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Art. 570 - Impugnazione del pubblico ministero

1. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte di appello possono proporre impugnazione, nei casi stabiliti dalla legge, quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero. Salvo quanto previsto dall’articolo 593-bis, comma 2, il procuratore generale può proporre impugnazione nonostante l’impugnazione o l’acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento.

2. L’impugnazione può essere proposta anche dal rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni.

3. Il rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni e che ne fa richiesta nell’atto di appello può partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la corte di appello. La partecipazione è disposta dal procuratore generale presso la corte di appello qualora lo ritenga opportuno. Gli avvisi spettano in ogni caso al procuratore generale.

Rassegna giurisprudenziale

Impugnazione del pubblico ministero (art. 570)

Gli artt. 51 e 570 del codice di rito e 2 e 70 Ord. giud. costituiscono un sistema per il quale il potere di impugnazione del PM è collegato alle funzioni esercitate in via permanente dal giudice che ha emesso il provvedimento da impugnarsi e le deroghe a tale criterio dettate dagli artt. 570, comma 3, e 311, comma 1 costituiscono eccezioni non suscettibili di estensione analogica (Sez. 6, 40917/2018).

L’esercizio del potere di impugnazione è di natura diversa dall’interesse inerente all’esercizio dell’azione penale e quindi non è caratterizzato da quella “doverosità” che contraddistingue il secondo; ciò in forza dell’inaccoglibilità della tesi che vorrebbe collegati i rispettivi interessi (Corte costituzionale, sentenza 280/1995). A maggior ragione, la non configurabilità del collegamento in parola, e quindi la non doverosità dell’esercizio di tale potere vanno riconosciute in materia di impugnazione di provvedimenti che definiscono i procedimenti incidentali.

La stessa Corte costituzionale, nella citata sentenza, nel respingere la teoria del preteso collegamento tra esercizio dell’azione penale e potere di impugnazione, e quindi la doverosità dell’esercizio di tale potere per il PM, ha sostenuto la configurazione sostanzialistica dell’interesse fatto valere dal PM con l’impugnazione, in termini pressoché paritetici all’interesse riferibile alle parti private; configurazione non contraddetta – a parere della Corte  dai doveri imposti al PM dall’art. 73 Ord. giud. che ne contraddistinguono il ruolo nell’amministrazione della giustizia.

Pertanto, se in materia generale di impugnazione il PM (per decidere se impugnare o meno la sentenza) “deve interrogare la propria coscienza in relazione al contenuto del provvedimento impugnabile e determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia”, nell’impugnazione dell’ordinanza emessa a seguito di incidente di esecuzione il PM non può che determinarsi allo stesso modo, ed in particolare sulla base dell’interesse sotteso alla questione portata all’esame del giudice.

Con la conseguenza che, ove tale interesse trovi pieno soddisfacimento nella delibera del giudice di esecuzione, il PM non può poi far valere, in termini contraddittori, l’interesse (opposto) a vedere respinta la richiesta da lui stesso formulata.

La suddetta impostazione giuridica, del resto, è del tutto in linea con le “disposizioni generali” in materia di impugnazione, di cui al codice di rito. L’art. 570 definisce la legittimazione dei vari organi del PM, a prescindere dai comportamenti processuali degli uffici legittimati, giungendo ad attribuire al PG presso la corte di appello il potere di impugnazione a prescindere dal comportamento dell’ufficio del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento, (“può proporre impugnazione nonostante l’impugnazione o l’acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento”).

Questa norma – come sostenuto dalla dottrina, diretta all’organizzazione della legittimazione ad esercitare il potere di impugnazione tra i vari uffici del PM  non investe, ma anzi presuppone il momento della necessarietà in capo al pubblico ministero dell’interesse ad impugnare (art. 568, comma 4).

Ed il suddetto interesse attiene alla scelta da adottare dopo l’avvenuta piena conoscenza del provvedimento e nella complessiva valutazione del risultato conseguito, a prescindere di “quali che siano state le conclusioni” del pubblico ministero in udienza (art. 570, comma 1); sicché è legittimato a proporre impugnazione anche il “rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni” (art. 570 comma 2).

Conclusioni che non sono preclusive della legittimazione, e, quali che siano, non pregiudicano l’interesse del PM ad impugnare il provvedimento.

Ma la legittimazione che spetta e rimane al PM “requirente” di impugnare anche il provvedimento emesso in modo conforme alle sue “conclusioni” - provvedimento che è pur sempre una risposta giurisdizionale in ordine all’esercizio dell’azione penale - non sussiste nei confronti del PM “richiedente” o istante, come nell’ipotesi in cui egli promuove incidente di esecuzione chiedendo la revoca di una sanzione accessoria ad una pronuncia di condanna, quando non la sentenza di condanna stessa.

In tal caso, egli agisce come promotore di giustizia nell’interesse della corretta osservanza della legge e per una finalità di tutela che è esattamente opposta all’esercizio dell’azione penale.

E, si porrebbe in manifesta contraddizione proprio con quello scopo di vigilare non solo sull’osservanza delle leggi, ma sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia, il riconoscimento al PM del potere di impugnare tutte le volte in cui, dopo aver promosso un procedimento al fine di una corretta applicazione della legge, ed ottenuto un provvedimento di ripristino di quella legalità costituente ragione dell’iniziativa stessa, venisse poi a dolersi della situazione derivatane.

In tal caso si vedrebbe compromesso proprio quell’interesse inerente ad una certa, ordinata e sollecita amministrazione della giustizia, di cui è portatore il PM (art. 73 Ord. giud.).

Né è possibile che, nel quadro procedimentale in esame, il PM possa esercitare il potere di impugnazione sulla base di un “ripensamento” della questione proposta. Ripensamento che trova preclusione proprio nel valido ed efficace esercizio dell’iniziativa, secondo un potere conferitogli dalla legge, che il PM, nell’unitarietà del suo ufficio, ha puntualmente esercitato (Sez. 3, 33401/2018).

Il PM, in quanto parte pubblica pur nell’ambito del processo accusatorio, può sostituirsi, nella impugnazione dei provvedimenti, alle parti private per contrastare provvedimenti emessi in violazione del principio di legalità o per far valere questioni di interesse pubblico, rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Non può, viceversa, sostituirsi all’imputato od alla persona offesa per censurare la illegittimità della mancata concessione di benefici e per sindacare statuizioni ritenute pregiudizievoli degli interessi civili (Sez. 2, 23318/2018).

Il PM può per certo proporre impugnazione  per ottenere l’esatta applicazione della legge  anche se a favore dell’imputato, ma l’interesse ad impugnare deve comunque presentare i citati caratteri della concretezza e della attualità; ne consegue che, qualora questi denunci la violazione di una norma di diritto formale, in tanto può ritenersi la sussistenza dell’interesse medesimo, in quanto da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare, sicché nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (SU, 42/2006).

Il PM, purché sussista un interesse attuale e concreto, ovvero che dalla violazione di una norma di diritto possa derivare una lesione dei diritti che si intendono tutelare, è certamente legittimato a proporre impugnazione  per ottenere l’esatta applicazione della legge  anche a favore dell’imputato.

Analogamente deve allora ritenersi con riguardo alla legittimazione del PM ad impugnare una decisione che, per effetto di una erronea applicazione della legge processuale, abbia arrecato un pregiudizio concreto ed attuale ai diritti della parte civile (Sez. 2,12840/2018).

Non è ammessa una impugnazione del PM che si risolva in una mera pretesa teorica, volta cioè ad ottenere una decisione solo giuridicamente (rectius: formalmente) esatta e, pertanto, come tale, insufficiente ad integrare quel vantaggio pratico in cui si compendia l’interesse normativamente stabilito (Sez. 7, 21809/2015).

È inammissibile il ricorso per cassazione del PM contro il decreto penale di condanna che abbia omesso l’applicazione di una sanzione amministrativa accessoria, se l’imputato abbia nel frattempo proposto tempestiva opposizione al decreto (sì da trasferire la competenza a decidere – anche in punto di sanzione amministrativa – al giudice dell’opposizione) (Sez. 4, 5087/2011).

È inammissibile il ricorso del procuratore militare volto ad ottenere, per reato militare commesso all’estero, la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per mancanza di richiesta del Ministro della difesa in luogo del difetto della richiesta del comandante del corpo (Sez. 7, 21809/2014).

È inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso del PM avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione con la quale, in accoglimento della richiesta introduttiva formulata dallo stesso impugnante, sia stata revocata la sentenza di condanna per abolizione del reato (Sez. 3, 33401/2018).

Il procuratore della Repubblica può sempre proporre impugnazione, indipendentemente dal tenore delle conclusioni formulate nel procedimento dal rappresentante del PM e anche avverso la decisione che le abbia eventualmente accolte; ciò in quanto l’interesse della parte pubblica, ex art. 568, comma 4, attiene alla scelta da compiere dopo avere avuto piena conoscenza del provvedimento e in base a una valutazione complessiva, in vista del soddisfacimento di generali esigenze di giustizia (Sez. 1, 37364/2018).

In tema di impugnazioni, l’inappellabilità, da parte del PM della sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, prevista dal comma 3 dell’art. 443, costituisce una eccezione alla regola generale della appellabilità, fissata dall’art. 593. e fatta rivivere nella seconda parte del comma citato, in relazione alla ipotesi della sentenza di condanna che abbia modificato il titolo del reato.

In tale caso, pertanto, il potere di impugnazione del PM può avere ad oggetto qualsiasi statuizione adottata e non è limitato alla avvenuta modifica della qualificazione giuridica del reato (Sez. 4, 48825/2016).

Contro le sentenze pronunciate in grado di appello può ricorrere per cassazione soltanto il PG presso la corte di appello, ma non il procuratore della Repubblica presso il tribunale, cui spetta il potere di impugnazione soltanto contro le sentenze inappellabili; tale conclusione si evince anche dall’art. 570 che, nel prevedere che “Il rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni e che ne fa richiesta nell’atto di appello può partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la corte di appello”, precisa che “gli avvisi spettano in ogni caso al procuratore generale”, con ciò confermando che solo a quest’ultimo spetta il potere di impugnare (Sez. 2, 33091/2018).

La disposizione dell’art. 570, secondo la quale il procuratore della Repubblica ed il PG presso la corte d’appello possono proporre impugnazione, nei casi stabiliti dalla legge, quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero, si applica al PG della Repubblica presso la corte d’appello anche rispetto ai provvedimenti pronunziati da giudici compresi nella competenza della sezione distaccata della corte stessa (Sez. 5, 2542/2017).

La disposizione dell’art. 570, comma 3, in virtù della quale il rappresentante del PM che ha presentato le conclusioni e che ne fa richiesta nell’atto di appello, può partecipare al successivo grado di giudizio, previo provvedimento autorizzativo del PG della Repubblica, in qualità di sostituto di quest’ultimo, è da considerare eccezionale e, come tale, di stretta interpretazione; di talché il predetto rappresentante del PM non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello (Sez. 2, 54573/2016).

Non sussiste interesse del PM ad impugnare la pronuncia di prescrizione di un reato abolito, emessa prima dell’abolizione, perché giuridicamente corretta e perché nessun pregiudizio la stessa è idonea ad arrecare all’imputato, trattandosi di pronuncia che non compare sul certificato penale e che non è destinata a fare stato nei giudizi civili e amministrativi (Sez. 4, 42579/2018).

Il PM senz’altro può ricorre per cassazione per violazione di legge, ma alla base della richiesta di annullamento dell’atto impugnato vi deve essere pur sempre un interesse che legittimi l’esercizio del diritto di impugnazione, così come richiede l’art. 568 comma 4.

Questo in quanto la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso.

Ne consegue che la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a soddisfare una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto.

Pertanto, qualora il PM denunci, al fine di ottenere l’esatta applicazione della legge, la violazione di una norma di diritto formale, in tanto può ritenersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza, in quanto da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. 7, 42813/2018).

L’interesse del PM all’impugnazione di un’ordinanza del TDR che ha annullato un provvedimento cautelare non può dirsi venuto meno a seguito del consenso prestato all’applicazione di pena ex art. 444, subordinata alla concessione della sospensione condizionale.

La verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse è necessaria anche in relazione alla sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari, richiedendo l’art. 568, comma 4, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione) di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato.

La regola contenuta nel citato art. 568 è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame; né un tale interesse può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento (SU, 7931/2011).

Nella specie, risultano integrate le condizioni richieste dalle Sezioni Unite ai fini della configurabilità, in capo al PM ricorrente, di un interesse concreto ed attuale, ad ottenere la decisione della Corte di cassazione, tenuto conto che l’effetto pratico avuto di mira – consistente  annullamento dell’ordinanza di annullamento della misura cautelare al fine di ottenere il ripristino della misura stessa – in questo momento è idoneo a prodursi poiché l’accordo ex art. 444 non è ancora stato recepito dal GIP (Sez. 5, 42620/2018).