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Art. 464-quater - Provvedimento del giudice ed effetti della pronuncia

1. Il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129, decide con ordinanza nel corso della stessa udienza, sentite le parti nonché la persona offesa, oppure in apposita udienza in camera di consiglio, della cui fissazione è dato contestuale avviso alle parti e alla persona offesa. Si applica l’articolo 127.

2. Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell’imputato.

3. La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. A tal fine, il giudice valuta anche che il domicilio indicato nel programma dell’imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato.

4. Il giudice, anche sulla base delle informazioni acquisite ai sensi del comma 5 dell’articolo 464-bis, e ai fini di cui al comma 3 del presente articolo può integrare o modificare il programma di trattamento, con il consenso dell’imputato.

5. Il procedimento non può essere sospeso per un periodo:
a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria;
b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.

6. I termini di cui al comma 5 decorrono dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova dell’imputato.

7. Contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova possono ricorrere per cassazione l’imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa. La persona offesa può impugnare autonomamente per omesso avviso dell’udienza o perché, pur essendo comparsa, non è stata sentita ai sensi del comma 1. L’impugnazione non sospende il procedimento.

8. Nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica l’articolo 75, comma 3.

9. In caso di reiezione dell’istanza, questa può essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

Rassegna giurisprudenziale

Provvedimento del giudice ed effetti della pronuncia (art. 464-quater)

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 24 comma 1 e 25 comma 1 del DPR 313/2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti dal reato e dei relativi carichi pendenti) nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal D. Lgs. 122/2018 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall’interessato non siano riportate le iscrizioni dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato ai sensi dell’art. 464-quater, del codice di procedura penale e della sentenza che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 464-septies (Corte costituzionale, sentenza 231/2018).

L’istituto della messa alla prova prescinde dall’accertamento di una penale responsabilità ed ha come finalità quella di pervenire ad una composizione preventiva e pregiudiziale del conflitto penale. Il provvedimento di sospensione del processo per messa alla prova non presuppone, pertanto, da parte del giudice una valutazione nel merito della vicenda oggetto del giudizio (Sez. 2, 15701/2018).

L’istituto della messa alla prova introduce una causa di proscioglimento per estinzione del reato su cui, tuttavia, prevalgono tutte le altre cause di proscioglimento, come si trae, da un lato, dalla lettera del primo comma dell’art. 464-quater che stabilisce che il giudice, nel corso dell’udienza, prima di provvedere deve verificare la sussistenza di cause di proscioglimento a norma dell’art. 129.

Dall’altro dal disposto dell’art. 464-sexies che impone al giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, di acquisire le prove non rinviabili che possono condurre al proscioglimento dell’imputato (Sez. 4, 29093/2018).

La connotazione di rito alternativo assegnata all’istituto di cui all’art. 168-bis Cod. pen., e la sostanziale analogia tra i termini finali della richiesta di sospensione con messa alla prova e quelli entro i quali può essere avanzata la richiesta ex art. 438, precludono, in assenza di una espressa previsione di convertibilità dell’un rito nell’altro, la possibilità di coltivare o ripercorrere altre strade di definizione alternativa del giudizio.

Pertanto, deve escludersi che, una volta celebrato il giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato, l’imputato possa dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova (Sez. 3, 26231/2018).

Il fine primario della norma introdotta dall’art. 3 L. 67/2014 è quello di deflazionare le pendenze penali attraverso la individuazione di una nuova ipotesi di estinzione del reato da concretare mediante una definizione, alternativa e anticipata, della vicenda processuale. Proprio la ratio deflattiva perseguita dal legislatore costituisce la conferma che il dato normativo debba essere interpretato secondo il suo tenore letterale.

L’art. 168-bis, comma 1, Cod. pen. condiziona, infatti, l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova richiamando al fine i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo ad anni 4.

Manca, sul piano letterale, ogni esplicito riferimento alla possibile incidenza sul tema di eventuali aggravanti.

Tale mancata esplicitazione assume ancora maggior pregnanza ove si ponga mente all’ammissibilità dell’istanza in una fase procedimentale (art. 464-bis) n cui al giudice non è consentito pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa così come formulata, dunque sulla configurabilità o meno del fatto aggravato, se non in termini negativi circa la sussistenza delle condizioni per la pronuncia di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425.

Quella introdotta dalla L. 67 è, infatti, una probation giudiziale nella fase istruttoria, assimilabile al modello adottato nel procedimento minorile, nel quale la messa alla prova precede la pronuncia di una sentenza di condanna.

A ciò si aggiunga che l’art. 464-ter ammette la proposizione della richiesta di sospensione con messa alla prova nella fase delle indagini preliminari. Nel caso di richiesta avanzata nel corso delle indagini è previsto il tempestivo coinvolgimento informativo del PM, funzionale all’espressione del consenso o del dissenso, così evidenziandosi la struttura dialettica del procedimento in merito alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’istituto anche rispetto all’ipotesi accusatoria formulata dall’organo inquirente.

Tanto è ben evidenziato dalla funzione dell’art. 464-ter nell’ipotesi in cui l’indagato intenda sollecitare il potere decisorio del giudice in eventuale contrasto con il PM che non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per l’indagato della facoltà di chiedere di essere messo alla prova, come previsto dall’art.141-bis Att. introdotto dall’art. 5 L. 67/2014. Laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha, del resto, espressamente previsto.

Deve, conseguentemente, escludersi che la contestazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale precluda, come affermato nel provvedimento impugnato, l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova, qualora il reato contestato sia punito con sanzione edittale non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione (Sez. 4, 32787/2015).

In senso contrario sulle finalità generali dell’istituto: La pretesa funzione deflattiva non costituisce lo scopo della probation, la quale, senza incidere sul rilievo penale del fatto e senza troncare il processo, al fine di favorire il recupero alternativo dell’autore del reato, avvia un sub-procedimento, che seguendo da presso l’esperimento della prova, nel caso auspicabile di buon esito, si conclude con la declaratoria di estinzione del reato.

Escluso dunque ogni automatismo, va ancora considerato che secondo la testuale previsione dell’art. 168-bis cod. pen. la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato; l’istituto prevede altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La lettura della disposizione evidenzia chiaramente – come dimostra la posizione attribuita nel comma e il successivo uso del termine “altresì” – che il legislatore ha inteso assegnare rilievo prioritario, e pregiudiziale rispetto all’affidamento dell’imputato al servizio sociale, alla “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato”: deve essere allora chiaro che la mera eventuale prestazione delle attività in senso al servizio sociale non esplica alcuna efficacia, ai fini del positivo superamento della messa alla prova, in assenza di condotte teleologicamente volte, e concretamente ed univocamente idonee, alla eliminazione del danno o del pericolo derivante dal reato (Sez. 3, 40451/2018).

La praticabilità della sospensione con messa alla prova nei reati edilizi, formalmente ricompresi nella cornice edittale che consente l’applicazione dell’istituto, passa obbligatoriamente per l’eliminazione delle conseguenze dannose dei reati in questione, ossia per la preventiva e spontanea demolizione dell’abuso edilizio ovvero per la sua riconduzione alla legalità urbanistica ove ricorrano i presupposti per la cosiddetta sanatoria di (doppia) conformità.

Tali condotte sono pregiudiziali (in senso logico, ma non necessariamente cronologico) rispetto all’affidamento dell’imputato in prova al servizio sociale e alla verifica del suo positivo esito, ed impongono pertanto al giudice di operare un corretto controllo, anche mediante le opportune e necessarie verifiche istruttorie, sul puntuale e integrale raggiungimento dell’obiettivo della eliminazione delle conseguenze del reato edilizio, non potendosi ammettere che venga dichiarata l’estinzione del reato, per compiuto e positivo esito, in presenza di un abuso non completamente demolito o non integralmente sanato (ricorrendone le condizioni) sul piano urbanistico.

Ne consegue che, nella materia edilizia, la corretta applicazione, da parte del giudice, della sospensione del processo con messa alla prova passa, doverosamente, per la preventiva verifica della avvenuta effettuazione, da parte dell’imputato, di condotte atte a ripristinare l’assetto urbanistico violato con l’abuso, o mediante la sua piena e integrale demolizione ovvero mediante la sua riconduzione, ove possibile, alla legalità attraverso il rilascio di un legittimo (e dunque non condizionabile all’esecuzione di futuri interventi) titolo abilitativo in sanatoria; di modo che tale verifica rende, almeno nella normalità dei casi, implicitamente superata la problematica del potere/dovere del giudice di ordinare la demolizione anche a seguito di sentenza ex art. 168-ter Cod. pen., nella misura in cui, secondo il descritto fisiologico decorso delle cadenze procedimentali, tale ordine giudiziale non dovrebbe infatti avere più ragion d’essere una volta accertata l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (Sez. 3, 40451/2018).

È da escludere, a dispetto dell’incompiutezza della disposizione normativa (art. 168-bis Cod. pen.) che, in presenza dei reati inclusi nella forbice edittale prevista, l’imputato possa esercitare un diritto alla messa alla prova, restando al giudice il solo sindacato di verifica della ricorrenza dei presupposti formali: al contrario, la concessione del beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi della norma citata, è rimessa al potere discrezionale del giudice e postula un giudizio volto a formulare una prognosi positiva riguardo all’efficacia riabilitativa e dissuasiva del programma di trattamento proposto ed alla gravità delle ricadute negative sullo stesso imputato in caso di esito negativo (Sez. 4, 9581/2015).

Secondo l’art. 464-quater comma 3 «La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 del codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati». Il tenore letterale della norma e l’utilizzo della congiunzione “e” comportano che le due condizioni (programma di trattamento e prognosi favorevole di astensione dalla commissione di futuri reati) debbano concorrere ai fini della valutazione discrezionale rimessa al giudice, trattandosi di giudizi diversi, riferibile il primo alla idoneità del programma, l’altro alla personalità dell’imputato.

Ne consegue che il giudizio prognostico negativo in ordine a quest’ultimo impedisce l’ammissione al beneficio, a prescindere dalla circostanza che sia stato o meno presentato il programma di trattamento (Sez. 5, 7983/2015).

È illegittima la decisione con cui il tribunale rigetti la richiesta di sospensione per messa alla prova a cagione dell’assenza del programma di trattamento, considerato che, ex art. 464-bis comma 4 primo periodo, detta richiesta è ritualmente proposta non solo quando sia accompagnata dal programma di trattamento, ma anche quando, non potutosi predisporre detto programma, ne sia comunque rivolta specifica istanza all’UEPE.

Non è, invece, consentito, ex art. 464-ter comma 3, al giudice decidere sull’istanza di messa alla prova prima di avere visionato il programma di trattamento in questione (Sez. 5, 31730/2015). Il quadro normativo che regola l’istituto della messa alla prova non fissa un confine rigido fra il programma di trattamento elaborato dall’ UEPE, di intesa con l’imputato, e il provvedimento del giudice con il quale si dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova.

Non si prevede, in particolare, se la durata del lavoro di pubblica utilità debba essere fissata dal primo o dal secondo di tali atti, ferma restando la necessità di un vaglio di congruità della sua durata complessiva e della sua intensità da parte del giudice, in ragione della sua natura di sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva.

Dalle norme del codice di procedura si evincono una durata minima di dieci giorni e una massima che, in mancanza di diverse indicazioni, non può che coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); un’intensità massima di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo.

Evidentemente, il controllo del giudice non può che comportare oneri motivazionali diversi a seconda che il programma, accettato espressamente dall’imputato, indichi la durata del lavoro di pubblica utilità ovvero non la indichi.

Nel primo caso, infatti, la motivazione del successivo provvedimento del giudice potrà limitarsi a un richiamo alla congruità di quanto già previsto di intesa fra l’imputato e l’UEPE; nel secondo caso, sarà invece necessaria una motivazione più pregnante. E le considerazioni che precedono valgono per ogni altro aspetto non disciplinato, in tutto o in parte, dal programma di trattamento (Sez. 1, 15701/2018).

Qualora il giudice, nel disporre la sospensione del procedimento penale con messa alla prova, si limiti a recepire il programma di trattamento, l’onere motivazionale su di lui incombente può intendersi soddisfatto anche attraverso un semplice richiamo alla congruità del programma, trattandosi di un elaborato dall’UEPE di intesa con l’imputato e, dunque, conosciuto e condiviso da quest’ultimo.

Qualora, invece, il giudice non si limiti a recepire il contenuto del programma ma lo integri (ad esempio fissando la durata del lavoro di pubblica utilità, non determinata nel programma), deve fornire una motivazione che non può limitarsi ad un semplice richiamo al programma stesso o, genericamente, ai parametri dell’art. 133 Cod. pen., ma deve dare conto delle ragioni delle scelte operate in relazione alle peculiarità del caso concreto, in base ad una valutazione virtuale della gravità concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione (Sez. 3, 1072/2017).

L’indicazione contenuta nell’art. 168-bis, comma 2, Cod. pen. ha natura prescrittiva ma non assoluta, come chiaramente evidenziato dalla locuzione “ove possibile”, sicché risulta ingiustificato ritenere che la sospensione del procedimento con messa alla prova sia necessariamente subordinata all’integrale risarcimento del danno: deve, infatti, in concreto verificarsi se il risarcimento del danno sia o meno possibile, se la eventuale impossibilità derivi da fattori oggettivi estranei alla sfera di dominio dell’imputato, o se essa discenda dall’imputato, e se, in tale ultimo caso, sia relativa o assoluta e riconducibile o meno a condotte volontarie dell’imputato medesimo, potendo l’impossibilità ritenersi ingiustificata, e quindi potenzialmente ostativa alla ammissione alla messa alla prova, solo in tale ultima ipotesi (Sez. 3, 5784/2018).

In tema di sospensione condizionale della pena, nel caso in cui il beneficio venga subordinato all’adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno, il giudice della cognizione non è tenuto a svolgere alcun accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato, salva l’ipotesi in cui emergano situazioni che ne facciano dubitare della capacità economica di adempiere, ovvero quando tali elementi siano forniti dalla parte interessata, rientrando nella competenza del giudice dell’esecuzione la verifica dell’eventuale impossibilità di adempiere da parte del condannato (Sez. 4, 50028/2017).

Il periodo di prova ha inizio, ex art. 464-quater, con ordinanza del giudice, emessa dopo l’audizione delle parti processuali e dopo la formulazione del programma di trattamento redatto ai sensi dell’art. 464-bis e ritenuto idoneo dal giudice.

Tale ricostruzione è coerente con l’ulteriore disciplina dell’istituto, che, nello stabilire la durata massima della sospensione del procedimento (variabile, a seconda della sanzione edittale), sancisce la decorrenza della sospensione “dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova dell’imputato” (art. 464-quater, comma 6); il che comporta che il periodo di prova non può avere durata superiore a quella stabilita dall’art. 464-quater, periodo che verrebbe spesso superato ove venisse computato anche il tempo intercorrente tra la richiesta di messa alla prova e quello di emanazione dell’ordinanza (di sospensione con messa alla prova) da parte del giudice (ordinanza che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere emanata in udienza e consacrata “dalla sottoscrizione del verbale” da parte del giudicante).

La suddetta ricostruzione è coerente, altresì, con la disciplina della prescrizione, che rimane sospesa “durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova” (art. 168-ter Cod. pen.): periodo che, per quanto detto, decorre dalla “sottoscrizione del verbale” (Sez. 5, 43645/2017).

Il consenso alla modifica/integrazione disposta dal giudice con il provvedimento con cui il giudice modifichi il programma di trattamento elaborato ai sensi dell’art. 464-bis, comma secondo, cod. pen., ove prestato dal sostituto processuale del difensore di fiducia, sprovvisto di procura speciale, è privo di effetti, in quanto i poteri che derivano da tale procura si caratterizzano “intuitu personae” e non possono essere compresi fra quelli esercitabili dal sostituto processuale del difensore a norma dell’art. 102 (Sez. 3, 16711/2018).

È illegittima la modifica del programma di trattamento, elaborato ai sensi dell’art. 464 bis, comma 2, che venga disposta dal giudice senza la consultazione delle parti e in assenza del consenso dell’imputato in quanto l’art 464-quater, comma 4, prevede la possibilità per il giudice di integrare o modificare il programma di trattamento ma con il consenso dell’imputato; tale consenso deve ritenersi vincolante, sia alla luce dell’inequivoco tenore della disposizione, sia in considerazione della struttura dell’istituto, che è rimesso alla iniziativa dell’imputato e nell’ambito del quale il programma di trattamento deve essere elaborato d’intesa con l’UEPE, cosicché deve ritenersi che in caso di mancanza di consenso alle modifiche o integrazioni il programma, come elaborato d’intesa tra l’imputato richiedente e l’UEPE, non possa essere modificato, sicché il giudice dovrà decidere su di esso nella sua originaria formulazione (Sez. 3, 5784/2018).

L’ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 586 in quanto l’art. 464-quater, comma 7, nel prevedere il ricorso per cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con la messa alla prova (SU, 33216/2016).

Il PG presso la corte di appello non è legittimato ad impugnare l'ordinanza di accoglimento dell'istanza di sospensione del procedimento neppure insieme alla sentenza con la quale il giudice dichiara l'estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo il procuratore generale individuato tra i soggetti - l'imputato, il pubblico ministero e la persona offesa - che possono proporre ricorso per cassazione contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova ai sensi dell'art. 464- quater, comma 7 (Sez. 6, 18317/2021).

La disciplina in materia dei controlli sui provvedimenti di messa alla prova risulta piuttosto scarna, ma non per questo meno problematica; l’art. 464-quater regola anche la fase decisoria, prevedendo, innanzitutto, che il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129, decide con ordinanza nel corso della stessa udienza, sentite le parti, ovvero in apposita udienza in camera di consiglio da fissare a tale scopo; inoltre, si precisa che possa sospendere il procedimento con messa alla prova quando, in base ai parametri di cui all’art. 133 Cod. pen., reputi idoneo il programma di trattamento e ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati; è il comma 7 che disciplina il regime delle impugnazioni, stabilendo che contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova possono ricorrere per cassazione l’imputato e il PM, anche su istanza della persona offesa e che l’impugnazione non sospende il procedimento.

Certamente, dunque, la norma consente l’impugnabilità diretta ed autonoma del provvedimento con il quale, in accoglimento dell’istanza dell’imputato, il giudice abbia disposto la sospensione del procedimento, giacché in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta (Sez. 3, 16711/2018).