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Art. 581 - Forma dell’impugnazione

1.L’impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo e il giudice che lo ha emesso, con l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità:
a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
b) delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione;
c) delle richieste, anche istruttorie;
d) dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Rassegna giurisprudenziale

Forma dell’impugnazione (art. 581)

Ai fini dell'applicabilità dell'art. 581, comma 1, lett. d), - nella versione introdotta dall'art. 1, comma 55, L. 103/2017, secondo cui l'impugnazione si propone, a pena di inammissibilità, con atto che contiene l'enunciazione specifica dei motivi con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta - trova applicazione il principio, già affermato per le modifiche processuali attinenti ai poteri di impugnazione del p.m., secondo cui ai fini dell'applicabilità dell'articolo 608 co. 1-bis deve farsi riferimento, in assenza di una disciplina transitoria, alla data di presentazione del ricorso (Sez. 4, 7982/2021).

Il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È invece necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606 comma 1, lett. e) ad opera della L. 46/2006, art. 8, mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (Sez. 5, 39048/2007). Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, 40609/2008). La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 5, 25559/2012). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (excursus giurisprudenziale contenuto in Sez. 2, 41775/2018).

La giurisprudenza di legittimità, già in epoca anteriore alla nuova formulazione dell’art. 581 per effetto della L. 103/2017, aveva richiamato ai fini della valida instaurazione del giudizio d’impugnazione la necessità che l’appellante individuasse esplicitamente i punti della sentenza che si intendeva sottoporre a nuovo scrutinio ed esponesse le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondavano le censure (Sez. 6, 7773/2016), precisando che il tasso di specificità indispensabile per l’atto di appello al fine di escludere l’inammissibilità ex artt. 581 e 591, doveva essere valutato raffrontando le specifiche censure articolate nell’impugnazione con la consistenza delle argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato (Sez. 3, 37737/2014) ovvero richiamando  onde escludere la genericità  l’identificabilità, con accettabile precisione, dei punti cui si riferiscono le doglianze e le ragioni essenziali delle medesime (Sez. 6, 18746/2014) o, ancora, l’indicazione in modo chiaro e preciso degli elementi di fatto che sono alla base delle censure rivolte alla sentenza impugnata, in tal modo ponendo il giudice dell’impugnazione nella condizione di individuare i rilievi mossi e di esercitare il proprio sindacato di merito (Sez. 3, 1237/2012).

Trattasi di principi poi confluiti nell’elaborazione sistematica delle Sezioni unite (SU, 8825/2017), alla cui stregua l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. 7, 31933/2018).

Il nuovo testo della disposizione rubricata “Forma dell’impugnazione”, non contiene alcun cenno al dovere di indicare  laddove la richiesta si rivolga al proscioglimento o all’assoluzione  una precisa formula, toccando comunque al giudice- sul quale peraltro incombe l’obbligo in ogni stato e grado del processo di dichiarare ex art. 129, comma 1, le cause di non punibilità - individuare quella più corretta (Sez. 4, 38384/2018).

L’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (SU, 8825/2017).

È l’inammissibile l’appello che non contenga l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, in quanto il principio secondo cui la specificità dei motivi deve essere valutata alla luce della funzione dell’impugnazione e con minor rigore rispetto al giudizio di legittimità, non può comportare la sostanziale elisione dei requisiti indicati dall’art. 581. In altri termini, la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello, seppur valutata alla luce del principio del “favor impugnationis”, deve comunque contrapporre alle ragioni poste a fondamento della decisione impugnata argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice, e non può quindi limitarsi a confutare semplicemente il “decisum” del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte (Sez. 7, 40620/2018).

A fronte di motivi di appello specifici e con i quali si propongono motivate argomentazioni critiche alla ricostruzione del giudice di primo grado in punto di affermazione di responsabilità, il giudice di appello non può limitarsi a “ripetere” la motivazione di condanna ma deve, pena il difetto di motivazione sul predetto punto, rispondere a ciascuna delle contestazioni adeguatamente mosse dalla difesa con l’atto di impugnazione. Tra specificità dei motivi di appello e specificità della motivazione di secondo grado vi è un evidente necessario parallelismo poiché alla adeguatezza dei primi a proporre censure alla sentenza di primo grado deve, necessariamente, corrispondere una motivata risposta da parte del giudice di appello che non può limitarsi a riprodurre le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado e rispetto alle quali quelle critiche sono state svolte (Sez. 2, 14963/2020).

La specificità dei motivi di impugnazione (art. 581) si atteggia in maniera diversa non solo tra impugnazione di merito (a critica libera) e di legittimità (a critica vincolata) ma anche in rapporto ai contenuti della prima decisione giurisdizionale ed ai punti rilevanti per la decisione finale.

Ove il motivo del primo diniego sia essenzialmente articolato in diritto, il potere di critica spettante alla parte soccombente può – e per certi versi deve – tendere alla riproposizione degli argomenti disattesi dal primo giudice, atteso che resta coessenziale alla natura della impugnazione (intesa come rivalutazione della quaestio iuris) la facoltà della parte di ottenere un nuovo (e auspicabilmente diverso) apprezzamento dei possibili significati delle disposizioni normative incidenti sul tema. In sostanza, in caso di questioni di diritto, in secondo grado ben possono essere dedotte questioni già prospettate e disattese dal primo giudice (anche senza elementi di novità), con il solo limite della pertinenza ai contenuti e alla ratio decidendi della decisione impugnata (rispetto alla quale si chiede una rivalutazione della questione interpretativa) (Sez. 1, 52526/2018).

Il ricorrente, in aderenza al principio della specificità (art. 581), deve censurare la motivazione in tutti quei profili di fatto e di diritto che presentano una loro autonomia e non limitarsi a censurare solo alcuni dei motivi addotti dal giudice.

Infatti, quand’anche si ritenesse la fondatezza della doglianza proposta solo relativamente ai profili della motivazione censurata, resta il fatto che l’accoglimento della censura non sarebbe idonea a travolgere i diversi profili addotti nella motivazione dal giudice a sostegno della propria decisione, i quali, corretti o sbagliati che siano, non essendo stati sottoposti ad alcuna censura, devono ritenersi passati in giudicato (Sez. 2, 34306/2018).

La specificità che deve caratterizzare i motivi di appello va intesa in rapporto alla funzione dell'impugnazione, nel senso che il motivo, per indirizzare la richiesta decisione di riforma della sentenza impugnata, deve contenere nelle linee essenziali le ragioni che confutano o sovvertono sul piano logico e strutturale le valutazioni del primo giudice, non essendo sufficiente la mera riproposizione di temi reputati in primo grado insufficienti o inidonei (Sez. 6, 33576/2019).

Il sindacato del giudice di appello sull'ammissibilità dei motivi proposti non può estendersi, a differenza di quanto accade nel giudizio di legittimità e nell'appello civile, alla valutazione della manifesta infondatezza dei motivi stessi (Sez. 2, 37511/2019).

La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Sez. 3, 43661/2018).

Tra i requisiti del ricorso per cassazione vi è anche quello, sancito a pena di inammissibilità, della specificità dei motivi: il ricorrente ha non soltanto l’onere di dedurre le censure su uno o più punti determinati della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli elementi che sono alla base delle sue lagnanze. Il ricorso è quindi inammissibile se è privo dei requisiti prescritti dall’art. 581, comma 1, lett. c), e ciò si verifica quando, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata ampia e logicamente corretta, non indica gli elementi che sono alla base della censura formulata, non consentendo al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (Sez. 7, 43747/2018).

Il giudizio sulla manifesta infondatezza dei motivi non compete, neppure con il novellato art. 581 c.p.p., al giudice dell'appello che può dichiarare l'inammissibilità, ai sensi della norma citata ed in relazione alle ragioni di diritto ed agli elementi di fatto che ne sorreggano le richieste solo quando gli stessi difettino di specificità e quindi quando non siano affatto argomentati o quando non affrontino la motivazione spesa nella sentenza impugnata (e pecchino pertanto di genericità interna all'atto o esterna al medesimo) e non quando, diversamente, non siano ritenuti idonei (anche manifestamente) a confutarne l'apparato motivazionale (Sez. 4, 36533/2021).

Tra i requisiti del ricorso per cassazione vi è anche quello, sancito a pena di inammissibilità, della specificità dei motivi: il ricorrente ha non soltanto l’onere di dedurre le censure su uno o più punti determinati della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli elementi che sono alla base delle sue lagnanze (Sez. 7, 43742/2018).

In tema di impugnazioni il sindacato del giudice di appello sull’ammissibilità dei motivi proposti non può estendersi – a differenza di quanto accade nel giudizio di legittimità e nell’appello civile – alla valutazione della manifesta infondatezza dei motivi stessi (Sez. 3, 52156/2018).

Il ricorso è inammissibile ove sia assente qualunque motivo di censura (art. 591, comma 1, lett. e, in relazione all’art. 581, comma 1, lett. d) (Sez. 7, 43743/2018).

Ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione del PM, il requisito relativo all’enunciazione delle richieste è soddisfatto anche soltanto dalla richiesta di condanna, senza che sia necessaria la presenza di conclusioni sull’entità della pena da infliggere (Sez. 6, 29404/2018).

Ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione del PM, ferma restando la necessità che l’atto di contenga a pena di inammissibilità anche le richieste, queste possano anche desumersi implicitamente dai motivi quando da essi emerga in modo inequivoco la richiesta formulata; infatti l’atto di impugnazione va valutato nel suo complesso in applicazione del principio del favor impugnationis (Sez. 1, 47631/2018).

A fondamento del requisito della specificità dei motivi di impugnazione, vi è la necessaria correlazione fra motivazione della sentenza e motivo di impugnazione, richiedendo, per entrambi, un pari rigore logico-argomentativo.

È questa la vera modifica introdotta dal legislatore della c.d. riforma Orlando che impone un’enunciazione dei motivi specifica in relazione alle prescrizioni di cui all’art 581 (anche con riferimento alle richieste istruttorie) direttamente proporzionale alla specificità delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, con riferimento ai medesimi capi o punti della motivazione (Sez. 4, 38384/2018).

Il giudice di secondo grado non può applicare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nel caso in cui nell’atto di appello non risulti formulata alcuna specifica richiesta con riguardo a tale punto (SU, 12872/2017).

I motivi nuovi a sostegno dell’impugnazione, previsti dall’art. 585 comma 4, devono avere ad oggetto solo i capi o i punti della sentenza impugnata che siano stati enunciati nell’originario atto di gravame ex art. 581, perché, diversamente opinando, verrebbero frustrati i termini per l’impugnazione prescritti a pena di inammissibilità (Sez. 2, 33087/2018).

Il procedimento cautelare presenta, infatti, aspetti peculiari posto che l’art. 309 comma 6 prevede la possibilità di separare il negozio processuale di impugnazione dalla enunciazione dei motivi, con la conseguente inapplicabilità della particolare disposizione dell’art. 581, lett. c) che impone, a pena di inammissibilità, l’indicazione dei motivi di impugnazione contestualmente alla presentazione del gravame, stante la facoltatività prevista dal sesto comma dell’art. 309 stesso codice, della indicazione dei motivi a sostegno e, quindi, della inapplicabilità della regola del «tantum devolutum quantum appellatum» (SU, 16/1995, richiamata da Sez. 4, 38391/2018).

In materia di misure di prevenzione, il ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di legge, e, quindi, può contestare una motivazione inesistente o meramente apparente, ma non anche una manifestazione manifestamente illogica (SU, 33451/2014).

L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d’appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso (SU, 12602/2016).

Nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (SU, 33040/2015).

Allorché la parte civile impugni una sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, chiedendo la riforma di tale pronunzia, l’atto di impugnazione, ricorrendo le altre condizioni, è ammissibile anche quando non contenga l’indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili, discendendo tale effetto direttamente dall’art. 576 (SU, 6509/2013).

Il sindacato sull’ammissibilità dell’appello, condotto ai sensi degli artt. 581 e 591, non può ricomprendere – a differenza di quanto avviene per il ricorso per cassazione (art. 606, comma 3) o per l’appello civile – la valutazione della manifesta infondatezza dei motivi di appello, non essendo la manifesta infondatezza espressamente menzionata da tali disposizioni quale causa inammissibilità dell’impugnazione. Il giudice d’appello non potrà, pertanto, fare ricorso alla speciale procedura prevista dall’art. 591, comma 2, in presenza di motivi che siano manifestamente infondati e però caratterizzati da specificità intrinseca ed estrinseca (Sez. 5, 45871/2018).