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Art. 522 - Nullità della sentenza per difetto di contestazione

1. L’inosservanza delle disposizioni previste in questo capo è causa di nullità.

2. La sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante senza che siano state osservate le disposizioni degli articoli precedenti è nulla soltanto nella parte relativa al fatto nuovo, al reato concorrente o alla circostanza aggravante.

 

Rassegna giurisprudenziale

Nullità della sentenza per difetto di contestazione (art. 522)

L’eventuale diversa ricostruzione di alcuni degli accadimenti non determina la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza purché il fatto storico sia il medesimo rispetto a quello descritto nella imputazione.

La modifica del fatto di rilievo, infatti, è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l’elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l’azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene.

Mentre, non si ha mutamento del fatto allorché il fatto tipico sia rimasto identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e sia stato connotato dallo stesso contesto referenziale e storico ed in un ambito in cui l’imputato ha potuto per intero spendere, senza alcuna menomazione del suo diritto di difesa, tutti gli interventi utili a sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi stimati nel loro insieme.

Altra cosa rispetto al mutamento del fatto, è, come nel caso di specie, la “riqualificazione giuridica” dello stesso, che si realizza attribuendo l’esatto nomen juris ad un episodio che rimane invariato nei suoi tratti caratterizzanti.

Lo jus variandi in punto di diritto è potere tipico del giudice che, in ogni fase e grado del procedimento, ha il potere dovere di attribuire al fatto per cui si procede l’esatta qualificazione giuridica, senza che ciò incida sull’autonomo potere - riservato in via esclusiva al pubblico ministero- di modificare il fatto contestato e di procedere alla nuova contestazione, quando esso risulti diverso da come è descritto nell’imputazione (Sez. 6, 28262/2017).

In tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui, ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa (Sez. 2, 36880/2018).

In base al sistema accolto dal codice di rito, la contestazione delle circostanze aggravanti è appannaggio esclusivo del PM, il quale, una volta instaurato il giudizio può provvedere ai sensi dell’art. 517, che l’autorizza appunto alle contestazioni suppletive.

A fronte della omessa contestazione di un’aggravante ad opera dell’organo dell’accusa, il giudice chiamato a decidere non ha invece alcun autonomo potere: né di ritenere in base agli atti esistente la circostanza non contestata, tanto essendogli impedito dall’art. 521, comma 1, e art. 522 comma 2, né di restituire gli atti al PM, ai sensi dell’art. 521, che riguarda soltanto la “diversità” del fatto (Sez. 5, 32682/2018).

La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, si realizza e si manifesta solo attraverso un’alterazione radicale della fattispecie ritenuta in sentenza nel senso di una radicale trasformazione della fattispecie concreta rispetto a quella contestata. Solo qualora non si rivenga nella fattispecie ritenuta in sentenza un nucleo comune, identificativo della condotta capace di determinare uno stravolgimento dei termini dell’accusa, si determina la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e la conseguente nullità della sentenza (Sez. 3, 39248/2018).

La mancanza di correlazione tra fatto enunciato nell’ordinanza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione e fatto risultato nel dibattimento deve essere rilevata dal giudice di appello sia quando tale diversità non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando la diversità del fatto risulti nel giudizio di appello.

Nell’ipotesi in cui il giudice di appello accerti che la regiudicanda è diversa da quella dedotta in accusa e che perciò essa esula dai suoi poteri di cognizione, in virtù degli artt. 477 e 519 ed in applicazione analogica dell’art. 522, comma 1, egli deve annullare la sentenza di primo grado ed ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero con sentenza (Sez. 6, 34954/2018).

È insussistente la violazione del principio di correlazione, ex art. 521, qualora, ancorché non formalmente contestata nel capo di imputazione, sia ritenuta in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476 comma 2 Cod. pen., purché la natura fidefacente dell’atto considerato falso sia stata chiaramente indicata “in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell’atto oggetto del falso (Sez. 5, 2712/2017).

L’omessa indicazione del capo di imputazione in merito alla finalità dell’azione delittuosa contestata  il fine di procurare a sé o ad altri un profitto non ha alcuna rilevanza ai fini della dedotta nullità della sentenza ex art. 522, purché il fatto contestato sia individuato con estrema precisione, sicchè l’elemento del profitto sia ricavabile in via induttiva dal contesto. Soddisfatte queste condizioni, nessuna violazione del diritto di difesa può dirsi avvenuta.

In ogni caso, un’eventuale doglianza difensiva in merito al contenuto del capo di imputazione, riguardando la completezza della contestazione, deve essere eccepita in primo grado nell’ambito delle questioni preliminari e riproposta in appello, a pena di decadenza (Sez. 2, 16063/2018).

La diversità fra la data del fatto indicata nella imputazione e quella ritenuta nella sentenza di condanna non integra la nullità ai sensi dell’art. 522 qualora non abbia concretamente comportato una reale compromissione dei diritti difensivi (Sez. 2, 17879/2014).

In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell’evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un’ipotesi differente.

Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste. È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Sez. 4, 35666/2007).

In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori) (Sez. 4, 51516/2013).

La violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza non sussiste se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altre parole, riferimento alla colpa generica). È consentito, dunque, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

Non sussiste violazione del principio anzidetto neppure qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati, come nel caso di specie, elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata ma rientrante nella colpa generica.

Anche in tal caso, infatti, il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (Sez. 4, 38819/2008).

 

In tema di reati

colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell’evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un’ipotesi differente. Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste.

È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Sez. 4, 35666/2007).

Nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell’imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull’addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti  e in particolare l’imputato  non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico.

Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale “ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione” (Sez. 6, 47527/2013).

Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa.

Mentre nei reati dolosi - in specie commissivi - la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l’obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata.

Quest’ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica). Com’è evidente, l’una e l’altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l’agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare.

Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, 51516/2013).

L’accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza  nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione  un approccio fondato sulla tipologia dell’intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l’ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica).

Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l’estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto).

La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della “narrazione” prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente (Sez. 4, 35943/2014).

Il riconoscimento di una circostanza aggravante che non poteva essere oggetto di contestazione suppletiva determina, in applicazione dei principi desumibili dall’art. 522, comma 1, la parziale nullità della sentenza di condanna (Sez. 4, 45535/2013).

La circostanza che, pur a fronte di un formale richiamo nella contestazione alle operazioni oggettivamente inesistenti, la condotta ascritta all’imputate si sia in realtà sostanziata nel compimento di operazioni soggettivamente inesistenti, non costituisce di per sé una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dovendosi tener conto sia del tenore dell’imputazione, che ha fornito una minuziosa descrizione dei singoli fatti addebitati, peraltro adeguatamente collocati nella loro dimensione spaziotemporale, sia della latitudine applicativa della norma incriminatrice, che attribuisce rilevanza penale al solo compimento di “operazioni inesistenti”, a prescindere dal fatto che lo siano oggettivamente o soggettivamente, sia infine della facilità per l’imputato di comprendere il significato esatto dell’accusa elevata a suo carico, e ciò anche alla luce della sua opzione di definire il processo a suo carico allo stato degli atti, avendo cioè piena cognizione delle risultanze investigative acquisite, idonee a circoscrivere la sfera di rilevanza del proprio comportamento illecito nell’ambito della specifica e unitaria fattispecie ascrittagli (Sez. 3, 30874/2018).

Il mutamento della veste giuridica, da amministratore di fatto a concorrente esterno nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, del soggetto condannato, non implica alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto la sostanza degli addebiti mossi all’imputato in tali ipotesi in alcun modo cambia (Sez. 5, 18770/2015).