizio è escluso qualsiasi sindacato dei giudici comuni, perché il giudizio sui mezzi idonei a garantire la sicurezza dello Stato ha natura politica. Tanto induce una preminenza dell’interesse della salvaguardia della sicurezza nazionale rispetto alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale, e ciò vale anche quando la fonte di prova segretata risultasse essenziale e mancassero altre fonti di prova.

Risulta quindi inibito agli organi dell’azione e della giurisdizione l’espletamento di atti che incidano – rimuovendolo - sul perimetro tracciato dal Presidente del Consiglio dei Ministri nell’atto o negli atti con i quali ha indicato l’oggetto del segreto, un oggetto che soltanto a quell’organo spetta individuare (Corte Costituzionale, sentenza 24/2014).

Il segreto di Stato può essere opposto solo dai pubblici ufficiali, dai pubblici impiegati e dagli incaricati di pubblico servizio; esso è posto a tutela di interessi squisitamente pubblici, correlati alla sicurezza, alla indipendenza, al prestigio, appunto, dello Stato. E se i fatti coperti da tale segreto non possono essere rivelati all’AG, ovviamente non possono essere rivelati neanche al giornalista. Al giornalista è consentita, nei confronti del giudice o del PM, la opposizione del solo segreto professionale; ma tale opposizione semplicemente lo legittima a non rivelare la fonte della notizia di cui egli sia venuto in possesso, ma non garantisce certamente la rispondenza al vero della notizia stessa.

Se tale fonte è un (infedele) funzionario dello Stato, il giornalista, appunto, può tutelarlo (e, indirettamente, tutelare la sua futura attività professionale), opponendo il segreto (professionale, non di Stato), ma, così facendo, assume il rischio derivante dalla impossibilità di provare la notizia che ha diffuso.

Così, ovviamente non commette, ad esempio, il reato di false dichiarazioni al PM (art. 371-bis Cod. pen.) il giornalista che si astenga dal fornire informazioni all’organo dell’accusa, opponendo - appunto- il segreto professionale in ordine alla indicazione di notizie che potrebbero condurre all’identificazione di coloro che gli hanno riferito fiduciariamente dati e circostanze.

Ma, sulla base di tale (autorizzata) reticenza, lo stesso non può poi pretendere che il giudice, per ciò solo, attribuisca il crisma della verità a ciò che il giornalista riferisce avere appreso dalla fonte (che intende legittimamente mantenere riservata) (Sez. 5, 10964/2013).

L’opposizione processuale del segreto di Stato, ove questo sia già ampiamente divulgato, non ha senso, venendo meno la ragione stessa della tutela privilegiata della notizia (Sez. 1, 20447/2014).

Non può essere applicata l’esimente di cui all’art. 384, comma 2, Cod. pen. all’imputato del delitto di falsa testimonianza per dichiarazioni rese nell’ambito di un giudizio civile, in quanto in relazione a questo l’art. 249 Cod. proc. civ. si riferisce solo alla facoltà di astensione per il segreto professionale, per il segreto d’ufficio e per il segreto di stato, e non richiama anche l’art. 199, che attiene alla facoltà di astenersi dal deporre dei prossimi congiunti dell’imputato (Sez. 6, 49542/2014, richiamata da Sez. 6, 3358/2018).