x

x

Art. 500 - Contestazioni nell’esame testimoniale

1. Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto.

2. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste.

3. Se il teste rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante.

4. Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.

5. Sull’acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità.

6. A richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice a norma dell’articolo 422 sono acquisite al fascicolo del dibattimento e sono valutate ai fini della prova nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dal presente articolo. Fuori dal caso previsto dal periodo precedente, si applicano le disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 5.

7. Fuori dai casi di cui al comma 4, su accordo delle parti le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento.

Rassegna giurisprudenziale

Contestazioni nell’esame testimoniale (art. 500)

Non può essere pronunciata condanna per falsa testimonianza esclusivamente sulla base del contrasto tra le dichiarazioni rese in dibattimento e quelle rese nel corso delle indagini preliminari ed utilizzate per le contestazioni di cui all'art. 500; tale contrasto può assumere rilevanza ai fini dell'accertamento del reato solo ove siano emersi altri elementi di prova atti a riscontrare la veridicità delle primigenie dichiarazioni e la falsità di quelle successivamente rilasci (Sez. 6, 11240/2022).

L’art. 500 comma 4 (espressamente richiamato dall’art. 513 relativo alle dichiarazioni di persona imputata e quindi riferibile anche alle dichiarazioni dell’imputato) consente di avvalersi in modo pieno delle dichiarazioni precedentemente rese ed utilizzate per la contestazione, nei casi di subornazione o di violenza o minaccia esercitate sul dichiarante. La norma rappresenta diretta attuazione dell’art. 111 comma 5 Cost., che prefigura una deroga al contraddittorio “per effetto di provata condotta illecita”. Condotta siffatta reca impedimento all’esplicazione del contraddittorio, inteso come metodo di formazione della prova. Deve osservarsi che pur avendo l’imputato diritto al silenzio, là dove detta facoltà non sia frutto di una libera scelta, ma sia indotta o influenzata, nelle forme tipizzate dall’art. 500 comma 4 da iniziative altrui protese ad evitare che il dichiarante reiteri, sottoponendosi ad esame, le accuse svolte è legittimo il recupero in chiave probatoria di quanto affermato precedentemente. Le dichiarazioni assumono forza probante oltre che contra se anche erga alios. D’altro canto, ai fini dello scrutinio da compiere, da parte del giudice di merito non è richiesta la prova certa, oltre ogni ragionevole dubbio, di una fattispecie penale sostanziale, cui l’azione di intimidazione o di subornazione può essere conforme ed i presupposti funzionali all’acquisizione ex art 500 comma 4. I due temi sono distinti. L’uno ha valenza ed effetti sostanziali e segue uno statuto ricostruttivo precipuo. L’altro ha carattere prettamente processuale e si collega al principio di autonoma cognizione del giudice penale sulle fattispecie rilevanti ai fini del decidere (art 2). È un meccanismo, dunque, che si conforma a parametri di ragionevolezza e persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal dichiarante, se connotato da precisione, obiettività e significatività. Ciò che rileva in funzione della fattispecie acquisitiva in esame è la situazione di intimidazione tipizzata dalla norma processuale che può influire sulla scelta del dichiarante. È una realtà da accertare, incidentalmente, in un subprocedimento a forma libera, in cui occorre rimanere aderenti ad elementi concreti, escludendo quelli meramente ipotetici o fondati sul sospetto. Ciò che rileva, dunque,  nelle ipotesi di offerta o promessa di denaro o utilità ovvero di intimidazione in senso ampio (che comprendono la vis corporis corpori data e la vis animo illata)  è la condotta materiale da cui deriva la scelta dibattimentale e non il puro timore del dichiarante di subire una violenza o una minaccia che tragga genesi da un convincimento unilaterale, intimistico e non collegato a fattori esterni attribuibili a terzi, in nesso di collegamento con l’esame da assumere in dibattimento. Si deve, poi, ritenere che la disposizione in esame non sia norma a pura “tutela” del teste. La garanzia per costui è assicurata da altri precetti di natura sostanziale (artt. 336, 612, 610 Cod. pen. o dalla diversa fattispecie rilevante in ragione della specificità del caso concreto e della qualità del dichiarante - art. 377-bis Cod. pen.). È piuttosto, il meccanismo acquisitivo descritto presidio processuale che garantisce l’integrità e la genuinità del contraddittorio, come strumento essenziale di formazione della prova, in uno stretto e rigoroso bilanciamento tra valori e principi strutturali di sistema che dall’obbligo di deporre, secondo verità, giungono al riconoscimento del diritto al silenzio, a seconda delle distinte fonti orali e dei temi oggetto d’accertamento. Ebbene l’art. 500 comma 4 prevede il recupero probatorio delle dichiarazioni unilaterali al cospetto delle indicate situazioni tipiche ed a prescindere dalla eventuale archiviazione disposta sul delitto a monte. Il tema sostanziale e quello processuale restano scissi nei rispettivi ambiti d’operatività. Ciò accade perché in ragione di quelle condotte si espone con condotta illecita il contraddittorio al rischio di inquinamenti e di criticità nella sua funzione essenziale di ricostruzione della vicenda sottoposta all’esame del giudice. Si spiega, allora, perché il modello acquisitivo in esame si sviluppi ed operi anche al cospetto di azioni che non derivano direttamente dall’imputato contro il quale, in definitiva, possono essere utilizzate le dichiarazioni recuperate. Il delicato meccanismo è caratterizzato da un perimetro ben definito. Si tratta in primo luogo di una norma che in ragione della sua eccezionalità, non ammette estensioni oltre i casi tassativamente previsti. In secondo luogo non si istituisce nel sistema un criterio di valutazione legale unidirezionale del dato recuperato. Piuttosto esso è utilizzabile come prova, in deroga al principio del contraddittorio, risultando, tuttavia, sottoposto al criterio di libera valutazione da parte del decidente, che è chiamato a scrutinarne egualmente la forza dimostrativa (Sez. 1, 12929/2016).

Le nullità attinenti al procedimento di assunzione della prova (ivi comprese quelle relative alla violazione dell’art. 500) che realizzino ipotesi di nullità di ordine generale sotto il profilo dell’art. 178 lett. c) (in quanto comportanti lesione del diritto di difesa nell’ambito della procedura predisposta all’accertamento dei fatti), non rientrando tra le ipotesi di cui all’art. 179, debbono considerarsi “a regime intermedio” e pertanto sanabili per effetto della mancata eccezione ad opera della parte che vi assiste; in mancanza di una tempestiva eccezione, la deduzione effettuata nei motivi di appello non può valere a causa dell’intervenuta sanatoria e decadenza (Sez. 2, 54144/2018).

Sebbene l’art. 500, comma 2 preveda che le contestazioni possano “essere valutate ai fini della credibilità del teste”, non può certo ritenersi che il contenuto della contestazione, laddove abbia comunque, e finanche in termini laconici, trovato conferma da parte dell’esaminato, non debba poi, necessariamente e logicamente, essere apprezzato e recepito quale dichiarazione resa direttamente dal medesimo in sede dibattimentale. In sostanza, la norma di cui all’art. 500, comma 2, concerne pur sempre l’ipotesi di dichiarazioni dibattimentali dell’esaminato difformi da quelle contenute nell’atto adoperato per le contestazioni, che in precedenza (nel testo previgente dell’art. 500 comma 4) “erano acquisite al fascicolo dibattimentale e valutate come prova dei fatti in esse affermati”. Ne consegue che, laddove non sia possibile ravvisare tale difformità, ovvero questa sia venuta meno a seguito della contestazione, si rientra nell’ambito della normale deposizione che, nella specie, va ricondotta nell’alveo delle dichiarazioni dibattimentali, rese da persona offesa (Sez. 2, 35428/2018).

Secondo il diritto vivente, in relazione alla sussistenza degli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro al fine di non deporre o di deporre il falso, lo standard probatorio non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma nel contempo non è neppure necessaria una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesta soltanto per il giudizio di condanna, essendo sufficiente che detti elementi siano connotati da precisione, obiettività e significatività (Sez. 2, 33519/2017).

Gli «elementi concreti» sulla base dei quali può ritenersi che un collaboratore di giustizia sia stato sottoposto a violenza o minaccia affinché non deponga, ovvero deponga il falso, devono consistere, secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività, in elementi sintomatici della violenza o dell’intimidazione subita dal teste, purché connotati da precisione, obiettività e significatività, e quindi idonei ad escludere che la condotta del teste sia frutto esclusivo della volontà di ritorsione contro lo Stato a causa della revoca del programma di protezione a seguito di comportamenti penalmente rilevanti successivamente tenuti dal soggetto (Sez. 2, 13550/2017).

L’acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese, ai sensi dell’art. 500 comma 4, è determinata dall’apprezzamento di situazioni di compromissione della genuinità dell’esame che non necessariamente deve ricollegarsi ad un fatto attribuibile all’imputato.

La citata disposizione non ha una natura sanzionatoria che si riverbera sull’imputato che ha posto in essere l’attentato alla prova, ma mira a garantire in modo oggettivo l’integrità dello strumento probatorio. È legittima, pertanto, la “contestazione acquisitiva”, anche se la situazione che ha compromesso la genuinità della prova non è addebitabile all’imputato. Ne consegue che, una volta acquisite al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni delle persone offese, correttamente esse sono ritenute utilizzabili nei confronti di tutti gli imputati (Sez. 2, 39716/2018).

L’accertamento di pregresse violenze, minacce, offerte o promesse di denaro o di altre utilità al testimone affinché non deponga ovvero deponga il falso per un verso autorizza il giudice a disattendere la deposizione del teste in giudizio ed ad acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese nella fase delle indagini del teste medesimo, ma per altro verso non esonera il giudice dal vagliare l’attendibilità dì queste ultime, che non può essere ritenuta automatica sulla scorta dell’accertato fattore illecito esterno (Sez. 2, 50323/2013).

Quando il testimone destinatario di pressioni volte ad inquinare la genuinità della prova non si sottrae all’esame dibattimentale, è illegittima l’acquisizione a fini probatori, ai sensi dell’art. 500, comma 4, delle dichiarazioni predibattimentali in precedenza rese dallo stesso, se prima non si procede al suo esame (Sez. 2, 37868/2018).

In tema di mutamento del collegio giudicante, i verbali delle prove dichiarative precedentemente assunte, non essendo viziati da inutilizzabilità patologica, possono essere legittimamente utilizzati, in sede di rinnovata assunzione dell’esame testimoniale, ai fini delle contestazioni previste dagli art. 500 e 503, non diversamente da quanto dispone l’art. 238, comma 4 per le dichiarazioni rese in altri procedimenti. (Sez. 5, 38734/2014).

Anche quando la ritrattazione del testimone avviene nel corso dell’incidente probatorio, le dichiarazioni precedentemente rese nella fase delle indagini preliminari possono essere utilizzate, ai sensi dell’art. 500 comma 4, ove il giudice ritenga che il soggetto esaminato sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta di denaro o di altra utilità (Sez. 1, 6683/2013).

In tema di valutazione della prova testimoniale, le dichiarazioni fornite dal testimone nel corso delle indagini preliminari e lette per le contestazioni ex art. 500  al di fuori dei casi di consenso delle parti o di violenza, minaccia o subornazione  possono essere valutate solo ai fini della credibilità dello stesso, ma mai come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese (Sez. 3, 20388/2015).

Il riconoscimento fotografico effettuato nella fase delle indagini preliminari, non reiterato o non confermato nel corso del dibattimento, può essere ritenuto utilizzabile a fini probatori soltanto nel caso in cui, in applicazione della disciplina prevista per le contestazioni dall’art. 500 comma 4, risulti da elementi concreti che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità con la finalità di condizionare l’esito dell'atto ricognitivo (fattispecie nella quale l’unico testimone oculare di una rapina, chiamato a deporre dinanzi al tribunale, non riconosceva l'imputato nell’album fotografico che gli veniva mostrato né confermava in alcun modo il riconoscimento operato nel corso delle indagini preliminari. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha ritenuto inutilizzabile ai fini di prova l’atto compiuto in fase di indagine ed ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, perché l’imputato non ha commesso il fatto) (Sez. 2, 10249/2021).

L’individuazione/ricognizione di un soggetto – sia personale che fotografica – costituisce manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta una specie del più generale concetto di dichiarazione, soggetta, alla stregua della deposizione testimoniale, alle regole processuali che consentono l’utilizzabilità in dibattimento di dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini preliminari (Sez. 2, 50954/2013).

Può essere attribuita maggiore valenza probatoria al riconoscimento fotografico effettuato nella fase delle indagini preliminari con esito positivo, rispetto alla individuazione fotografica (o personale) fatta dal medesimo testimone in dibattimento, con esito negativo, solo ove sia emerso, sulla base di concreti elementi, che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, con la finalità di condizionare l’esito dell’atto ricognitivo, come previsto dall’art. 500, comma 4 (Sez. 2, 43294/2015).

È pacifico insegnamento della giurisprudenza di legittimità che il giudice di merito possa trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali (quale, appunto, l’individuazione fotografica), utilizzabili in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, atteso che la valenza dimostrativa della prova sta non nell’atto in sé, bensì nella testimonianza che dà conto dell’operazione ricognitiva (Sez. 4, 25658/2011).

In tali ipotesi, seppure i verbali di individuazione non possono sicuramente acquisirsi al dibattimento, neanche per il tramite delle contestazioni a norma dell’art. 500, è indubbio che l’esame testimoniale ben può svolgersi anche sulle modalità della pregressa individuazione al fine di procedere ad una valutazione globale di chi rende la dichiarazione (Sez. 2, 16204/2004).

Ai fini dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni in precedenza rese dal teste, ai sensi dell’art. 500, comma 5, gli elementi concreti per ritenere sussistente l’intimidazione del medesimo, anche attraverso minacce rivolte a persone a lui vicine, ben possono essere desunti dalle dichiarazioni comunque rese alla PG, purché contenenti elementi sintomatici della violenza o dell’intimidazione subita dal teste (Sez. 2, 13550/2017) e connotate da precisione, obiettività e significatività (Sez. 1, 25211/2015) non richiedendosi, in tale fase, caratterizzata dall’assenza di formalità, che siano osservate le regole del contraddittorio (Sez. 2, 33519/2017).

In particolare, l’idoneità della “minaccia” richiesta dalla disposizione è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tali da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando che comportamento minatorio non sia stato posto in essere prima della specifica udienza in cui il teste aveva deposto (Sez. 3, 46501/2015) (il ragionamento complessivo è ascrivibile a Sez. 2, 31687/2018).

L’art. 500 comma 4 stabilisce che quando sussistano elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza o minaccia affinché non deponga, affermi il falso o, comunque, non riferisca il vero, “le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento” e possono essere utilizzate per la decisione. L’art. 500 comma 5 stabilisce che in questi casi “il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro od altra utilità”. Ne deriva affermare che il subprocedimento destinato ad accertare la sottoposizione del teste a violenza o minaccia, di cui al comma 5 del cit. art. 500, è svolto dal giudice, il quale dovrà verificare, svolgendo gli accertamenti che ritenga necessari su richiesta della parte o anche d’ufficio, la sussistenza di quegli elementi concreti in questioneL’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese al PM dal testimone “condizionato”, ai sensi dell’art. 500 comma 4, non richiede né la loro preventiva contestazione, né la presentazione del testimone al dibattimento; inoltre quanto al parametro di valutazione del requisito della intimidazione, il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro al fine di non deporre o di deporre il falso, se anche non richiede una prova certa, deve fondarsi su elementi sintomatici e rivelatori dell’intimidazione subita dal teste, connotati da precisione e persuasività, non potendo ritenersi sufficienti i meri sospetti o soltanto il timore soggettivo di poter essere minacciato. Sicché se lo “standard” probatorio non può essere rappresentato dal semplice sospetto, non è neppure necessaria una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesta soltanto per il giudizio di condanna. Certamente, quindi, proprio a detti parametri dovrà attenersi il giudice per ritenere che il testimone ovvero il coimputato dichiarante siano stati in qualche modo intimiditi o subornati e conseguentemente si decida di disporre l’acquisizione delle precedenti dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Sicché per provare il presupposto della minaccia e l’acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali non si richiede lo svolgimento di attività istruttoria necessariamente nel contraddittorio delle parti facendo espresso riferimento il disposto della citata norma ad accertamenti che il giudice che procede può compiere senza formalità. Quanto ai momenti consumativi della violenza o minaccia ai danni del teste, unico requisito per l’acquisizione probatoria è la precedenza della intimidazione rispetto all’audizioneAppare anche rilevante ricordare sul punto, come la giurisprudenza della Corte EDU sia intervenuta anche in materia di valutazione di dichiarazioni rese in fase predibattimentale da testimoni minacciati od intimiditi; il tema  affrontato dalla Grande Camera (CGUE, pronuncia resa il 15 dicembre 2011, nei casi Al Khawaja c. Regno Unito e Tahery c. Irlanda del Nord)  ha stabilito alcuni punti fermi: quando un testimone non compaia in dibattimento per deporre, il giudice deve verificare se tale assenza sia giustificata; tra le cause della mancata comparizione del testimone che assumono rilevanza giuridica rientra il rifiuto a comparire per motivi di “paura”; il timore imputabile a minacce o altri fatti riferibili all’imputato determina l’ammissione della deposizione del testimone, senza costringerlo a comparire e senza consentire alla difesa dell’imputato il controesame; tale deposizione può anche costituire la prova unica o determinante della responsabilità dell’imputato. La ratio di tale scelta risiede nella valutazione per cui l’imputato che abbia agito in tal modo ha rinunciato al proprio diritto di interrogare i testimoni in questione, ai sensi dell’art. 6 § 3 lett. d). Così in particolare afferma in motivazione la Grande Camera nella pronuncia predetta: “quando un testimone non compaia in dibattimento per deporre, il giudice deve anzitutto verificare se tale assenza sia giustificata. E sebbene l’omessa comparizione possa essere dovuta ad una molteplicità di cause, le uniche che assumono rilevanza giuridica sono quelle del decesso del testimone o del rifiuto a comparire per motivi di “paura”. È evidente che nell’ipotesi di decesso del testimone, la sua deposizione potrà essere tenuta in conto solo quando sia contenuta negli atti di causa. L’ipotesi di assenza del testimone per timore, invece, richiede un esame ulteriore, essendo ravvisabili due tipi di paure: quella imputabile a delle minacce o altri fatti riferibili all’imputato o a qualcuno che agisce per suo conto, e quella, più generale, per le conseguenze che potrebbero derivare dalla propria deposizione nel processo. Allorché la paura è riferibile in qualche modo all’imputato, è intuitivo comprendere perché il giudice ammette la deposizione del testimone senza costringerlo a comparire e senza consentire alla difesa dell’imputato il controesame, ciò quantunque la sua deposizione costituisca la prova unica o determinante. D’altra parte non consentire l’ammissione di tale deposizione e, quindi, permettere all’imputato di trarre beneficio delle proprie condotte intimidatorie, sarebbe fortemente contrario ai diritti dei testimoni e delle vittime” (Sez. 2, 33519/2017).

Ai fini dell’acquisizione al fascicolo per il dibattimento, ai sensi dell’art. 500 comma 4, delle dichiarazioni in precedenza rese dal teste, è richiesta la sussistenza di «elementi concreti» per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a pressioni, desumibili da qualunque circostanza sintomatica della subita intimidazione, purché connotata da obiettività e significatività, e quindi anche soltanto da circostanze emerse nello stesso dibattimento, qualora la prudente valutazione del giudice gli consenta di cogliere dall’atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale i segni della subita intimidazione; né alcuna valenza può assumere, in senso contrario, il mancato espletamento degli accertamenti incidentali previsti dall’art. 500, comma 5, trattandosi di attività istruttoria meramente eventuale, alla quale il giudice può attendere se ne ravvisi la necessità, senza esservi, tuttavia, obbligato (Sez. 5, 16055/2011).

In tema di letture consentite, ex artt. 431 e 511, la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell’azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento al fine della ricostruzione storica della vicenda, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili, risulti impossibile la testimonianza dell’autore della denuncia-querela; in tal caso, infatti, la lettura è consentita, ai sensi dell’art. 512, anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova. Ne consegue che, in assenza dei presupposti di cui all’art. 512, la querela non può essere utilizzata per le contestazioni ex art. 500, trattandosi di documento redatto dalla persona offesa e non di un verbale contenente dichiarazioni precedentemente rese dal testimone (Sez. 5, 51711/2014).