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Art. 516 - Modifica della imputazione

1. Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione.

1-bis. Se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei casi indicati dagli articoli 519 comma 2 e 520 comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova udienza fissata a norma dei medesimi articoli.

1-ter. Se a seguito della modifica risulta un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, e questa non si è tenuta, l’inosservanza delle relative disposizioni è eccepita, a pena di decadenza, entro il termine indicato dal comma 1-bis.

Rassegna giurisprudenziale

Modifica dell’imputazione (art. 516)

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine all’originaria imputazione (Corte costituzionale, sentenza 265/1994).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 516 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis Cod. pen., relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento (Corte costituzionale, sentenza 530/1995).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 516 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale (Corte costituzionale, sentenza 333/2009).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 516 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato, relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione (Corte costituzionale, sentenza 273/2014).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 516 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale che forma oggetto della nuova contestazione (Corte costituzionale, sentenza 206/2017).

L’art. 521 enuncia al primo comma il principio riassumibile nel brocardo latino iura novit curia, in base al quale il giudice, nella sentenza, può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la propria competenza o non sia affidato alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale anziché monocratica. Al fine di tutelare il diritto di difesa dell’imputato, però, il secondo comma dell’art. 521 impone al giudice che accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio (ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2) di pronunciare un’ordinanza con cui dispone trasmettersi gli atti al PML’art. 518 invece considera l’ipotesi dell’emersione nel corso del processo di un fatto nuovo a carico dell’imputato, non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e perseguibile d’ufficio, prevedendo che in tal caso si proceda nelle forme ordinarie, salva l’autorizzazione alla contestazione suppletiva con il consenso dell’imputato e purché non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti. La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che per «fatto nuovo», regolato dall’art. 518, si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendum, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo. Invece, per «fatto diverso», considerato dal comma 2 dell’art. 521, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato. Sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali, così da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria capace di impedire o menomare il diritto di difesa dell’imputato; occorre quindi una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. La Corte non ritiene che nella fattispecie si possano invocare i principi della c.d. sentenza Drassich (Corte EDU, Sez. 2, 25575/2007, Drassich c. Italia), che mirano a tutelare l’imputato dal disorientamento difensivo procurato anche dalla mera riqualificazione giuridica del fatto storico contestato. Secondo tale importante arresto della Corte europea, il diritto ad essere informato comprende anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati e pertanto, alla luce di un’interpretazione sistematica delle lett. a) e b) dell’art. 6, par. 3, CEDU, quando il diritto nazionale preveda la possibilità di attribuire ai fatti contestati all’imputato una diversa qualificazione giuridica, l’imputato deve essere informato di tale qualificazione giuridica in tempo utile per poter esercitare i diritti di difesa riconosciuti dalla CEDU in modo concreto ed effettivo; secondo la Corte il mezzo più appropriato per rimediare a tale violazione è la riapertura del processo. Questa Corte ha pertanto adeguato la sua giurisprudenza a tali principi affermando che nel giudizio di legittimità, il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non può avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, imponendo, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesaLa giurisprudenza di questa Corte ha però in varie prospettive circoscritto la portata del principio. Da un lato, ha escluso che esso valga allorché la riqualificazione operi in bonam partem, ossia a favore dell’imputato non ravvisando in tal caso alcun obbligo di preventiva informazione all’imputato per consentirgli l’esercizio del diritto al contraddittorio. D’altro canto, ha ritenuto allorché la riqualificazione giuridica del fatto sia stata espressamente richiesta dal PM, l’omessa informazione all’imputato da parte del giudice della eventualità che il fatto contestatogli possa essere diversamente definito non comporta violazione dell’art. 6 così come interpretato dalla Corte EDUInfine il principio è stato confinato nei soli ambiti che non consentono all’imputato di rielaborare la propria linea difensiva, sostenendo che la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio; ed inoltre che l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere è assicurata anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione. Il più recente orientamento di questa Corte esclude che vi sia una lesione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, laddove la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, ovvero non abbia portato ad una concreta menomazione della difesa sui profili di novità da essa scaturiti, anche nei casi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per sé prevedibile per l’imputatoLa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, pur nella estrema varietà degli accenti dovuta al suo tipico intervento casistico, ha spesso escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, censurando, in concreto, le ipotesi in cui la riqualificazione dell’addebito avesse assunto le caratteristiche di atto a sorpresa. Accanto a ciò, la stessa Corte non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non fossero vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato fossero già presenti nella originaria imputazione: e ciò, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per sé prevedibile per l’imputato. La violazione, dunque  secondo la impostazione tutt’altro che formalistica della Corte di Strasburgo  deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti (sul punto, SU, 31617/2015).

In caso di genericità o indeterminatezza del fatto descritto nel capo di imputazione, al giudice del dibattimento, prima di dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio, ai sensi dell'art. 429, comma 2 (o del decreto di citazione a giudizio, ai sensi dell'art. 552, comma 2), è consentita la sollecitazione, rivolta al PM, a integrare o precisare la contestazione, al fine di adeguare l'accusa agli elementi di fatto e di diritto evidenziati dal giudice (Sez. 4, 16838/2021).

Ai fini della valutazione circa la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, è necessario adottare un concetto ampio di imputazione, che non si limiti al dato letterale, ma ricomprenda tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongano l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito. La violazione è esclusa laddove l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi; il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità di effettiva difesa. Va infine ricordato come non sia ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione, quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa. La contestazione poi non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti, che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (si veda Sez. F, 43481/2012). In tal senso, dunque, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’oggetto della contestazione (Sez. 5, 21226/2017) (la riassunzione complessiva si deve a Sez. 5, 39486/2018).

Le norme che disciplinano le nuove contestazioni e la modifica dell’imputazione (articoli 516-522), avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputatoIn altri termini, poiché la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del PM) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 4, 34842/2018).

Per “fatto diverso”, ai sensi dell’art. 516, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato). Per contro, la locuzione “fatto nuovo non enunciato” nel decreto medesimo, di cui al successivo art. 518, concerne un accadimento del tutto difforme ed autonomo, per le modalità essenziali dell’azione o dell’evento, rispetto a quello originariamente contestato, che si pone quindi in rapporto di totale eterogeneità od incompatibilità ontologica. Una differenza sostanziale, quindi, che, nell’ottica di piena garanzia del diritto di difesa, si traduce poi in una ben distinta procedura: ed invero, se nel caso di fatto diverso (così come di reato concorrente o circostanza aggravante) risulta sufficiente la contestazione nel corso del dibattimento con notifica del verbale all’imputato assente, nell’ipotesi di fatto nuovo occorre procedere “nelle forme ordinarie”, quindi con autonoma iscrizione ed avvio di nuovo procedimento (salva l’ipotesi in cui vi sia consenso da parte dell’imputato presente) (Sez. 3, 39248/2018).

Si definisce “fatto” il complesso degli accadimenti che integrano gli estremi del reato, nella sua giuridica configurazione’, in quanto elementi costitutivi o circostanziali. Il “fatto diverso” è un accadimento storico che presenta connotazioni materiali difformi da quelli descritti nell’imputazione originaria, rendendo necessaria una modifica della contestazione degli elementi essenziali del reato. Non si tratta dunque di un fatto ulteriore rispetto a quello contestato ab origine ma del medesimo episodio storico, che tuttavia risulta essersi svolto in un tempo, in un luogo o con modalità difformi da quanto descritto nell’imputazione (Sez. 2, 34258/2018).

Quanto alle contestazioni suppletive “tardive” (o, per riprendere la terminologia della Corte costituzionale, “patologiche”), l’orientamento a suo tempo affermato dalle Sezioni unite (SU, 4/1998) ha trovato conferma, pur con significative oscillazioni, nella successiva giurisprudenza di legittimità, ove si è ribadito che il PM può procedere, nel corso del dibattimento e prima dell’inizio dell’istruzione, alla modifica dell’imputazione per diversità del fatto, utilizzando a tal fine gli elementi che già emergevano nel corso delle indagini (Sez. 5, 37388/2014).

Uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il modello processuale adottato dal codice del 1988 è rappresentato proprio dalla relativa fluidità della imputazione, in stretta dipendenza con il radicale mutamento del rapporto tra fase dibattimentale e la fase delle indagini. Assegnata, infatti, alle indagini la semplice funzione preparatoria di consentire al PM di assumere le proprie determinazioni in ordine all’esercizio della azione penale, ne è derivato che soltanto al dibattimento, come sede elettiva di formazione della prova, può essere riservata la prerogativa di momento destinato alla progressiva configurazione degli esatti contorni del thema decidendum e di effettiva cristallizzazione della accusa. Se, dunque, è certamente presente nel sistema la necessità che con l’atto di esercizio della azione penale venga enunciata una precisa definizione della imputazione, dal momento che il diritto di difesa può essere concretamente esercitato (anche in riferimento alle opzioni per i riti alternativi) soltanto se l’imputato sia messo in condizione di conoscere, in modo puntuale, gli addebiti che gli vengono mossi, è però altrettanto vero che l’emersione in dibattimento di elementi modificativi dell’accusa originaria rappresenta, nel sistema vigente, una evenienza tutt’altro che eccezionale. Mentre, dunque, il codice del 1930 – coerentemente con la scelta del consolidamento della accusa con la translatio iudicii  stabiliva uno sbarramento, in tema di mutatio libelli, con gli artt. 445 e 477, evocando epiloghi regressivi che invece il nuovo codice ha teso a scongiurare attraverso il meccanismo delle nuove contestazioni, le possibilità di “trasformazione” dibattimentale della accusa hanno finito per subire, nel sistema delineato dagli artt. 516 e ss., un sensibile incremento. Accanto, infatti, alla “contestazione sostitutiva,” con la quale l’imputazione viene modificata ove il fatto risulti diverso da quello contestato nel provvedimento che dispone il giudizio (art. 516), si mantiene la possibilità della “contestazione suppletiva,” afferente il reato connesso o la circostanza aggravante (art. 517) e si aggiunge, infine, la possibilità di operare  sia pure previo consenso dell’imputato  una “contestazione aggiuntiva,” ove a carico del medesimo risulti un fatto nuovo (art. 518)Tuttavia, a fronte di una così ampliata platea di situazioni legittimanti la modifica della imputazione nel corso del giudizio, la disciplina dettata dal vigente codice di rito non ha affatto preso in considerazione un forte elemento di torsione interna al sistema, costituita proprio dalle ricadute, in senso preclusivo, che dalle nuove contestazioni dibattimentali venivano a scaturire sul versante tanto dei riti alternativi a contenuto premiale, come il giudizio abbreviato e l’applicazione di pena su richiesta delle parti, quanto, ancor più, dei meccanismi di definizione anticipata del procedimento, come, appunto, l’oblazione. Riti e meccanismi che la stessa giurisprudenza costituzionale ha reiteratamente affermato costituire modalità di esercizio  e tra le più qualificanti  del diritto di difesa. Da qui il contrapporsi di esigenze antitetiche, che naturalmente hanno influenzato le stesse soluzioni adottate dal giudice delle leggi: per un verso, quella di considerare rigidi e comunque non superabili i limiti di stadio processuale stabiliti per la formulazione della richiesta dei riti alternativi, ai fini della valorizzazione al massimo grado delle esigenze di economia processuale e di deflazione del carico dibattimentale, che costituiscono  come è noto  la ragion d’essere dei riti alternativi e dei benefici che, sul piano sanzionatorio, derivano dalla loro adozione; all’inverso, quella di modulare quei limiti in modo tale da consentire il possibile recupero di quelle forme speciali di giudizio, nella specifica ipotesi di modifica dibattimentale della imputazione, così da bilanciare le esigenze di economia processuale con quelle connesse al diritto di difesa, non sacrificabile unilateralmente sull’altare della deflazione. Ebbene, il percorso seguito dalla giurisprudenza costituzionale, fu, come è noto, contrassegnato da una sorta di progressione verso la garanzia difensiva, attraverso ampliamenti sempre più sensibili alla prospettiva di assicurare il possibile recupero “postumo” dei procedimenti speciali, in presenza di nuove contestazioni. In una prima fase, infatti, la Corte costituzionale si era attestata su posizioni di netta chiusura, che privilegiavano le esigenze di economia processuale, tracciando un nesso di inscindibile collegamento tra il profilo della premialità dei riti con quello della deflazione. Si reputava, dunque, che l’interesse dell’imputato ai riti alternativi trovasse tutela solo in quanto la sua condotta consentisse la effettiva adozione della sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento, permettesse di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo. La variazione della imputazione - come si è già posto in luce - è infatti una eventualità non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, cosicché la stessa mutati libelli costituisce un accidente non imprevedibile, con la conseguenza che il rischio della nuova contestazione in dibattimento rappresenta nulla più che un elemento che rientra «naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta». Il rito alternativo finiva, quindi, in tale prospettiva, per costituire anche una garanzia di “cristallizzazione” della accusa, non più emendabile (secondo la disciplina dell’epoca) dopo l’opzione per uno dei procedimenti a base premiale. Un simile rigore ha però poi ceduto il passo, dapprima ad un orientamento intermedio, teso a privilegiare i connotati “patologici” della contestazione dibattimentale, ove gli elementi relativi alla nuova contestazione fossero già presenti negli atti delle indagini, e quindi la modifica della imputazione rappresentasse una ipotesi di contestazione “tardiva” frutto degli errori dello stesso PM; fino a pervenire, successivamente, ad un diverso approdo ricostruttivo, teso a valorizzare il diritto ai riti alternativi attraverso il superamento del limite della “patologia”, nella consapevole constatazione per la quale «l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore - quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena - rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio» (SU, 32351/2014).

La modifica dell’imputazione e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruttoria dibattimentale e, quindi, anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari (Sez. 2, 45298/2015). La rilevanza e diffusione di tale orientamento giurisprudenziale sono state tali da indurre la Corte costituzionale a correggere il “diritto vivente” consentendo l’accesso ai riti alternativi in caso di contestazioni tardive (Corte costituzionale, sentenze 184/2014 e 139/2015). La Consulta ha rilevato che «la giurisprudenza di legittimità, con l’avallo delle Sezioni unite, ritiene che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 possano essere basate anche sui soli elementi già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari. Per effetto di questa lettura estensiva, l’istituto delle nuove contestazioni si connota “non più soltanto come uno strumento - come detto, speciale e derogatorio - di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione”. La giurisprudenza che consente la possibilità di contestazione tardiva di elementi circostanziali è stata ritenuta quindi dalla stessa Corte costituzionale espressione di “diritto vivente”, tanto consolidato da imporre una correzione finalizzata alla reintegrazione delle prerogative difensive. Così la Consulta, con le pronunce richiamate, ha riattivato il diritto dell’imputato a chiedere l’accesso ai riti alternativi, seppure limitatamente ai fatti ed alle circostanze contestati tardivamente (Sez. 2, 25282/2016).

Il giudice del dibattimento non può trasmettere gli atti al PM sul rilievo (fondato od infondato) della diversità tra il fatto commesso e quello contestato e, nel contempo, assolvere da quest’ultimo l’imputato, perché i due provvedimenti contestualmente emessi si pongono in intrinseca contraddizione ed il successivo giudizio incorrerebbe nella preclusione del giudicato; ma deve limitarsi, ove ravvisi la diversità del fatto, a disporre la trasmissione degli atti al PM, lasciando con ciò impregiudicata qualsiasi futura determinazione di quest’ultimo. A ciò si aggiunga che il giudice, che non è titolare dell’azione penale, non può pronunciarsi su un capo di imputazione ormai non più esistente, in quanto oggetto di modifica da parte del PM (Sez. 5, 34555/2010).

Nel caso di contestazione di un reato permanente nella forma cosiddetta “chiusa”, con precisa indicazione della data di cessazione della condotta illecita (ad es. con la formula “accertato fino al...”), il giudice può tener conto dell’eventuale protrarsi della consumazione soltanto se ciò sia oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516; qualora invece il reato permanente sia stato contestato in forma c.d. “aperta” - essendosi il PM limitato ad indicare solo la data di inizio della consumazione, ovvero quella dell’accertamento - il giudice può valutare, senza necessità di contestazioni suppletive, anche la condotta criminosa eventualmente posta in essere fino alla data della sentenza di primo grado (Sez. 1, 39593/2018).

In tema di nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione riguardante un elemento accessorio del fatto (qual è la data del commesso reato oppure il termine iniziale o finale di un reato permanente a “contestazione chiusa”, oppure la contestazione della recidiva), non accompagnata dalla notifica dell’estratto del verbale dibattimentale all’imputato contumace o assente, determina una nullità assoluta qualora l’elemento modificato, incidendo sul nucleo essenziale del fatto, abbia impedito il pieno esercizio dei diritti difensivi; qualora, invece, la modifica non investa il nucleo sostanziale dell’addebito e non rechi pregiudizio al diritto dell’imputato di individuare con esattezza il fatto contestatogli, l’omessa notificazione del verbale di udienza contenente tale modifica, determina una nullità relativa, non deducibile con l’impugnazione della sentenza se non eccepita dal difensore presente all’udienza successiva (Sez. 2, 46342/2016).

È illegittima la modifica dell’imputazione effettuata dal PM nel corso dell’udienza mediante correzione del capo di imputazione formulato nel rinvio a giudizio, in quanto il PM, a norma degli articoli 516 e 517, è titolare del solo potere di integrare l’accusa, mentre non può procedere autonomamente alla correzione o riqualificazione delle condotte, potere che spetta al giudice, il quale con la sentenza deve fornire adeguata motivazione sulle questioni di fatto e di diritto concernenti la sussistenza o meno della fattispecie (Sez. 2, 18617/2017).

Dal momento che il PM, nel vigente sistema processuale, detiene il ruolo di dominus esclusivo dell’azione penale, ne consegue che il giudice del dibattimento non può esercitare alcun sindacato preventivo sull’ammissibilità di contestazioni modificative (fatto diverso) o aggiuntive (fatto nuovo), effettuate ai sensi degli articoli 516 e 517A conferma di tale principio è sufficiente osservare che l’art. 517 stabilisce esclusivamente che il PM “contesta all’imputato” il reato connesso o la circostanza aggravante emersa dagli atti del dibattimento, senza prevedere alcun potere di intervento per l’organo giudicante, come fa invece l’art. 518 con riferimento alla contestazione di un fatto nuovo, stabilendo che il presidente del collegio “può autorizzarla”. D’altronde, al riguardo, siffatte attività possono essere compiute entro la chiusura del dibattimento, eventualmente interrompendo anche la discussione finale (Sez. 3, 29877/2018).

Gli artt. 516 e 517 non consentono di sanare la nullità del decreto che dispone il giudizio, ove sia stata ritualmente dedotta, e di evitare la regressione del processo “allo stato o grado in cui è stato compiuto l’atto nullo”, secondo il dettato dell’art. 185 capoverso. Nell’ipotesi di dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio il procedimento deve necessariamente regredire allo stato nel quale essa si è verificata: l’udienza preliminare; in tal caso, gli atti debbono essere trasmessi al GIP perché provveda alla rinnovazione dell’atto nullo previa fissazione dell’udienza, a norma degli artt. 418 e ss. (Sez. 4, 7785/2016).

Nel caso di nuove contestazioni dibattimentali non possono essere utilizzate dal giudice quale prova della colpevolezza dell’imputato le dichiarazioni accusatorie della persona offesa della quale non sia stato disposto l’esame successivamente alla formulazione dell’accusa suppletiva. Infatti, a seguito della contestazione in udienza di un nuovo fatto-reato e della conseguente introduzione di una nuova “causa petendi” contro l’imputato in un procedimento già in corso per altra imputazione, la fase della istruzione dibattimentale relativa alla nuova accusa è quella che si apre successivamente alla formulazione della contestazione suppletiva, con la conseguenza che le precedenti dichiarazioni della persona offesa non possono essere considerate “legittimamente acquisite nel dibattimento”, come prescritto dall’art. 526 in tema di prove utilizzabili ai fini della deliberazione (Sez. 6, 1327/1996).

In senso contrario: nel caso di contestazione suppletiva di reato connesso, le prove acquisite precedentemente nel corso dell’istruzione dibattimentale sono legittimamente utilizzabili anche ai fini della decisione relativa ai fatti oggetto della nuova contestazione (Sez. 6, 39235/2011).

Nell’ipotesi di nuova contestazione effettuata dal PM ai sensi dell’art. 516, qualora dal verbale di udienza non risulti specificatamente che il presidente abbia informato l’imputato del diritto di chiedere un termine per la difesa ex art. 519, non sussiste alcuna nullità della sentenza a norma dell’art. 522 se dal detto verbale emerga che, dopo tale contestazione, nulla hanno opposto le difeseLa menzione dell’acquiescenza delle stesse alla contestazione appare, infatti, comprensiva, di tutta l’attività orale svolta in quel contesto dalle parti, compresa la cognizione della possibilità di avere un termine e l’espressa rinuncia ad avvalersi di tale facoltà (Sez. 4, 47074/2016).