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Art. 744 - Limiti dell’esecuzione della condanna all’estero

1. In nessun caso il Ministro della giustizia può domandare l’esecuzione all’estero di una sentenza penale di condanna a pena restrittiva della libertà personale se si ha motivo di ritenere che il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. 

Rassegna giurisprudenziale

Limiti dell’esecuzione della condanna all’estero (art. 744)

Sulla domanda di esecuzione all’estero di una sentenza di condanna a pena restrittiva della libertà personale, alla corte di appello compete soltanto l’accertamento delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento all’estero della persona condannata, mentre l’accordo di cooperazione in materia penale con lo Stato estero rientra nella competenza esclusiva del Ministro della giustizia.

L’AG, dunque, deve limitarsi a statuire sulla sussistenza delle condizioni previste per il trasferimento del condannato (ex art. 3 della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, ratificata con la L. 334/1988), sulla inesistenza di impedimenti di ordine generale all’esecuzione della condanna (ex art. 744) e sulla adeguatezza della pena indicata dal Governo estero non rispetto alla sola condanna ovvero ai criteri dettati dall’art. 133 cod. pen., bensì rispetto ai criteri sanciti dalla citata Convenzione (ex artt. 9 e 10), che conferisce allo Stato di esecuzione la facoltà di optare tra il sistema della continuazione dell’esecuzione e quello della conversione della condanna, rimanendo escluso che possa adottare una decisione negativa sol perché la pena, se espiata all’estero, risulterebbe inferiore a quella da espiare in Italia. Il primo sistema (per il quale hanno optato l’Olanda e l’Italia) comporta infatti, quale regola generale, il vincolo dello Stato di esecuzione rispetto alla natura giuridica e alla durata della sanzione così come stabilita dallo Stato di condanna (ex art. 10, par. 1, Convenzione), ma sul punto è la stessa normativa convenzionale a prevedere, ancor più specificamente, l’ulteriore regola dell’adattamento della sanzione alla pena o alle misure previste dalla legge dello Stato di esecuzione per lo stesso tipo di reato, in modo da non eccedere il massimo della pena dalla stessa previsto (art. 10, par. 2).

Il reinserimento sociale della persona condannata non costituisce, pertanto, una vera e propria condizione per il suo trasferimento, né giunge ad integrare un motivo di rifiuto formalmente opponibile allo Stato estero, ma rappresenta la ratio e, al contempo, la specifica finalità della Convenzione di Strasburgo del 1983, il cui intero assetto normativo mira a soddisfare, nel più ampio quadro dell’attuazione degli obblighi internazionali di cooperazione penale fra gli Stati interessati, lo scopo umanitario di consentire un’esecuzione della condanna maggiormente compatibile con le esigenze di rieducazione del condannato attraverso il prolungamento della sua detenzione in un istituto del Paese d’origine (ponendosi in linea con la necessaria valorizzazione di uno degli aspetti più rilevanti della funzione della pena, ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost.) (Sez. 6, 44089/2014).