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Art. 521 - Correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza

1. Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica.

2. Il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518 comma 2.

3. Nello stesso modo il giudice procede se il pubblico ministero ha effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli articoli 516, 517 e 518 comma 2.

Rassegna giurisprudenziale

Correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (art. 521)

È abnorme il provvedimento con cui il giudice, in relazione ad un fatto nuovo accertato in dibattimento, non si limiti ad ordinare la trasmissione degli atti al PM relativamente a tale fatto ulteriore ed autonomo, ai sensi dell'art. 521, comma 2, ma determini la regressione dell'intero procedimento, senza pronunciarsi in ordine al fatto originariamente contestato (Sez. 4, 20436/2021).

Sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 521 qualora, con riguardo al reato di furto di energia elettrica, sia contestata l'aggravante ad effetto speciale della violenza sulle cose per avere manomesso il contatore e, poi, accertata l'inesistenza della manomissione, sia ritenuta in sentenza la medesima aggravante sub specie di uso di mezzo fraudolento, poiché si configura un'ipotesi di fatto diversamente circostanziato (Sez. 5, 19937/2021).

Il giudice di ultima istanza ha il potere di procedere ex officio alla riqualificazione giuridica del fatto, senza necessità di consentire all’imputato di interloquire sul punto allorquando, nel ricorso presentato dallo stesso, tale eventualità sia stata espressamente presa in considerazione, ancorché per sostenere la diversità del fatto da quello contestato (Sez. 2, 6992/2019).

È violato l’art. 6 paragrafi 1 e 3 CEDU allorché il giudice muti la qualificazione giuridica del fatto senza che tale modifica sia prevedibile e senza che l’accusato sia stato messo in condizione di difendersi in contraddittorio dalla differente contestazioneA fronte di tale violazione, può essere considerato un rimedio appropriato accordare all’interessato un nuovo processo o la riapertura del procedimento a sua richiesta (fattispecie in cui l’imputato, condannato in primo e secondo grado per corruzione, ricorre per cassazione chiedendo alla Corte di dichiarare l’avvenuta estinzione del reato per prescrizione; la Corte di cassazione, tuttavia, riqualifica il fatto come corruzione in atti giudiziari ed esclude la causa estintiva) (Corte EDU, Sez. 2, sentenza dell’11.2.2007, Drassich c. Italia). L’obbligo di informare l’accusato dell’eventualità che la qualificazione giuridica del fatto contestato possa subire mutamenti, sancito dall’art. 6 paragrafi 1 e 3 CEDU, non è soggetto a particolari vincoli di forma, contando esclusivamente che l’accusato stesso ne abbia consapevolezza, quale che sia il modo in cui l’abbia ottenuta. Non è indispensabile, ai fini dell’osservanza delle regole del giusto processo, che l’accusato partecipi personalmente al giudizio in cui si decide l’accusa riqualificataÈ infatti sufficiente che costui abbia disposto del tempo occorrente per preparare la sua difesa, che abbia avuto la possibilità di presentare memorie e che il suo difensore abbia partecipato al giudizio. Caratteristiche, queste, tanto più soddisfacenti nell’ambito del giudizio di legittimità che si limita a prendere in considerazione questioni di diritto senza entrare nel merito del fatto (Corte EDU, Sez. 1, sentenza del 22.2.2018, Drassich c. Italia). L’art. 521 enuncia al primo comma il principio riassumibile nel brocardo latino iura novit curia, in base al quale il giudice, nella sentenza, può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la propria competenza o non sia affidato alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale anziché monocratica. Al fine di tutelare il diritto di difesa dell’imputato, però, il secondo comma dell’art. 521 impone al giudice che accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio (ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2) di pronunciare un’ordinanza con cui dispone trasmettersi gli atti al PML’art. 518 invece considera l’ipotesi dell’emersione nel corso del processo di un fatto nuovo a carico dell’imputato, non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e perseguibile d’ufficio, prevedendo che in tal caso si proceda nelle forme ordinarie, salva l’autorizzazione alla contestazione suppletiva con il consenso dell’imputato e purché non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti. La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che per «fatto nuovo», regolato dall’art. 518, si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendum, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo. Invece, per «fatto diverso», considerato dal comma 2 dell’art. 521, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato. Sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali, così da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria capace di impedire o menomare il diritto di difesa dell’imputato; occorre quindi una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. La Corte non ritiene che nella fattispecie si possano invocare i principi della c.d. sentenza Drassich (Corte EDU, Sez. 2, 25575/2007, Drassich c. Italia), che mirano a tutelare l’imputato dal disorientamento difensivo procurato anche dalla mera riqualificazione giuridica del fatto storico contestato. Secondo tale importante arresto della Corte europea, il diritto ad essere informato comprende anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati e pertanto, alla luce di un’interpretazione sistematica delle lett. a) e b) dell’art. 6, par. 3, CEDU, quando il diritto nazionale preveda la possibilità di attribuire ai fatti contestati all’imputato una diversa qualificazione giuridica, l’imputato deve essere informato di tale qualificazione giuridica in tempo utile per poter esercitare i diritti di difesa riconosciuti dalla CEDU in modo concreto ed effettivo; secondo la Corte il mezzo più appropriato per rimediare a tale violazione è la riapertura del processo. Questa Corte ha pertanto adeguato la sua giurisprudenza a tali principi affermando che nel giudizio di legittimità, il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non può avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, imponendo, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesa. La giurisprudenza di questa Corte ha però in varie prospettive circoscritto la portata del principio. Da un lato, ha escluso che esso valga allorché la riqualificazione operi in bonam partem, ossia a favore dell’imputato non ravvisando in tal caso alcun obbligo di preventiva informazione all’imputato per consentirgli l’esercizio del diritto al contraddittorio. D’altro canto, ha ritenuto allorché la riqualificazione giuridica del fatto sia stata espressamente richiesta dal PM, l’omessa informazione all’imputato da parte del giudice della eventualità che il fatto contestatogli possa essere diversamente definito non comporta violazione dell’art. 6 così come interpretato dalla Corte EDUInfine il principio è stato confinato nei soli ambiti che non consentono all’imputato di rielaborare la propria linea difensiva, sostenendo che la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio; ed inoltre che l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere è assicurata anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione. Il più recente orientamento di questa Corte esclude che vi sia una lesione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, laddove la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, ovvero non abbia portato ad una concreta menomazione della difesa sui profili di novità da essa scaturiti, anche nei casi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per sé prevedibile per l’imputatoLa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, pur nella estrema varietà degli accenti dovuta al suo tipico intervento casistico, ha spesso escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, censurando, in concreto, le ipotesi in cui la riqualificazione dell’addebito avesse assunto le caratteristiche di atto a sorpresa. Accanto a ciò, la stessa Corte non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non fossero vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato fossero già presenti nella originaria imputazione: e ciò, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per sé prevedibile per l’imputato. La violazione, dunque – secondo la impostazione tutt’altro che formalistica della Corte di Strasburgo – deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti (sul punto, SU, 31617/2015).

Ai fini della valutazione circa la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, è necessario adottare un concetto ampio di imputazione, che non si limiti al dato letterale, ma ricomprenda tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongano l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito. La violazione è esclusa laddove l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi; il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità di effettiva difesa. Va infine ricordato come non sia ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione, quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa. La contestazione poi non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti, che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (si veda Sez. F, 43481/2012). In tal senso, dunque, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’oggetto della contestazione (Sez. 5, 21226/2017) (la riassunzione complessiva si deve a Sez. 5, 39486/2018).

È pacifico che, contestato il nucleo centrale del fatto circostanziato, anche la Corte di Cassazione possa procedere a qualificare diversamente lo stesso fatto, con rinvio alla Corte di Appello per consentire il pieno contraddittorio di merito in conseguenza di tale riqualificazione (Sez. 4, 2340/2018).

La contestazione non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 5, 51248/2014).

Il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato solo quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, ma di eterogeneità (Sez. 4, 34842/2018).

La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza si realizza e si manifesta solo attraverso un’alterazione radicale della fattispecie ritenuta in sentenza nel senso di una radicale trasformazione della fattispecie concreta rispetto a quella contestataSolo qualora non si rivenga nella fattispecie ritenuta in sentenza un nucleo comune, identificativo della condotta capace di determinare uno stravolgimento dei termini dell’accusa, si determina la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e la conseguente nullità della sentenza (SU, 36551/2010).

L’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. 5, 29216/2018).

L’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del PM, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521, neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, comma 2, Cost., e dell’art. 6 CEDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. 3, 39052/2018).

Le Sezioni unite hanno riconosciuto che, nell’udienza preliminare, il giudice può sollecitare il PM ad integrare l’imputazione che si riveli generica e indeterminata, ricorrendo, analogicamente, all’art 521 comma 2 (SU, 5307/2008), tuttavia deve escludersi che possa farsi ricorso alla norma citata in presenza di una diversa qualificazione giuridica del fatto. In questo caso, infatti, il GUP deve seguire i percorsi imposti dall’art. 425, anche per consentire al PM di ricorrere per cassazione contro una decisione non condivisa (Sez. 6, 29855/2012).

In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, 51516/2013).

Non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se l’affermazione di responsabilità per il reato si fonda su diverse possibili alternative condotte colpose, ciascuna delle quali avente efficienza causale in relazione all’evento, allorché l’imputato sia stato posto in condizione di esercitare i diritti di difesa in merito alle diverse ipotesi ricostruttive. È quindi esente da censure la decisione che ha affermato la responsabilità dell’imputato per omicidio colposo, commesso in violazione delle norme sulla circolazione stradale, essendo emerse nel corso del giudizio due diverse possibili modalità di causazione dell’evento, di cui l’imputato era a conoscenza ed in relazione alle quali aveva potuto svolgere le proprie difese (Sez. 4, 19028/2017).

La data del commesso reato è elemento che può essere precisato nel corso del procedimento, ai sensi dell’art. 521 e che, ove non specificamente indicato nell’imputazione, non determina comunque, alcuna compressione dei diritti di difesa. Ciò in quanto si tratta di un elemento accessorio del fatto, che non riguarda il nucleo sostanziale dell’addebito e non reca pregiudizio al diritto dell’imputato di individuare, con esattezza, quanto contestatogli. La precisazione della data del commesso reato non costituisce modifica sostanziale dell’imputazione, in quanto non tocca il nucleo sostanziale dell’addebito, così da non incidere sulla possibilità di individuazione del fatto, da parte dell’imputato e sul conseguente esercizio del diritto di difesa (Sez. 5, 54529/2018).

L’art. 314 comma 3 che espressamente equipara alla sentenza assolutoria di merito il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere, ma non menziona il provvedimento (ordinanza) adottato dal giudice ai sensi dell’art. 521 comma 2. Deve pertanto affermarsi il principio secondo cui l’ordinanza con la quale il giudice dispone la trasmissione degli atti al PM se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518 comma 2, non è equiparabile alla sentenza irrevocabile di proscioglimento, al provvedimento di archiviazione o alla sentenza di non luogo a procedere ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 315 comma 1 (Sez. 4, 9201/2018).

Sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui il giudice di appello, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado dal reato di inosservanza delle modalità esecutive previste dal permesso di costruire in zona vincolata, condanni l'imputato per il reato di esecuzione di lavori in assenza del premesso di costruire nella medesima zona, trattandosi di fatto significativamente e sostanzialmente diverso da quello contestato con l'originaria imputazione, con conseguente difetto della concreta possibilità di esercizio dei correlati poteri difensivi dell'imputato (Sez. 3, 21171/2020).