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Art. 568 - Regole generali

1. La legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati.

2. Sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’articolo 28.

3. Il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce. Se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse.

4. Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse.

4-bis. Il pubblico ministero propone impugnazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato solo con ricorso per cassazione.

5. L’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta. Se l’impugnazione è proposta a un giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente.

Rassegna giurisprudenziale

Regole generali (art. 568)

Atti impugnabili e principio di tassatività

In tema di impugnazioni, allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l'atto deve limitarsi, a norma dell'art. 568 co. 5, a verificare l'oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l'esistenza di una voluntas impugnationis, consistente nell'intento di sottoporre l'atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi a trasmettere gli atti al giudice competente, senza essere tenuto, ai fini di valutare l'ammissibilità dell'impugnazione, ad esaminare l'atto per accertare se la parte impugnante abbia voluto effettivamente esperire il mezzo di gravame non consentito dalla legge (Sostiene la Corte che tale lettura interpretativa appare la più coerente alla lettera e alla ratio della norma contenuta nel comma 5 dell'art. 568, il cui incipit stabilisce testualmente che "L'impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l'ha proposta", senza distinguere se l'erronea qualificazione attribuita costituisca oggetto di un refuso o di una consapevole - quanto processualmente errata - determinazione della parte impugnante) (Sez. 1, 2884/2022).

Non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis Cod. pen (SU, 20569/2018).

Nel sistema del codice di procedura penale, atti del giudice suscettibili di impugnazione sono solo i provvedimenti, come si evince, in particolare, dagli artt. 568 e 591. Di conseguenza, non può ritenersi in alcun modo impugnabile un interrogatorio di garanzia, quand’anche lo stesso sia affetto da nullità assoluta ed insanabile, poiché lo stesso costituisce atto, ma non provvedimento del giudice (Sez. 6, 37606/2018).

Contro il provvedimento del GIP che dispone la trasmissione degli atti al PM, dichiarando la nullità della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, sul presupposto dell’irrituale emissione del decreto di irreperibilità degli stessi, non è prevista alcuna impugnazione sicché, in applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, il ricorso per cassazione del PM deve essere dichiarato inammissibile (Sez. 2, 38490/2018).

In virtù del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, il PM non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione avverso le ordinanze che respingono la domanda cautelare o che dispongono una misura limitativa della libertà personale meno afflittiva rispetto a quella originariamente richiesta (Sez. 5, 40125/2018).

Il ricorso per cassazione avverso il rigetto di una richiesta di decreto penale di condanna è ammissibile solo in caso di abnormità dell’atto, configurabile allorché la decisione si fondi non su profili di legittimità del rito o di idoneità ed adeguatezza della pena, con riferimento al caso concreto, ma su generiche ragioni di opportunità, concernenti la natura dell’istituto e la sua efficaci (Sez. 4, 38012/2018).

È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui il giudice, che non accolga la richiesta di archiviazione, disponga la formulazione dell’imputazione ovvero nuove indagini, nell’ipotesi di omessa notifica all’indagato dell’avviso dell’udienza camerale fissata ex art. 409, essendo l’impugnazione prevista solo nei confronti dell’ordinanza di archiviazione e solo per i particolari casi di nullità previsti dall’art. 409, comma 6 (Sez. 5, 32427/2018).

È inammissibile il ricorso per cassazione contro il provvedimento del GIP con il quale sono state disposte ulteriori indagini (Sez. 7, 19719/2016).

L’art. 568 comma 5 si applica anche in materia di patrocinio a spese dello Stato per cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione che è data dalla parte ed il giudice incompetente ha l’onere di trasmettere gli atti a quello incompetente (Sez. 4, 429/2019).

Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricorrendo le altre condizioni, è ammissibile anche quando non contenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili, discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576 (SU, 6509/2013).

L’ordinanza che provvede sulla richiesta di giudizio abbreviato ex art. 458 (sia nel caso di diniego che di concessione o ancora di revoca) non è impugnabile, nemmeno sotto il profilo dell’abnormità, atteso il principio di tassatività dei mezzi d’ impugnazione previsto dall’ art. 568. L’illegittimo diniego del giudizio abbreviato trova infatti un suo rimedio specifico all’interno dell’ordinamento attraverso il recupero della diminuzione di un terzo della pena all’esito del dibattimento qualora, appunto, il giudice accerti l’irritualità del rigetto della richiesta di giudizio abbreviato (Sez. 5, 40111/2018).

L’art. 568, comma 2 dispone che sono sempre soggette a ricorso per cassazione le sentenze salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28. Ne consegue che avverso la sentenza con la quale, ai sensi dell’art. 24, comma 1, il giudice di appello, riconosciuta l’incompetenza del primo giudice per qualsiasi causa annulla la sentenza di primo grado ed ordina la trasmissione degli atti al PM, è inammissibile il ricorso per cassazione (Sez. 2, 41470/2018).

A norma dell’art. 568 comma 2, “sono sempre soggetti a ricorso per cassazione quando non sono altrimenti impugnabili i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28”. La disposizione esprime una netta opzione regolatrice e dimostra che il sistema processuale non consente, per il principio di tassatività dei mezzi di gravame, l’immediata ricorribilità alla Corte di cassazione delle pronunce che decidono sulla competenza del giudice adito e dispongono la trasmissione degli atti a quello reputato competente: non essendo previsto alcun mezzo preventivo per regolare la competenza mediante un intervento immediato della Suprema Corte, questa potrà essere chiamata a pronunciarsi sulla questione soltanto se investitane mediante proposizione di conflitto quando sia emerso un effettivo contrasto di determinazioni assunte da due o più autorità giudiziarie che intendano prendere o rifiutare di prendere cognizione dello stesso fatto di reato ascritto al medesimo imputato (Sez. 1, 7246/2018).

Se in seguito a una nuova contestazione, il reato risulta tra quelli attribuiti alla cognizione del tribunale per cui è prevista l’udienza preliminare e questa non si è tenuta, il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al PMDunque correttamente opera in questo senso la Corte d’appello, la quale, per consentire al PM di adottare le determinazioni di competenza in ordine al delitto di omicidio colposo senza alcuna preclusione, annulla la sentenza di primo grado, relativa al reato di lesioni colpose. Quest’ultimo, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, è da ritenersi assorbito dal reato di omicidio colposo, trattandosi di progressione criminosa. Ne deriva che il provvedimento, non essendo abnorme, è inoppugnabile, in omaggio al principio di tassatività delle impugnazioni di cui all’art. 568, comma 1 (Sez. 4, 39173/2018).

La richiesta dell’amministratore giudiziario di liquidazione dei compensi per l’attività prestata a favore della società, i cui beni aziendali siano stati sottoposti alla misura del sequestro preventivo con conferimento all’amministratore giudiziario del compito di amministrarli, si inquadra in quelle attività di natura privatistica concernenti le vicende e la gestione dei beni sequestrati sottoposti ad amministrazione ex art. 104-bis Att. Tale norma stabilisce che, nel caso in cui il sequestro preventivo abbia per oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l’amministrazione, esclusi quelli destinati ad affluire nel Fondo unico giustizia, si applicano le disposizioni di cui al libro I, titolo III, del codice di cui al D. Lgs. 159/2011. L’art. 35 di tale decreto attribuisce in particolare all’amministratore giudiziario “il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi”, nel rispetto delle indicazioni provenienti dal giudice delegato, al quale il comma 1 del successivo art. 40 attribuisce il compito di impartire “le direttive generali dei beni sequestrati”. L’art. 42 del decreto (Disciplina delle spese, dei compensi e dei rimborsi) stabilisce inoltre che le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei beni sono sostenute dall’amministratore giudiziario mediante prelevamento dalle somme riscosse a qualunque titolo ovvero sequestrate, confiscate o comunque nella disponibilità del procedimento. L’art. 40 del decreto legislativo prevede infine che ogni interessato ha la possibilità di assoggettare a reclamo, innanzi al giudice delegato, gli atti dell’amministratore giudiziario che siano stati posti in essere in violazione del decreto stesso. In ordine ai provvedimenti adottati dal giudice delegato, si è affermato in materia di misure di prevenzione che i suddetti provvedimenti, in assenza di disposizioni normative, non sono autonomamente impugnabili, in considerazione del principio di tassatività di cui all’art. 568, essendo tuttavia consentita l’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione (Sez. 5, 11426/2016). Nel caso di specie, non pare che possa esservi alcun dubbio sul fatto che il provvedimento sollecitato dal ricorrente fosse attinente alla mera gestione del complesso dei beni in sequestro (trattandosi di debito relativo alla gestione della società sorto durante la amministrazione affidata ex art. 104-bis Att.) e, quindi, sia da considerare atto di ordinaria amministrazione e quindi impugnabile mediante opposizione ai sensi dell’art. 666, comma 4. Ne consegue quindi che il ricorso per cassazione va convertito in opposizione con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale competente in funzione di giudice dell’esecuzione (Sez. 6, 22843/2018).

In tema di sequestro di beni disposto nell’ambito di un procedimento di prevenzione, sono inoppugnabili i provvedimenti del giudice delegato alla procedura, nominato ai sensi dell’art. 2 “sexies”, comma 1, della L. 575/1965, mancando una espressa disposizione che preveda mezzi di impugnazione e non essendo applicabile in via analogica, per il principio di tassatività di cui all’art. 568, il gravame previsto nella materia fallimentare, non richiamata quanto ai mezzi di impugnazioneÈ tuttavia consentita l’opposizione allo stesso giudice nelle forme dell’incidente di esecuzione, per evitare disparità di trattamento con la disciplina dettata dalla legge fallimentare che prevede la possibilità di reclamo per i provvedimenti emessi dall’omologo organo della procedura fallimentare e tenuto conto del principio generale per il quale contro provvedimenti sfavorevoli non altrimenti impugnabili è ammesso l’uso, nei limiti suoi propri, dell’incidente di esecuzione (Sez. 5, 24663/2018).

Soggetti ad impugnazione sono soltanto i provvedimenti del tribunale che dispongono la confisca dei beni sequestrati, l’applicazione, il diniego o la revoca del sequestro, il rigetto della richiesta di confisca anche qualora non sia stato precedentemente disposto il sequestro ovvero la restituzione della cauzione o la liberazione delle garanzie o la confisca della cauzione o l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia (art. 27, comma 2, D.Lgs. 159/2011). Sono, invece, inoppugnabili i provvedimenti del giudice delegato alla procedura, mancando una espressa disposizione che preveda mezzi di impugnazione e non essendo applicabile in via analogica, per il principio di tassatività di cui all’art. 568, il gravame previsto nella materia fallimentare, non richiamata quanto ai mezzi di  impugnazione. Tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità si è consolidato negli ultimi anni un indirizzo per cui, avverso i provvedimenti del giudice delegato sulle istanze del proposto volte a conseguire un sussidio alimentare e ad ottenere il riconoscimento del diritto di abitare l’immobile sottoposto a sequestro, è consentita, nei casi da ultimo indicati, l’opposizione allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento nelle forme dell’incidente di esecuzione. Ciò per evitare disparità di trattamento con la disciplina dettata dalla legge fallimentare che prevede la possibilità di reclamo per i provvedimenti emessi dall’omologo organo - della procedura fallimentare e tenuto conto del principio generale per il quale contro provvedimenti sfavorevoli non altrimenti impugnabili è ammesso l’uso, nei limiti suoi propri, dell’incidente di esecuzione (Sez. 1, 6325/2015). Senza volersi porre in contrasto con il citato indirizzo, si vuole adesso affermare che i provvedimenti adottati dal giudice delegato nel procedimento di prevenzione, ai sensi dell’art. 40, comma 1, D.Lgs. 159/2011 (direttive generali della gestione dei beni sequestrati impartite dal giudice delegato), non sono autonomamente impugnabili, in considerazione del principio di tassatività di cui all’art. 568 e avverso gli stessi non è neanche consentita (a differenza dei provvedimenti previsti dal comma secondo del citato art. 40) l’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione. Il principio enunciato sembra trovare un certo riscontro nella novella introdotta dalla L. 161/2017 che, all’art. 14, comma 1, lett. a, ha sostituito dell’art. 40 gli originari commi 1, 2, 3 e 4 con i commi 1, 2, 2-bis, 3, 3-bis, 3-ter, 3-quater e 4. Nel quadro di tale riforma, a conferma del principio generale oggi affermato dell’inoppugnabilità dei provvedimenti relativi alla gestione dei beni sequestrati, l’unica riconosciuta ipotesi di gravame riguarda gli atti dell’amministratore giudiziario compiuti in assenza di autorizzazione scritta del giudice delegato, avverso i quali «il pubblico ministero, il proposto e ogni altro interessato possono avanzare reclamo, nel termine perentorio di quindici giorni dalla data in cui ne hanno avuto effettiva conoscenza, al giudice delegato, che, entro i dieci giorni successivi, provvede ai sensi dell’articolo 127 del codice di procedura penale» (art. 40, comma 4). In definitiva, tenuto conto anche della recente novella, in tema di impugnabilità degli atti di gestione dei beni sequestrati devono distinguersi: - le direttive impartite dal giudice delegato all’amministratore giudiziario ai sensi dell’art. 40, comma 1, da ritenersi inoppugnabili; - i provvedimenti indicati nell’articolo 47, comma 1, Legge Fallimentare assunti dal giudice delegato, ai sensi dell’art. 40, comma 2: impugnabili con atto di opposizione al tribunale in composizione collegiale nelle forme dell’incidente di esecuzione; - gli atti dell’amministratore giudiziario compiuti in assenza di autorizzazione scritta del giudice delegato: impugnabili attraverso reclamo al giudice delegato (Sez. 1, 19460/2018).

Il ricorrente lamenta la violazione della disciplina di cui agli artt. 40 D. Lgs. 159/2011 e 47 RD 267/1947 (Legge fallimentare), che consente tanto al proposto quanto ai suoi familiari di continuare ad occupare la casa di proprietà sottoposta a sequestro di prevenzione, al fine di assicurare le necessità abitative degli stessi. Assume in particolare l’illegittimità dell’imposizione di una indennità, poiché la casa di abitazione resterebbe a disposizione del proposto e dei suoi familiari fino alla confisca, tenuto conto che, nella specie, il ricorrente si trova in condizioni di emergenza abitativa in quanto abita l’immobile in questione, non è titolare di altri beni ed è privo di reddito. Manca al riguardo una espressa disposizione che preveda l’impugnabilità del decreto del giudice delegato (vuoto che non viene colmato neppure dalla L. 161/2017, poiché il nuovo art. 40 comma 2-bis tace sulla sorte del provvedimento del tribunale chiamato a pronunciarsi in prima battuta); non può ritenersi applicabile in via analogica il regime impugnatorio previsto per l’omologo decreto del giudice delegato nel sistema delle procedure concorsuali, poiché l’art. 40 comma 2 si limita a richiamare l’art. 47 Legge fallimentare, senza includervi gli strumenti d’impugnazione; - nella specie viene in considerazione, non una modalità esecutiva della amministrazione del bene, che segue altre strade, ma la rivendicazione del diritto di esercizio pieno della proprietà in costanza di sequestro di prevenzione. Non è in discussione il quomodo ma l’an dell’affermato diritto dominicale nella sua massima estensione; occorre rinvenire nel sistema uno strumento che consenta una tutela del diritto soggettivo sino al grado di legittimità; - l’unica forma di contestazione proponibile è quella di cui all’art. 666 comma 6, che non ha natura di mezzo di impugnazioneOpera quindi il potere-dovere del giudice di riqualificare correttamente, ai sensi del comma 5 dell’art. 568, come opposizione all’esecuzione il ricorso erroneamente proposto ai sensi dell’art. 737. Se è vero, come detto, che l’opposizione ai provvedimenti del giudice dell’esecuzione non ha natura di mezzo di impugnazione «è altrettanto vero che la norma che sancisce l’ammissibilità della impugnazione indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte che l’ha proposta costituisce espressione di un più ampio principio, in base al quale spetta al giudice dare l’esatta qualificazione dell’atto sottoposto al suo esame. Si tratta invero di un criterio di carattere generale, che deve conseguentemente trovare applicazione anche in relazione a quegli atti di parte che, pur non essendo qualificabili impugnazioni in senso stretto, siano comunque diretti ad ottenere rimedio a determinate situazioni, cioè ad ottenere - in contraddittorio - una decisione favorevole al proponente» (SU, 48126/2017) (excursus dovuto a Sez. 5, 13832/2018).

In tema di impugnazione delle misure di prevenzione, anche a seguito dell’entrata in vigore del D. Lgs. 159/2011 (cosiddetto “codice antimafia”) avverso i provvedimenti di sequestro e di reiezione dell’istanza di revoca del sequestro - disposti nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa - è ammessa solo l’opposizione, innanzi allo stesso giudice, nelle forme dell’incidente di esecuzione e non anche il ricorso per cassazione. Dal combinato disposto del D. Lgs. artt. 10 e 27, si desume infatti che sono soggetti al ricorso, anche nel merito, davanti alla corte di appello, i provvedimenti con i quali il tribunale dispone: a) la confisca dei beni sequestrati; b) la revoca del sequestro; c) la restituzione della cauzione; d) la liberazione delle garanzie; e) la confisca della cauzione; f) la esecuzione sui beni costituiti in garanzia. Quindi, stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’impossibilità del ricorso all’interpretazione analogica, non sono soggetti ad alcuna impugnazione né il sequestro né la reiezione dell’istanza di revoca del sequestro. È opportuno tenere presente che con la L. 161/2017, entrata in vigore in epoca successiva alla proposizione del presente ricorso, l’articolo 27 del D. Lgs. 159/2011 è stato parzialmente modificato nel senso che è stato ampliato l’ambito dei provvedimenti appellabili, prevedendo l’appello anche per i provvedimenti con cui viene applicato, negato o revocato il sequestro. Ma il rigetto della revoca del sequestro per decorso del termine non è espressamente previsto tra i detti provvedimenti appellabili. Continuano quindi a trovare applicazione i seguenti principi di diritto: i provvedimenti di reiezione dell’istanza di revoca del sequestro adottati nel corso della procedura di prevenzione nei confronti del proposto, sono inoppugnabili; l’unico rimedio contro il relativo decreto è l’opposizione, da proporre con la forma dell’incidente di esecuzione; - il ricorso per cassazione, erroneamente proposto, va convertito, ex art. 568 nell’incidente di esecuzione (Sez. 2, 4729/2018).

In tema di misure cautelari reali, al terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, viene riconosciuta la facoltà di chiedere allo stesso giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, di proporre appello dinanzi al tribunale del riesame ai sensi dell’art. 322-bis, non trovando applicazione il principio generale della impugnabilità dell’ordinanza unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, posto che il terzo, in quanto tale, non è legittimato a proporre impugnazione avverso tale sentenza (SU, 48126/2017).

Non può essere impugnata autonomamente l’ordinanza di correzione di errore materiale, avulsa dalla sentenza motivata e resa pubblica. E ciò, innanzitutto per il principio generale di cui all’art. 586, da interpretare estensivamente, come inclusivo di un’ordinanza che, pur successiva al dibattimento, resta accessoria ad un provvedimento principale, qual è la sentenza, assolvendo mera funzione integrativa e come tale, non dotata, quindi, di contenuto autosufficiente e di vita processuale autonoma (Sez. 3, 7022/2018).

Non è impugnabile il provvedimento di revoca dell’ordine di demolizione di un’opera abusivamente realizzata. La demolizione delle opere edilizie abusive non configura una sanzione penale (neppure accessoria) ma deve qualificarsi come sanzione amministrativa, eccezionalmente attribuita alla competenza concorrente dell’AG penale, che rappresenta in realtà solo un rafforzamento di quella autonomamente adottata dall’autorità amministrativa. E, dunque, la demolizione del manufatto rimane comunque affidata in via primaria alla competenza dell’ente amministrativo (Sez. 3, 7022/2018).

Non sono impugnabili nell’ordinamento interno, neanche ai sensi degli artt. 111, comma 7, Cost. e 568, comma 2, il MAE emesso dall’AG italiana nella procedura attiva di consegna (artt. 28, 29 e 30 della L. 69/2005) ed il provvedimento emesso (eventualmente in forma di MAE) dalla stessa autorità nella procedura di estensione attiva della consegna di cui agli artt. 32 e 26 della legge sopra citata, potendo i loro eventuali vizi essere dedotti solo nello Stato richiesto, qualora incidano sulla procedura di sua pertinenza, e secondo le regole, le forme ed i tempi previsti nel relativo ordinamento (SU, 30769/2012).

 

Legittimazione soggettiva e oggettiva all’impugnazione

Il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento non può essere personalmente proposto dalla parte, ma deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione (SU, 8914/2018).

Gli eredi dell’imputato deceduto e per il quale è stata pronunciata sentenza di estinzione per morte del reo non hanno titolo ad agire richiedendo al giudice dell’esecuzione, formatosi il giudicato, l’estensione dell’impugnazione e quindi della sentenza assolutoria pronunciata nei confronti dei coimputati del prossimo congiunto decedutoÈ infatti incontroverso che prossimi congiunti ed eredi non possano proporre impugnazione contro la sentenza che ha dichiarato l’estinzione per morte del reo, e ciò perché, se è vero che il decesso dell’imputato nel corso del procedimento non impedisce - a norma dell’art. 129 - la pronuncia nel merito se dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, quando la morte sia stata già dichiarata, nessun rimedio può essere processualmente proposto da terzi. Osta al riconoscimento della legittimazione ad impugnare la previsione dell’art. 568, comma 3, secondo cui il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce. Se, pertanto, gli eredi non sono titolari del diritto di impugnazione che spettava al de cuius, perché diritto personalissimo intrasmissibile iure hereditatis e quindi proprio “di colui al quale la legge espressamente lo conferisce”, giocoforza non possono essere legittimati ad attivare il procedimento di esecuzione al fine di ottenere ciò che non avrebbero potuto chiedere prima della formazione del giudicato. Il difetto di legittimazione non viene meno neanche considerando che gli eredi possono avere interesse ad una pronuncia assolutoria nel merito per far valere iure proprio il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Va infatti ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza 413/2004, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità dell’articolo 314, comma 3, chiarendo che “va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per ‘morte del reo’, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato”. Il principio di diritto vale all’evidenza a regolare anche i casi, come quello in esame, in cui, in luogo dell’archiviazione, è intervenuta una sentenza dichiarativa di estinzione per morte del reo (Sez. 1, 31087/2018).

È inammissibile il ricorso per cassazione proposto da un terzo, anche se prossimo congiunto di imputato deceduto, avverso la sentenza che dichiari non doversi procedere per la morte di quest’ultimo. Se è vero che il decesso dell’imputato nel corso del procedimento non impedisce - a norma dell’art. 129 - la pronuncia nel merito se dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, quando la morte sia stata già dichiarata, nessun rimedio può essere processualmente proposto da terzi. Ciò, sulla scorta della previsione dell’art. 568, comma 3, secondo cui il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce (Sez.  2, 11834/2018).

I provvedimenti sulla competenza che possono dare luogo a conflitti non sono impugnabili; appunto perché, avverso il provvedimento del giudice che nega la propria competenza solo un altro giudice che, a sua volta, nega la propria competenza e ritiene sussistere quella del primo giudice può sollevare conflitto ex art. 28 (Sez. 1, 28812/2018).

L’art. 568, comma 2 dispone che sono sempre soggette a ricorso per cassazione le sentenze salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28. Ne consegue che avverso la sentenza con la quale, ai sensi dell’art. 24, comma 1, il giudice di appello, riconosciuta l’incompetenza del primo giudice per qualsiasi causa annulla la sentenza di primo grado ed ordina la trasmissione degli atti al PM, è inammissibile il ricorso per cassazione (Sez. 2, 41470/2018).

Se in seguito a una nuova contestazione, il reato risulta tra quelli attribuiti alla cognizione del tribunale per cui è prevista l’udienza preliminare e questa non si è tenuta, il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al PMDunque correttamente opera in questo senso la Corte d’appello, la quale, per consentire al PM di adottare le determinazioni di competenza in ordine al delitto di omicidio colposo senza alcuna preclusione, annulla la sentenza di primo grado, relativa al reato di lesioni colpose. Quest’ultimo, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, è da ritenersi assorbito dal reato di omicidio colposo, trattandosi di progressione criminosa. Ne deriva che il provvedimento, non essendo abnorme, è inoppugnabile, in omaggio al principio di tassatività delle impugnazioni di cui all’art. 568, comma 1 (Sez. 4, 39173/2018).

Il principio di tassatività soggettiva previsto dall’art. 568 comma 3 impone di ritenere che, in mancanza di una espressa previsione attributiva, il potere di gravame non può essere esercitato dal vice procuratore onorario che ha presentato le conclusioni in udienzaL’art. 71 Ord. giud. infatti, consente di nominare, presso le procure della Repubblica presso i tribunali ordinari, magistrati onorari in qualità di vice procuratori per l’espletamento delle funzioni indicate nell’articolo 72 e delle altre ad essi specificamente attribuite dalla legge. L’art. 72 Ord. giud. prevede che le funzioni del PM possano essere svolte da vice procuratori nominati v quando siano muniti di delega nominativa del procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario, nel caso in cui si proceda per i reati a citazione diretta di competenza del tribunale monocratico  nell’udienza dibattimentale, nell’udienza di convalida dell’arresto nel giudizio direttissimo, per la richiesta di emissione del decreto penale di condanna ai sensi degli articoli 459, comma 1, e 565 ed in alcuni specifici procedimenti in camera di consiglio. Le norme dell’ordinamento giudiziario, pertanto, non prevedono che il procuratore possa delegare anche il potere di impugnazione (Sez. 2, 31779/2018).

 

Interesse all’impugnazione

La nozione di interesse a impugnare deve individuarsi in una prospettiva utilitaristica, costituita da una finalità negativa, consistente nell’obiettivo di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e da una finalità positiva, consistente nel conseguimento di un’utilità, vale a dire di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto dell’impugnazione, a condizione che la stessa sia logicamente coerente con il sistema processuale (SU, 6624/2012).

L’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (SU, 42/2006 e, più di recente, SU 6624/2012).

Sussiste l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula perché il fatto non costituisce reato, al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria perché il fatto non sussiste, considerato che, a parte le conseguenze di natura morale, l'interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare (Sez. 4, 15680/2022).

Nel sistema processuale penale la nozione di interesse a impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (In applicazione di detto principio la Corte ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto avverso il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto la richiesta di permesso per partecipare ad un evento familiare ormai verificatosi) (Sez. 3, 21182/2020).

Nel giudizio di appello  salvo il caso di inammissibilità dell’impugnazione  sussiste l’obbligo di dichiarazione immediata di estinzione del reato ove, medio tempore, sia maturato il termine di prescrizione, anche se con l’atto di appello siano stati proposti esclusivamente motivi inerenti al profilo circostanziale del fatto o la determinazione del trattamento sanzionatorio. L’istituto della formazione progressiva del giudicato riguarda, difatti, le pronunce della Corte di cassazione e non quelle di merito, per le quali opera il diverso istituto della preclusione processuale legata al principio di devoluzione. Ne deriva che - salvo il caso di impugnazione inammissibile - sussiste l’obbligo della immediata declaratoria delle cause di estinzione del reato, anche se l’impugnazione abbia avuto ad oggetto solo la determinazione della pena (Sez. 5, 1290/2019).

Qualora il giudice di appello abbia omesso di provvedere sulla richiesta di applicazione della continuazione, formulata con specifico motivo di impugnazione, sussiste l’interesse dell’imputato al ricorso per cassazione per la mancata pronuncia sul punto, non potendo il giudice d’appello esimersi da tale compito e ciò per l’evidente ragione che al principio devolutivo è coessenziale il potere-dovere del giudice del gravame di esaminare e decidere sulle richieste dell’impugnante: la possibilità di applicare la continuazione in sede di esecuzione ex art. 671 costituisce, infatti, ipotesi sussidiaria al potere di applicarla in sede di cognizione, non facendo venir meno l’obbligo del giudice, qualora richiesto, di decidere sul punto (Sez. 6, 57868/2018).

In tema di ricorso per cassazione avverso sentenza di applicazione della pena, difetta l'interesse dell'imputato ad impugnare la confisca del denaro provento del reato di cessione di sostanze stupefacenti, in quanto frutto di un negozio inesistente improduttivo di effetti giuridici, privo di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento: in altri termini, il condannato con sentenza di patteggiamento, con cui è stata disposta la confisca dei proventi del reato di cessione di stupefacenti, non ha diritto alla restituzione dì detti proventi, atteso che, pur non essendo prevista l'ablazione obbligatoria del profitto del reato in caso di patteggiamento, tali beni non sono mai entrati nel patrimonio dell'imputato, trattandosi del corrispettivo di una prestazione concernente un negozio contrario a norme imperative (Sez. 3, 18160/2021).

È inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione dell’imputato volta esclusivamente ad ottenere l’esclusione di una circostanza aggravante, quando la stessa sia già stata ritenuta subvalente rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti e i fatti posti a suo fondamento non siano stati in alcun modo valutati dal giudice in un’ottica di maggiore gravità dell’addebito, dovendo escludersi qualsiasi possibilità di effetti pregiudizievoli per l’imputato (Sez. 5, 51709/2018).

In tema di ricorso per cassazione, ai fini della sussistenza del necessario interesse ad impugnare da parte del PM, non è sufficiente la mera pretesa preordinata all’astratta osservanza della legge e alla correttezza giuridica della decisione, essendo invece necessario che sia comunque dedotto un pregiudizio concreto e suscettibile di essere eliminato dalla riforma o dall’annullamento della decisione impugnata (Sez. 5, 36036/2020).

Il procuratore della Repubblica può sempre proporre impugnazione, indipendentemente dal tenore delle conclusioni formulate nel procedimento dal rappresentante del PM e anche avverso la decisione che le abbia eventualmente accolte; ciò in quanto l’interesse della parte pubblica, ex art. 568, comma 4, attiene alla scelta da compiere dopo avere avuto piena conoscenza del provvedimento e in base a una valutazione complessiva, in vista del soddisfacimento di generali esigenze di giustizia (Sez. 1, 37364/2018).

Non sussiste interesse del PM ad impugnare la pronuncia di prescrizione di un reato abolito, emessa prima dell’abolizione, perché giuridicamente corretta e perché nessun pregiudizio la stessa è idonea ad arrecare all’imputato, trattandosi di pronuncia che non compare sul certificato penale e che non è destinata a fare stato nei giudizi civili e amministrativi (Sez. 4, 42579/2018).

È inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto qualora, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, sia maturata la causa estintiva del reato, salvo che emerga un interesse concreto dell’organo dell’accusa alla decisione rispondente a una ragione esterna al processo obiettivamente riconoscibile (Sez. 4, 6501/2021).

Il PM senz’altro può ricorre per cassazione per violazione di legge, ma alla base della richiesta di annullamento dell’atto impugnato vi deve essere pur sempre un interesse che legittimi l’esercizio del diritto di impugnazione, così come richiede l’art. 568 comma 4.

Questo in quanto la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso.

Ne consegue che la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a soddisfare una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto.

Pertanto, qualora il PM denunci, al fine di ottenere l’esatta applicazione della legge, la violazione di una norma di diritto formale, in tanto può ritenersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza, in quanto da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. 7, 42813/2018).

L’interesse del PM all’impugnazione di un’ordinanza del TDR che ha annullato un provvedimento cautelare non può dirsi venuto meno a seguito del consenso prestato all’applicazione di pena ex art. 444, subordinata alla concessione della sospensione condizionale.

La verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse è necessaria anche in relazione alla sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari, richiedendo l’art. 568, comma 4, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione) di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato.

La regola contenuta nel citato art. 568 è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame; né un tale interesse può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento (SU, 7931/2011).

Nella specie, risultano integrate le condizioni richieste dalle Sezioni Unite ai fini della configurabilità, in capo al PM ricorrente, di un interesse concreto ed attuale, ad ottenere la decisione della Corte di cassazione, tenuto conto che l’effetto pratico avuto di mira  consistente annullamento dell’ordinanza di annullamento della misura cautelare al fine di ottenere il ripristino della misura stessa  in questo momento è idoneo a prodursi poiché l’accordo ex art. 444 non è ancora stato recepito dal GIP (Sez. 5, 42620/2018).

L’interesse all’impugnazione proposta ex art. 310, quando essa abbia ad oggetto la custodia in carcere e contesti i gravi indizi di colpevolezza, come verificatosi nella specie, non viene meno per l’intervento nel frattempo della sostituzione dell’originaria misura, asseverando tale sostituzione la permanenza dei gravi indizi di colpevolezza che l’impugnazione aveva inteso contestare al fine di ottenere la completa liberazione da restrizioni coercitive e potendo, comunque, l’esclusione di tali indizi giovare in seguito all’indagato ai fini del procedimento di riparazione ex art. 314 (Sez. 1, 32326/2018).

È inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso del PM avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione con la quale, in accoglimento della richiesta introduttiva formulata dallo stesso impugnante, sia stata revocata la sentenza di condanna per abolizione del reato (Sez. 3, 33401/2018).

È possibile sottoporre a sequestro non solo un intero sistema informatico o un “contenitore” (personal computer, pen drive, ecc.), ma anche un singolo dato informatico che sia in essi contenuto (SU, 31022/2015).

Le Sezioni unite hanno quindi preso in specifica considerazione l’ipotesi in cui l’estrazione di copia del dato informatico avvenga appunto con modalità tali da assicurarne la conformità all’originale e la sua immodificabilità, allo scopo di preservare il dato acquisito isolandolo dal sistema che lo contiene, e quindi impedendone la successiva manipolazione o eliminazione: si ha quindi l’acquisizione della c.d. “copia immagine”, che consente l’estrazione di altre copie manipolabili senza alcun rischio di trasformazione o modifica dell’originale.

In tal caso, è il dato individuato attraverso la perquisizione e riversato nella “copia immagine” ad essere sottoposto a sequestro probatorio: pertanto, l’interesse alla restituzione «riguarda, appunto, il dato in sé e non anche il supporto che originariamente lo conteneva o quello sul quale è trasferito il ‘clone’, sicchè la mera restituzione del supporto non può considerarsi come esaustiva restituzione delle cose in sequestro.

Le Sezioni unite hanno preso in considerazione anche la diversa ipotesi in cui l’autorità inquirente non ritenga necessario acquisire il dato informatico con le cautele previste per la “copia-immagine”, e si limiti quindi alla estrazione – prima di restituire il computer o la pen drive all’avente diritto – di una semplice copia ad es. di un file, che assume rilevanza non in sé, ma «quale mero recipiente di informazioni», con conseguente piena possibilità di distinguere tra originale e copia, non diversamente da quel che avviene per i documenti cartacei.

Secondo il Supremo consesso, possono in questo caso applicarsi le richiamate disposizioni di cui all’art. 258. Tuttavia, anche in tale diversa ipotesi, la restituzione del supporto contenente il dato non può ritenersi risolutiva, nel senso che l’interesse ad impugnare il sequestro permane anche dopo la restituzione del supporto qualora il soggetto colpito dalla misura ablativa risulti essere titolare di un interesse alla «disponibilità esclusiva del patrimonio informativo racchiuso nel documento di cui sia stata estratta copia», «sia esso informatico o di altro tipo».

A tale specifico riguardo  e con espresso richiamo delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte EDU in ordine alla necessità di adeguata tutela del diritto alla libertà di espressione ex art. 10 CEDU (con riferimento alla segretezza delle fonti giornalistiche) e del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8)  le Sezioni unite hanno affermato che «la mera reintegrazione nella disponibilità della cosa non elimina il pregiudizio, conseguente al mantenimento del vincolo sugli specifici contenuti rispetto al contenitore, incidente su diritti certamente meritevoli di tutela, quali quello alla riservatezza o al segreto». In conclusione, qualora venga dedotto un interesse concreto e attuale alla esclusiva disponibilità dei dati, il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile anche quando risulti che il computer o il supporto informatico siano già stati restituiti all’avente diritto, previa estrazione dei dati in esso contenuti.

Risulta agevole a questo punto individuare nell’attività acquisitiva espletata nello studio ricorrente gli estremi di un sequestro probatorio impugnabile con richiesta di riesame, essendo pacifico che si è proceduto all’apprensione dei dati informatici in sé considerati, attraverso la realizzazione di “file di immagine” mediante sistemi idonei ad evitare l’alterazione dei dischi sorgente (cfr. pag. 4-5 del verbale in atti, al quale si rimanda per le ulteriori indicazioni di ordine tecnico relativa alla funzione crittografica di “hash”, con la quale viene appunto assicurata l’integrità e l’identità all’originale della copia acquisita) (Sez. 2, 53810/2017).

In presenza di una misura di sicurezza ordinata dal giudice della cognizione, il magistrato di sorveglianza è chiamato ad effettuare la valutazione di attuale pericolosità del soggetto in vista della concreta esecuzione della misura di sicurezza, che interviene dopo che la pena detentiva è stata scontata o è altrimenti estinta (art. 211 Cod. pen.). La richiesta di revoca anticipata di una misura di sicurezza anche in epoca molto anticipata alla scadenza della pena pone il problema di un’attività giurisdizionale inutile: in effetti, la verifica della attuale pericolosità del soggetto dovrebbe essere nuovamente effettuata nell’imminenza della scadenza della pena detentiva. Di fronte a questa prospettazione, che ha portato il magistrato di sorveglianza e il tribunale di sorveglianza a ritenere l’istanza inammissibile, il ricorrente elude la questione, limitandosi ad affrontare il merito della domanda, sostenendo di non essere più pericoloso; ma senza evidenziare in alcun modo l’esistenza di un suo interesse concreto ed attuale alla revoca della misura di sicurezza, attualmente non eseguibile, risultando, così, il suo ricorso privo di concreto interesse (Sez. 1, 34926/2018).

 

Qualificazione e conversione dell’impugnazione

Qualora un provvedimento giurisdizionale sia impugnato con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente stabilito, il giudice che riceve l’atto di gravame deve limitarsi, secondo quanto stabilito dall’art. 568, comma 5, alla verifica dell’oggettiva impugnabilità del provvedimento e dell’esistenza della volontà di impugnare, intesa come proposito di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale e, conseguentemente, trasmettere gli atti al giudice competente, astenendosi dall’esame dei motivi al fine di verificare, in concreto, la possibilità della conversione (Sez. 3, 39278/2018).

Il precetto di cui al quinto comma dell’art. 568, secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del “nomen juris” non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta “etichetta”, abbia effettivamente inteso avvalersi: ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridicoMa proprio perché la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell’interessato, al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi, infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica “ope iudicis”, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità (SU, 16/98).

Il principio in base al quale la impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte che l’ha proposta, costituendo espressione di quello più ampio in base al quale spetta al giudice dare l’esatta qualificazione dell’atto sottoposto al suo esame, ha carattere generale e deve pertanto trovare applicazione anche in relazione a quegli atti di parte che, pur non essendo qualificabili impugnazioni in senso stretto, siano comunque diretti ad ottenere rimedio a determinate situazioni (Sez. 5, 4111/2001).

In conclusione, il giudice può emendare gli errori della parte ogni volta che emerga con chiarezza la direzione della volontà dell’istante verso la proposizione di una impugnazione (Sez. 2, 42909/2018).

La sottoscrizione di un atto di impugnazione da parte di un difensore non abilitato al patrocinio in Cassazione comporta l’inammissibilità del gravame anche quando si tratti di appello convertito in ricorso per cassazione (Sez. 7, 39674/2018).

La L. 103/2017 ha riconfigurato il regime di impugnabilità del provvedimento di archiviazione, abrogando il comma 6 dell’art. 409, che in precedenza lo regolamentava, e modellando una inedita disciplina nell’art. 410-bis all’uopo introdotto dalla novella, il quale sostituisce al ricorso per cassazione il reclamo al tribunale in composizione monocratica. Ne consegue che erroneamente il ricorrente ha adito il giudice di legittimità e che il ricorso deve essere riqualificato ai sensi dell’art. 568 come reclamo ex art. 410-bis (Sez. 5, 40128/2018).

Nel giudizio abbreviato, il ricorso per cassazione proposto dal PM avverso la sentenza di condanna, convertito in appello in applicazione dell’art. 580, conserva la propria natura di impugnazione di legittimità; tuttavia, una volta concluso positivamente il giudizio rescindente, il giudice d’appello riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni conseguenti alla formulazione del giudizio rescissorio devolutogli, eventualmente anche rideterminando in peius la pena (Sez. 6, 18063/2018).

Contro il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca o sostituzione delle misure cautelari, è ammesso esclusivamente il rimedio dell’appello, previsto dall’art. 310, in quanto il ricorso immediato per cassazione, ai sensi dell’art. 311, comma 2, può essere proposto soltanto contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 568, comma 2, contro i provvedimenti concernenti lo “status libertatis” non altrimenti impugnabiliNel caso di specie, trattandosi dell’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale proposta con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568, comma 5, a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una “voluntas impugnationis”, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente (Sez. 4, 37821/2018).

Avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca o sostituzione delle misure cautelari è ammesso esclusivamente il rimedio dell’appello, previsto dall’art. 310, in quanto il ricorso immediato per cassazione, ai sensi dell’art. 311, comma 2, può essere proposto soltanto contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 568, comma 2, contro i provvedimenti concernenti lo status libertatis non altrimenti impugnabili. Il ricorso deve essere quindi convertito in appello (Sez. 6, 19135/2018).

Il ricorso per cassazione avverso un provvedimento del giudice dell’esecuzione per il quale è, invece, previsto come mezzo di impugnazione l’opposizione, non deve essere dichiarato inammissibile, ma convertito in opposizione, ai sensi dell’art. 568, comma 5, e trasmesso al giudice dell’esecuzione, in attuazione del principio di conservazione (Sez. 1, 31605/2018).

In tema di misure cautelari reali, è inammissibile il ricorso diretto per cassazione avverso il provvedimento con il quale il giudice, ai sensi dell’art. 323, comma 4, dispone su istanza del PM che sulle cose già oggetto di sequestro preventivo sia mantenuto il sequestro con le finalità conservative di cui all’art. 316; né il rimedio inammissibilmente esperito può convertirsi in richiesta di riesame, previa trasmissione degli atti al giudice competente, ai sensi dell’art. 568, comma 5, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta oltre il termine perentorio di dieci giorni previsto dall’art. 324, comma 1 (Sez. 4, 40966/2018).

Avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza, reso nella materia attinente alla remissione del debito, è esperibile da parte dell’interessato opposizione, ai sensi dell’art. 667, comma 4, allo stesso magistrato, che decide con le garanzie del contraddittorio camerale di cui all’art. 666, e non ricorso per cassazione che, precluso dallo strumento specificamente previsto dalla legge, sarà proponibile contro l’ordinanza che decide sull’opposizione. Il ricorso per cassazione proposto non deve, tuttavia, essere dichiarato inammissibile perché rimedio non previsto dalla legge. Infatti, conformemente all’indirizzo consolidato di questa Corte, la riqualificazione da parte del giudice dell’atto di impugnazione, prevista dall’art. 568, comma 5, deve ritenersi esperibile anche in caso di opposizione, sulla base del principio generale di conservazione degli atti giuridici (Sez. 1, 34418/2018).

L’art. 35- ter per le domande che rientrano nella cognizione del magistrato di sorveglianza segue il modello procedimentale previsto per il reclamo di cui all’art. 35-bis Ord. pen. Il comma 1, invero, della disposizione richiamata rinvia all’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. pen. Il reclamo giurisdizionale introdotto con l’art. 35-bis contempla un doppio grado sul merito, con pieno contraddittorio tra le parti, salvi i casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell’art. 666, comma 2. La decisione deve essere adottata dal magistrato di sorveglianza all’esito dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti. Detta decisione è impugnabile (comma 4) attraverso il reclamo, in senso stretto, al tribunale di sorveglianza. La descritta cadenza processuale e la scelta legislativa d’un contraddittorio nel doppio grado di merito ammettono, tuttavia, il magistrato di sorveglianza ad un provvedimento fuori dal modello partecipato. È ipotesi d’eccezione, praticabile nel solo concorso dei presupposti di cui all’art. 35- bis comma 1 («manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell’art. 666, comma 2»). In questi casi il magistrato di sorveglianza potrà dichiarare inammissibile con decreto de plano il reclamo. Alla luce di quanto premesso avendo il magistrato di sorveglianza assunto la decisione, affrontando temi di merito, all’esito della celebrata udienza in camera di consiglio, il ricorso per cassazione proposto avverso il provvedimento deve essere qualificato come reclamo ai sensi dell’art. 568 comma 5 e gli atti devono essere trasmessi al Tribunale di sorveglianza per la trattazione con le forme di cui all’art. 35-bis comma 4 Ord. pen. (Sez. 1, 36498/2018).

Avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza il condannato, entro quindici giorni, può sporgere reclamo ai sensi degli artt. 35- bis, 35-ter e 69, comma 6, lett. b), Ord. pen. al tribunale di sorveglianza. Se dunque, per errore, presenta ricorso per cassazione, questo deve essere convertito in reclamo ai sensi dell’art. 568, comma 5 (Sez. 1, 33003/2018).

È inammissibile la conversione della istanza di rescissione del giudicato ex art. 625-ter in richiesta per la restituzione nel termine per proporre impugnazione o in incidente di esecuzione e viceversa, trattandosi di istituti che implicano presupposti e conseguenze giuridiche diversi (Sez. 6, 42956/2018).

La richiesta dell’amministratore giudiziario di liquidazione dei compensi per l’attività prestata a favore della società, i cui beni aziendali siano stati sottoposti alla misura del sequestro preventivo con conferimento all’amministratore giudiziario del compito di amministrarli, si inquadra in quelle attività di natura privatistica concernenti le vicende e la gestione dei beni sequestrati sottoposti ad amministrazione ex art. 104-bis Att. Tale norma stabilisce che, nel caso in cui il sequestro preventivo abbia per oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l’amministrazione, esclusi quelli destinati ad affluire nel Fondo unico giustizia, si applicano le disposizioni di cui al libro I, titolo III, del codice di cui al D. Lgs. 159/2011. L’art. 35 di tale decreto attribuisce in particolare all’amministratore giudiziario “il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi”, nel rispetto delle indicazioni provenienti dal giudice delegato, al quale il comma 1 del successivo art. 40 attribuisce il compito di impartire “le direttive generali dei beni sequestrati”. L’art. 42 del decreto (Disciplina delle spese, dei compensi e dei rimborsi) stabilisce inoltre che le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei beni sono sostenute dall’amministratore giudiziario mediante prelevamento dalle somme riscosse a qualunque titolo ovvero sequestrate, confiscate o comunque nella disponibilità del procedimento. L’art. 40 del decreto legislativo prevede infine che ogni interessato ha la possibilità di assoggettare a reclamo, innanzi al giudice delegato, gli atti dell’amministratore giudiziario che siano stati posti in essere in violazione del decreto stesso. In ordine ai provvedimenti adottati dal giudice delegato, si è affermato in materia di misure di prevenzione che i suddetti provvedimenti, in assenza di disposizioni normative, non sono autonomamente impugnabili, in considerazione del principio di tassatività di cui all’art. 568, essendo tuttavia consentita l’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione (Sez. 5, 11426/2016). Nel caso di specie, non pare che possa esservi alcun dubbio sul fatto che il provvedimento sollecitato dal ricorrente fosse attinente alla mera gestione del complesso dei beni in sequestro (trattandosi di debito relativo alla gestione della società sorto durante la amministrazione affidata ex art. 104-bis Att.) e, quindi, sia da considerare atto di ordinaria amministrazione e quindi impugnabile mediante opposizione ai sensi dell’art. 666, comma 4. Ne consegue quindi che il ricorso per cassazione va convertito in opposizione con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale competente in funzione di giudice dell’esecuzione (Sez. 6, 22843/2018).

In tema di impugnazione delle misure di prevenzione, anche a seguito dell’entrata in vigore del D. Lgs. 159/2011 (cosiddetto “codice antimafia”) avverso i provvedimenti di sequestro e di reiezione dell’istanza di revoca del sequestro – disposti nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa – è ammessa solo l’opposizione, innanzi allo stesso giudice, nelle forme dell’incidente di esecuzione e non anche il ricorso per cassazione. Dal combinato disposto del D. Lgs. artt. 10 e 27, si desume infatti che sono soggetti al ricorso, anche nel merito, davanti alla corte di appello, i provvedimenti con i quali il tribunale dispone: a) la confisca dei beni sequestrati; b) la revoca del sequestro; c) la restituzione della cauzione; d) la liberazione delle garanzie; e) la confisca della cauzione; f) la esecuzione sui beni costituiti in garanzia. Quindi, stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’impossibilità del ricorso all’interpretazione analogica, non sono soggetti ad alcuna impugnazione né il sequestro né la reiezione dell’istanza di revoca del sequestro. È opportuno tenere presente che con la L. 161/2017, entrata in vigore in epoca successiva alla proposizione del presente ricorso, l’articolo 27 del D. Lgs. 159/2011 è stato parzialmente modificato nel senso che è stato ampliato l’ambito dei provvedimenti appellabili, prevedendo l’appello anche per i provvedimenti con cui viene applicato, negato o revocato il sequestro. Ma il rigetto della revoca del sequestro per decorso del termine non è espressamente previsto tra i detti provvedimenti appellabili. Continuano quindi a trovare applicazione i seguenti principi di diritto: i provvedimenti di reiezione dell’istanza di revoca del sequestro adottati nel corso della procedura di prevenzione nei confronti del proposto, sono inoppugnabili; l’unico rimedio contro il relativo decreto è l’opposizione, da proporre con la forma dell’incidente di esecuzione;  il ricorso per cassazione, erroneamente proposto, va convertito, ex art. 568 nell’incidente di esecuzione (Sez. 2, 4729/2018).

In applicazione analogica dell’art. 568, ultimo comma, secondo periodo, la presentazione di un’istanza di restituzione in termini ad organo incompetente non costituisce causa di inammissibilità, ma comporta solo l’obbligo di rilevare la propria incompetenza e di trasmettere gli atti al giudice competente (Sez. 4, 9171/2018).