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Art. 517 - Reato concorrente e circostanze aggravanti risultanti dal dibattimento

1. Qualora nel corso dell’istruzione dibattimentale emerga un reato connesso a norma dell’articolo 12 comma 1 lettera b) ovvero una circostanza aggravante e non ve ne sia menzione nel decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero contesta all’imputato il reato o la circostanza, purché la cognizione non appartenga alla competenza di un giudice superiore.

1-bis. Si applicano le disposizioni previste dall’articolo 516, commi 1-bis e 1-ter.



Rassegna giurisprudenziale

Reato concorrente e circostanze aggravanti risultanti dal dibattimento (art. 517)

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine all’originaria imputazione (Corte costituzionale, sentenza 265/1994).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis Cod. pen., relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento (Corte costituzionale, sentenza 530/1995).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale (Corte costituzionale, sentenza 333/2009).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione (Corte costituzionale, sentenza 237/2012).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale contestazione (Corte costituzionale, sentenza 184/2014).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere la sospensione con messa alla prova seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale contestazione (Corte costituzionale, sentenza 141/2018).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444, relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione (Corte costituzionale, sentenza 82/2019).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 517 nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti dell’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione (Corte costituzionale, sentenza 139/2015).

Uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il modello processuale adottato dal codice del 1988 è rappresentato proprio dalla relativa fluidità della imputazione, in stretta dipendenza con il radicale mutamento del rapporto tra fase dibattimentale e la fase delle indagini.

Assegnata, infatti, alle indagini la semplice funzione preparatoria di consentire al PM di assumere le proprie determinazioni in ordine all’esercizio della azione penale, ne è derivato che soltanto al dibattimento, come sede elettiva di formazione della prova, può essere riservata la prerogativa di momento destinato alla progressiva configurazione degli esatti contorni del thema decidendum e di effettiva cristallizzazione della accusa.

Se, dunque, è certamente presente nel sistema la necessità che con l’atto di esercizio della azione penale venga enunciata una precisa definizione della imputazione, dal momento che il diritto di difesa può essere concretamente esercitato (anche in riferimento alle opzioni per i riti alternativi) soltanto se l’imputato sia messo in condizione di conoscere, in modo puntuale, gli addebiti che gli vengono mossi, è però altrettanto vero che l’emersione in dibattimento di elementi modificativi dell’accusa originaria rappresenta, nel sistema vigente, una evenienza tutt’altro che eccezionale.

Mentre, dunque, il codice del 1930 – coerentemente con la scelta del consolidamento della accusa con la translatio iudicii – stabiliva uno sbarramento, in tema di mutatio libelli, con gli artt. 445 e 477, evocando epiloghi regressivi che invece il nuovo codice ha teso a scongiurare attraverso il meccanismo delle nuove contestazioni, le possibilità di “trasformazione” dibattimentale della accusa hanno finito per subire, nel sistema delineato dagli artt. 516 e ss., un sensibile incremento.

Accanto, infatti, alla “contestazione sostitutiva,” con la quale l’imputazione viene modificata ove il fatto risulti diverso da quello contestato nel provvedimento che dispone il giudizio (art. 516), si mantiene la possibilità della “contestazione suppletiva,” afferente il reato connesso o la circostanza aggravante (art. 517) e si aggiunge, infine, la possibilità di operare - sia pure previo consenso dell’imputato - una “contestazione aggiuntiva,” ove a carico del medesimo risulti un fatto nuovo (art. 518).

Tuttavia, a fronte di una così ampliata platea di situazioni legittimanti la modifica della imputazione nel corso del giudizio, la disciplina dettata dal vigente codice di rito non ha affatto preso in considerazione un forte elemento di torsione interna al sistema, costituita proprio dalle ricadute, in senso preclusivo, che dalle nuove contestazioni dibattimentali venivano a scaturire sul versante tanto dei riti alternativi a contenuto premiale, come il giudizio abbreviato e l’applicazione di pena su richiesta delle parti, quanto, ancor più, dei meccanismi di definizione anticipata del procedimento, come, appunto, l’oblazione.

Riti e meccanismi che la stessa giurisprudenza costituzionale ha reiteratamente affermato costituire modalità di esercizio – e tra le più qualificanti – del diritto di difesa.

Da qui il contrapporsi di esigenze antitetiche, che naturalmente hanno influenzato le stesse soluzioni adottate dal giudice delle leggi: per un verso, quella di considerare rigidi e comunque non superabili i limiti di stadio processuale stabiliti per la formulazione della richiesta dei riti alternativi, ai fini della valorizzazione al massimo grado delle esigenze di economia processuale e di deflazione del carico dibattimentale, che costituiscono – come è noto – la ragion d’essere dei riti alternativi e dei benefici che, sul piano sanzionatorio, derivano dalla loro adozione; all’inverso, quella di modulare quei limiti in modo tale da consentire il possibile recupero di quelle forme speciali di giudizio, nella specifica ipotesi di modifica dibattimentale della imputazione, così da bilanciare le esigenze di economia processuale con quelle connesse al diritto di difesa, non sacrificabile unilateralmente sull’altare della deflazione.

Ebbene, il percorso seguito dalla giurisprudenza costituzionale, fu, come è noto, contrassegnato da una sorta di progressione verso la garanzia difensiva, attraverso ampliamenti sempre più sensibili alla prospettiva di assicurare il possibile recupero “postumo” dei procedimenti speciali, in presenza di nuove contestazioni. In una prima fase, infatti, la Corte costituzionale si era attestata su posizioni di netta chiusura, che privilegiavano le esigenze di economia processuale, tracciando un nesso di inscindibile collegamento tra il profilo della premialità dei riti con quello della deflazione.

Si reputava, dunque, che l’interesse dell’imputato ai riti alternativi trovasse tutela solo in quanto la sua condotta consentisse la effettiva adozione della sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento, permettesse di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo.

La variazione della imputazione - come si è già posto in luce - è infatti una eventualità non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, cosicché la stessa mutatio libelli costituisce un accidente non imprevedibile, con la conseguenza che il rischio della nuova contestazione in dibattimento rappresenta nulla più che un elemento che rientra «naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta».

Il rito alternativo finiva, quindi, in tale prospettiva, per costituire anche una garanzia di “cristallizzazione” della accusa, non più emendabile (secondo la disciplina dell’epoca) dopo l’opzione per uno dei procedimenti a base premiale.

Un simile rigore ha però poi ceduto il passo, dapprima ad un orientamento intermedio, teso a privilegiare i connotati “patologici” della contestazione dibattimentale, ove gli elementi relativi alla nuova contestazione fossero già presenti negli atti delle indagini, e quindi la modifica della imputazione rappresentasse una ipotesi di contestazione “tardiva” frutto degli errori dello stesso PM; fino a pervenire, successivamente, ad un diverso approdo ricostruttivo, teso a valorizzare il diritto ai riti alternativi attraverso il superamento del limite della “patologia”, nella consapevole constatazione per la quale «l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore - quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena - rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio» (SU, 32351/2014).

Quanto alle contestazioni suppletive “tardive” (o, per riprendere la terminologia della Corte costituzionale, “patologiche”), l’orientamento a suo tempo affermato dalle Sezioni unite (SU, 4/1998) ha trovato conferma, pur con significative oscillazioni, nella successiva giurisprudenza di legittimità, ove si è ribadito che il PM può procedere, nel corso del dibattimento e prima dell’inizio dell’istruzione, alla modifica dell’imputazione per diversità del fatto, utilizzando a tal fine gli elementi che già emergevano nel corso delle indagini (Sez. 5, 37388/2014).

La modifica dell’imputazione e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruttoria dibattimentale e, quindi, anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari (Sez. 2, 45298/2015). La rilevanza e diffusione di tale orientamento giurisprudenziale sono state tali da indurre la Corte costituzionale a correggere il “diritto vivente” consentendo l’accesso ai riti alternativi in caso di contestazioni tardive (Corte costituzionale, sentenze 184/2014 e 139/2015).

La Consulta ha rilevato che «la giurisprudenza di legittimità, con l’avallo delle Sezioni unite, ritiene che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 possano essere basate anche sui soli elementi già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari.

Per effetto di questa lettura estensiva, l’istituto delle nuove contestazioni si connota “non più soltanto come uno strumento  come detto, speciale e derogatorio  di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione”.

La giurisprudenza che consente la possibilità di contestazione tardiva di elementi circostanziali è stata ritenuta quindi dalla stessa Corte costituzionale espressione di “diritto vivente”, tanto consolidato da imporre una correzione finalizzata alla reintegrazione delle prerogative difensive. Così la Consulta, con le pronunce richiamate, ha riattivato il diritto dell’imputato a chiedere l’accesso ai riti alternativi, seppure limitatamente ai fatti ed alle circostanze contestati tardivamente (Sez. 2, 25282/2016).

In base al sistema accolto dal codice di rito, la contestazione delle circostanze aggravanti è appannaggio esclusivo del PM, il quale, una volta instaurato il giudizio può provvedere ai sensi dell’art. 517 che l’autorizza appunto alle contestazioni suppletive.

A fronte della omessa contestazione di un’aggravante ad opera dell’organo dell’accusa, il giudice chiamato a decidere non ha invece alcun autonomo potere: né di ritenere in base agli atti esistente la circostanza non contestata, tanto essendogli impedito dagli artt. 521, comma 1 e 522 comma 2, né di restituire gli atti al PM, ai sensi dell’art. 521, che riguarda soltanto la “diversità” del fatto (Sez. 5, 32682/2018).

Qualora il fatto storico emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale sia legato a quello originariamente contestato da vincolo di connessione ex art. 12, lett. b), configurando un’ipotesi di continuazione o di concorso formale di reati, ricorre la fattispecie di reato concorrente, contemplata dall’art. 517 comma 1.

Tanto nell’ipotesi di reato concorrente quanto in quella di fatto nuovo, ove il PM non proceda a contestazione suppletiva, il giudizio seguirà il suo corso e il giudice si pronuncerà esclusivamente in merito all’imputazione originaria, fermo rimanendo il potere della pubblica accusa di procedere in separata sede in merito ai fatti ulteriori, emersi nel corso del dibattimento.

Dunque, la mancata contestazione suppletiva – per il mancato ricorrere delle condizioni previste dagli artt. 517 e 518, o semplicemente perché il PM, pur in presenza di esse, non vi abbia proceduto – non abilita il giudice a disporre la restituzione degli atti al requirente, provocando così un indebito regresso dell’azione penale.

L’unico effetto della mancanza di contestazione suppletiva è che il thema decidendum rimane circoscritto all’ambito originario dell’imputazione formulata e la pubblica accusa dovrà promuovere una distinta azione penale in relazione al fatto nuovo o al reato concorrente. Ed infatti l’art. 521 circoscrive il potere del giudice di restituire gli atti al PM all’ipotesi di fatto diverso, ad esclusione dell’ipotesi dell’emergere di fatto nuovo o di reato concorrente (Sez. 2, 34258/2018).

In caso di contestazione ex art. 517 di più reati concorrenti, la richiesta di giudizio abbreviato dovrà valere per tutti i reati oggetto di contestazione suppletiva (Sez. 5, 11905/2016).

Nel caso in cui sia contestato in udienza un nuovo reato, la parte civile già costituita non deve rinnovare la costituzione in relazione a tale nuova contestazione, ben potendo limitarsi ad estendere nelle conclusioni la domanda già proposta sia con riferimento alla causa petendi che al petitum (Sez. 2, 40921/2005).

In senso contrario: In caso di contestazione suppletiva, a pena di nullità, è richiesta una formale estensione della costituzione di parte civile (Sez. 1, 4669/2005).

La contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante è consentita sulla base anche dei soli elementi già acquisiti in fase di indagini preliminari, non soltanto perché non vi è alcun limite temporale all’esercizio del potere di modificare l’imputazione in dibattimento, ma anche perché, nel caso di reato concorrente, il procedimento dovrebbe retrocedere alla fase delle indagini preliminari, nel caso di circostanza aggravante, la mancata contestazione nell’imputazione originaria risulterebbe irreparabile, essendo la medesima insuscettibile di formare oggetto di un autonomo giudizio penale (Sez. 2, 45298/2015).

La contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all’art. 517 possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari (SU, 4/2009).

Dal momento che il PM, nel vigente sistema processuale, detiene il ruolo di dominus esclusivo dell’azione penale, ne consegue che il giudice del dibattimento non può esercitare alcun sindacato preventivo sull’ammissibilità di contestazioni modificative (fatto diverso) o aggiuntive (fatto nuovo), effettuate ai sensi degli articoli 516 e 517.

A conferma di tale principio è sufficiente osservare che l’art. 517 stabilisce esclusivamente che il PM “contesta all’imputato” il reato connesso o la circostanza aggravante emersa dagli atti del dibattimento, senza prevedere alcun potere di intervento per l’organo giudicante, come fa invece l’art. 518 con riferimento alla contestazione di un fatto nuovo, stabilendo che il presidente del collegio “può autorizzarla”. D’altronde, al riguardo, siffatte attività possono essere compiute entro la chiusura del dibattimento, eventualmente interrompendo anche la discussione finale (Sez. 3, 29877/2018).

Ai fini della contestazione di una circostanza aggravante non è indispensabile una formula specifica espressa con enunciazione letterale, né l’indicazione della disposizione di legge che la prevede, essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l’imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la propria difesa sugli elementi di fatto integranti la stessa aggravante (Sez. 1, 51260/2017).

È illegittima la modifica dell’imputazione effettuata dal PM nel corso dell’udienza mediante correzione del capo di imputazione formulato nel rinvio a giudizio, in quanto il PM, a norma degli articoli 516 e 517, è titolare del solo potere di integrare l’accusa, mentre non può procedere autonomamente alla correzione o riqualificazione delle condotte, potere che spetta al giudice, il quale con la sentenza deve fornire adeguata motivazione sulle questioni di fatto e di diritto concernenti la sussistenza o meno della fattispecie (Sez. 2, 18617/2017).

Deve ritenersi che non vi sia violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza allorquando il giudice di appello muti nella sentenza il “nomen iuris” di un’aggravante, senza che ciò comporti una immutazione del fatto così come descritto nel capo di imputazione (Sez. 5, 18087/2018).

Deve escludersi che l’ordinanza del giudice che ha inibito la contestazione di un fatto “nuovo” effettuata dal PM rivesta i caratteri della abnormità. Ove infatti il giudice, erroneamente qualificando il fatto contestato dal PM come “fatto nuovo” non connesso ai sensi dell’art. 517, neghi l’autorizzazione alla nuova contestazione, in assenza dell’imputato, non per questo si determinerà una stasi del procedimento: si determinerà solo la impossibilità di celebrare il simultaneus processus, ma resterà salva la possibilità per il PM di esercitare separatamente l’azione penale.

Non così sarebbe, invece, qualora il giudice impedisse al PM di contestare una circostanza aggravante o il “fatto diverso”, perché in queste ipotesi  trattandosi del medesimo fatto contestato  non sarà possibile  per il principio del “ne bis in idem” enunciato dall’art. 649 (c.d. “divieto di nuovo giudizio”)  un nuovo e separato esercizio dell’azione penale e il giudicato sul fatto originariamente contestato precluderà un nuovo esercizio dell’azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pure diversamente descritto (Sez. 6, 11399/2018).

Ove a taluni dei corrissanti venga contestato il solo reato di lesioni, il giudice chiamato a delibare sul punto non può, all’esito del giudizio, restituire gli atti al PM, ritenendo che le lesioni si iscrivano in un quadro più complesso, rappresentato dalla rissa aggravata, ma deve pronunciarsi sull’imputazione, salva la facoltà di disporre, inoltre, la trasmissione degli atti al PM perché iscriva un autonomo procedimento per rissa.

Diversamente operando si determinerebbe una indebita regressione del procedimento per lesioni personali, quale conseguenza di un atto abnorme, posto che al giudice è data facoltà di far regredire il procedimento quando ravvisi, nel fatto contestato, un reato diverso, e non già quando ravvisi l’esistenza di reati ulteriori, concorrenti con quello sub iudice.

Nella specie, la connessione tra la rissa e le lesioni personali avrebbe autorizzato il PM a elevare contestazione suppletiva, ex art. 517; non essendo ciò avvenuto, il giudice doveva decidere sulle lesioni contestate, senza facoltà di far regredire il procedimento alla fase delle indagini (Sez. 5, 5374/2018).

Gli artt. 516 e 517 non consentono di sanare la nullità del decreto che dispone il giudizio, ove sia stata ritualmente dedotta, e di evitare la regressione del processo “allo stato o grado in cui è stato compiuto l’atto nullo”, secondo il dettato dell’art. 185 capoverso. Nell’ipotesi di dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio il procedimento deve necessariamente regredire allo stato nel quale essa si è verificata: l’udienza preliminare; in tal caso, gli atti debbono essere trasmessi al GIP perché provveda alla rinnovazione dell’atto nullo previa fissazione dell’udienza, a norma degli artt. 418 e ss. (Sez. 4, 7785/2016).

Nel caso di nuove contestazioni dibattimentali non possono essere utilizzate dal giudice quale prova della colpevolezza dell’imputato le dichiarazioni accusatorie della persona offesa della quale non sia stato disposto l’esame successivamente alla formulazione dell’accusa suppletiva.

Infatti, a seguito della contestazione in udienza di un nuovo fatto-reato e della conseguente introduzione di una nuova “causa petendi” contro l’imputato in un procedimento già in corso per altra imputazione, la fase della istruzione dibattimentale relativa alla nuova accusa è quella che si apre successivamente alla formulazione della contestazione suppletiva, con la conseguenza che le precedenti dichiarazioni della persona offesa non possono essere considerate “legittimamente acquisite nel dibattimento”, come prescritto dall’art. 526 in tema di prove utilizzabili ai fini della deliberazione (Sez. 6, 1327/1996).

In senso contrario: nel caso di contestazione suppletiva di reato connesso, le prove acquisite precedentemente nel corso dell’istruzione dibattimentale sono legittimamente utilizzabili anche ai fini della decisione relativa ai fatti oggetto della nuova contestazione (Sez. 6, 39235/2011).

Nel caso in cui il PM proceda, sulla base di una fonte dichiarativa, a contestare all’imputato un reato concorrente ai sensi dell’art. 517, tali dichiarazioni possono essere legittimamente utilizzate dal giudice per la decisione qualora il difensore si sia limitato a prendere atto della contestazione suppletiva, senza chiedere, ai sensi dell’art. 519, commi 2 e 3, di effettuare un controesame della fonte dichiarativa specificamente relativo all’oggetto della suddetta contestazione (Sez. 3, 47666/2014).

L’irritualità della contestazione suppletiva comporta una nullità a regime intermedio, che deve essere eccepita entro la definizione del giudizio di secondo grado (Sez. 4, 19043/2017).