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Art. 270-quinquies - Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (1)

1. Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata, nonché della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’articolo 270-sexies (2).

2. Le pene previste dal presente articolo sono aumentate se il fatto di chi addestra o istruisce è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (3).

(1) Articolo aggiunto dall’art. 15, DL 144/2005 convertito, con modificazioni, con L. 155/2005.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, comma 3, lett. a), DL 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. 43/2015.

(3) Comma aggiunto dall’art. 1, comma 3, lett. b), DL 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. 43/2015.

Rassegna di giurisprudenza

L’art. 2-bis della L. 895/1967, introdotto dall’art. 8, comma 5, DL 144/2005, convertito, con modificazioni, dalla L. 155/2005 (intitolato "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale"), punisce chiunque, fuori dei casi consentiti da disposizioni di legge o di regolamento e salvo che il fatto costituisca più grave reato, "fornisce istruzioni in qualsiasi forma, anche anonima, o per via telematica sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da guerra, di aggressivi chimici o di sostanze batteriologiche nocive o pericolose e di altri congegni micidiali".

Tale ipotesi di reato, secondo quanto precisato nella relazione alla legge di conversione del menzionato DL, era stata introdotta allo scopo di calibrare "la fattispecie e la relativa sanzione con il disposto degli articoli 1, 2 e 5 della L.895/1967, riguardante le armi da guerra, quelle chimiche e batteriologiche e gli altri congegni micidiali".

Dalla lettura combinata della disposizione prevista dall’art. 2-bis L. 895/1967 e di quelle di cui agli artt. 1 della medesima legge (che punisce colui il quale fabbrica, introduce nello Stato o pone in vendita o cede a qualsiasi titolo armi da guerra o tipo guerra o parti di esse senza licenza dell’autorità) e 1 del RD 773/1931 (secondo cui l’autorità di pubblica sicurezza, alla quale spetta, ai sensi dell’art. 28 dello stesso decreto, il rilascio della licenza, veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà), si evince che la fattispecie in esame è posta a tutela dell’ordine pubblico e, più precisamente, a protezione dell’interesse alla prevenzione dei reati e, in particolare, della vita e della incolumità individuale. Interpretazione confermata dal raffronto con l’art. 695, che disciplina la contravvenzione di "fabbricazione o commercio non autorizzati di armi", che la dottrina pone a tutela del bene giuridico dell’ordine pubblico, inteso nell’accezione indicata.

Tale fattispecie realizza, all’evidenza, una anticipazione della tutela penale, punendo non già l’uso di determinati dispositivi ad alto potenziale offensivo, quanto piuttosto la mera divulgazione delle informazioni necessarie per la loro preparazione, secondo il paradigma tipico dei reati di pericolo. All’interno di tale categoria rientrano anche talune fattispecie caratterizzate dalla possibilità che pur realizzandosi l’azione tipica uno actu, si verifichi comunque una durevole compromissione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (cd. reati "eventualmente permanenti") (Sez. 1, 21948/2018).

L’art. 270-quinquies sanziona con la reclusione da 5 a 10 anni "chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale"; la stessa norma incriminatrice, di seguito, prevede l’irrogazione della medesima pena sia nei confronti dell’addestrato, sia nei confronti "della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’articolo 270-sexies".

Appare evidente come la previsione incriminatrice descriva una ipotesi di reato di pericolo, recante la punibilità anticipata di atti prodromici al compimento di condotte terroristiche: ed è altrettanto pacifico che, per individuare i limiti della fattispecie sanzionata, sia sul piano oggettivo che in tema di ricerca di un adeguato standard di riferibilità psicologica del fatto all’agente, le indicazioni della giurisprudenza anteriore alla novella appena ricordata possono comunque valere come avvertenza generale, per l’interprete, al fine di garantire il rispetto dei canoni costituzionali di materialità e sufficiente determinatezza.

Fermo restando che un conto è discutere di addestramento vero e proprio, o quanto meno di istruzioni mirate, vuoi dal lato di chi impartisce indicazioni operative obiettivamente orientate ad atti di terrorismo, vuoi dal punto di vista di chi ne riceve; altra cosa è riconoscere penale rilevanza  come impone la scelta compiuta dal legislatore nel 2015  alla condotta del soggetto che riceve autonomamente informazioni utili a compiere violenze, sabotaggi o quant’altro, con la conseguente necessità di discernere quale uso egli abbia fatto o renda manifesto di voler fare delle informazioni medesime, acquisite senza che altri avessero inteso fornirle specificamente a lui.

Procedendo ad una essenziale rassegna degli interventi maggiormente significativi della giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’art. 270-quinquies, deve ricordarsi che già nel 2011 si affermava come la fattispecie delittuosa in esame contemplasse quali soggetti attivi soltanto «l’addestratore, ossia colui che non si limita a trasferire informazioni ma agisce somministrando specifiche nozioni, in tal guisa formando i destinatari e rendendoli idonei ad una funzione determinata o ad un comportamento specifico, l’informatore, ossia colui che raccoglie e comunica dati utili nell’ambito di un’attività e che, quindi, agisce quale veicolo di trasmissione e diffusione di tali dati, e, infine, l’addestrato, ossia colui che, al di là dell’attitudine soggettiva di esso discente o dell’efficacia soggettiva del docente, si rende pienamente disponibile alla ricezione non episodica di quelle specifiche nozioni alle quali si è fatto sopra riferimento».

Venivano quindi escluse dal novero delle condotte di rilievo penale sia  da un lato  quella del responsabile di attività di semplice divulgazione o proselitismo, sia  dall’altro, in virtù dei limiti del precetto allora sanzionato  quella del mero "informato", individuabile in colui che rimane «occasionale percettore di informazioni al di fuori di un rapporto, sia pure informale, di apprendimento e che non agisce a sua volta quale informatore/addestratore» (Sez. 1, 38220/2011).

La quasi Sez. 6, 29670/2011 si occupava più diffusamente della nozione di "addestramento" e degli addentellati di questa, osservando che «la ratio dell’art. 270-quinquies è agevolmente individuabile nella necessità di reprimere specifici comportamenti funzionali alla preparazione di veri e propri attentati. Si è, infatti, in presenza di un delitto a consumazione anticipata inserito dall’art. 15 comma 1, DL 144/2005, emanato in attuazione dell’art. 7 della Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005 che descrive l’addestramento per il terrorismo come quella condotta consistente nel fornire istruzioni per la fabbricazione o l’uso di esplosivi, armi da fuoco od altre armi ovvero di sostanze nocive e pericolose nonché su altri metodi o tecniche specifiche allo scopo di commettere un reato di terrorismo o di contribuire alla sua commissione, con la consapevolezza che la formazione procurata ha lo scopo di servire alla realizzazione di tale obiettivo [...].

Sul piano oggettivo, viene perseguita un’attività di tipo conoscitivo consistente, da un lato, nell’addestramento o nella fornitura di istruzioni alla preparazione o all’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco, di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo (e qui la condotta assume una proiezione finalistica che sintetizza le poliformi attività di addestramento e di istruzione, così da esorbitare dal dato puramente oggettivo) per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali».

La stessa decisione, dato atto della necessità di un doppio orientamento finalistico della condotta tipica sanzionata dalla norma (strumentale, al contempo, alla realizzazione di violenze o sabotaggi ed al perseguimento di scopi di terrorismo, comuni sia all’addestratore che all’addestrato), avvertiva comunque l’esigenza «di proteggere il principio di offensività, da ricollegare ai fini corrispondenti a momenti teleologici non necessariamente interagenti ma comunque scomponibili e senza che sia individuabile tra di essi un vincolo di continenza. Una precisazione davvero indispensabile perché, proprio dal rilievo giuridico assegnato a ciascuna delle due finalità è possibile attribuire alle condotte descritte dall’art. 270-quinquies valore designante pure per la necessità di verificare la possibilità di realizzazione dello scopo divisato».

I giudici di legittimità, in quell’occasione, mostravano di aderire «all’opinione che ravvisa l’addestramento come contrassegnato da una vera e propria interazione tra l’addestratore e l’addestrato, che presupporrebbe (almeno di norma) un contatto diretto tra il primo ed il secondo, secondo i caratteri tipici dell’attività militare o paramilitare; addestrare è, dunque, rendere abile alle attività oggetto dell’addestramento, così da rendere punibile, allorché l’addestramento si sia compiuto e la "recluta" sia divenuta un vero e proprio "addestrato", anche quest’ultimo (art. 270-quinquies, ultimo periodo). Una soluzione, quella adesso prospettata, da ritenere addirittura costituzionalmente necessitata perché se l’addestramento non sortisce il risultato voluto dall’addestratore che diviene correo dell’addestrato solo nel caso in cui la sua opera abbia esito positivo, la distanza anche rispetto al primo fine (oggetto del primo dolo specifico) renderebbe non ipotizzabile, non soltanto l’elemento psicologico ma anche la condotta tipica descritta dall’art. 270-quinquies [...].

L’addestramento, inteso come esercizio alla preparazione o all’uso di armi, etc., si realizza sia attraverso dimostrazioni pratiche sia attraverso dimostrazioni teoriche, alternate [...] a letture o prediche sul valore religioso del martirio e sui vantaggi post mortem, "completando così un’opera di condizionamento mentale e di distacco dalla vita reale, che è il presupposto per compiere gli attacchi terroristici e le missioni suicide". Ciò se e sempre che venga dimostrata la concreta idoneità della condotta di addestramento (che solo in tal caso può denominarsi tale) a mettere in condizione l’addestrato di porre in essere gli atti descritti nell’art. 270-quinquies». Anticipando profili problematici utili alla comprensione e valutazione della odierna fattispecie concreta, la sentenza in esame segnalava che «la sola punibilità dell’addestrato, e non anche della persona "istruita" in ordine alle attività descritte dall’art. 270-quinquies, pur in presenza della medesima pena comminata per le due corrispondenti condotte di addestramento e di istruzione, rende possibile una più puntuale distinzione tra le due condotte.

Esclusa, anche in base al periodo di chiusura della norma in esame, che le due attività possano identificarsi, pare corretta la tesi di quella dottrina che ravvisa nel "fornire istruzioni" (anche) una diffusione ad incertam personam, che può essere effettuata pure a distanza, attraverso mezzi telematici e, quindi, nei confronti di soggetti che non si è in grado di stabilire se siano in grado di apprendere realmente le istruzioni impartite. Una distinzione che può dirsi valida pure nel caso [...] di partecipazione a veri e propri fori telematici con possibile scambio di informazioni ed in cui la persona dell’istruttore e dell’istruito finiscono talune volte per confondersi, stante l’intercambiabilità dei ruoli stessi.

Tutto ciò sempre discriminando tra attività di istruzione e propaganda ideologico-religiosa pure significativa [...] della metodologia composita che contrassegna entrambe le condotte». In ogni caso, la pronuncia richiamata affermava con chiarezza che, già in ordine alla prima delle peculiari connotazioni soggettive della condotta sanzionata, «la finalizzazione dell’addestramento e dell’istruzione verso il compimento di atti di violenza, etc. postula, perché la fattispecie venga realizzata, l’idoneità del contatto a realizzare il risultato perseguito. I più accreditati orientamenti dottrinari in materia [...] tendono a ravvisare sempre e comunque nei reati a dolo specifico caratterizzati dall’assenza di un evento naturalistico, delle ipotesi di reato di pericolo concreto entro il quale allo scopo perseguito deve corrispondere  proprio per l’eccesso del momento volitivo, qui per ben due volte chiamato in causa  l’oggettiva idoneità della condotta a realizzare l’evento costituente l’obiettivo della condotta.

 

Tanto da far ritenere che tale idoneità (pur nell’immanenza della sua esclusiva base finalistica) costituisce un requisito immancabile per l’individuazione della stessa tipicità della condotta. In altri termini, la consumazione anticipata nei reati a dolo specifico presuppone, perché il fatto non si esaurisca entro una fattispecie in cui assume un rilievo esorbitante l’elemento volontà di scopo, che sussistano atti che oggettivamente rendano la detta volontà idonea a realizzare lo scopo; un’esigenza metodologica necessitata perché la costruzione sistematica di tali reati postula, di per sé, solo il valore quasi assorbente della finalità perseguita; cosicché se tale finalità non sia concretamente perseguibile perché le attività poste in essere sono inidonee al raggiungimento dello scopo, si perviene a costruire una fattispecie di pura volontà; con un’anticipazione della consumazione non riconoscibile sul piano del possibile giuridico perché resta inipotizzabile ogni offesa, non soltanto (quel che qui interessa) sotto il profilo del pericolo concreto, ma anche sotto il profilo del pericolo presunto, costruendosi una figura di reato contrassegnata da una sorta di "pericolo del pericolo" che, perciò solo, non può essere verificato se non utilizzando criteri di inferenza palesemente arbitrari [...].

Può dirsi, dunque, che sotto il profilo rappresentativo assume valore dirimente l’oggetto dello scopo che muove l’agente verso l’azione che diviene tipica soltanto se è riferibile ad un momento esterno da individuarsi in quel risultato specifico descritto nella prima parte dell’art. 270-quinquies; nel senso che tale risultato, pur ovviamente non dovendo raggiungere le soglie del tentativo, deve comprovare la serietà dell’azione rispetto al primo fine, proiettandosi all’esterno attraverso momenti concreti di corrispondenza nei confronti della fattispecie».

Quanto al secondo corno del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, la decisione in commento si soffermava sulla nozione di "condotte con finalità di terrorismo", desumibile dal successivo art. 270-sexies (facendo presente che debbono considerarsi tali le "condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia"): perciò, doveva ritenersi indispensabile ravvisare quella connotazione teleologica nel comportamento dell’addestratore o dell’istruttore e, come espressamente avvertiva la sentenza, «il problema rimanda, ancora una volta, al tema della idoneità degli atti [...] a realizzare l’ulteriore finalità, riproducendosi altrimenti il medesimo deficit di offensività di quella che si è definita la finalità strumentale».

Con la successiva Sez. 1, 4433/2014 si tornava a distinguere la condotta di addestramento od istruzione da quella non qualificabile come insegnamento, bensì quale mera divulgazione o proposta ideologica. Vi si affermava che nella configurazione della fattispecie criminosa «auto ed etero addestramento sono reato, l’informazione e il proselitismo no, rientrando nel perimetro delle libertà individuali costituzionalmente protette [...]. E’ proprio la norma in contestazione dell’art. 270-quinquies che, punendo condotte di addestramento o istruzione di tipo militare (sulla preparazione o uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali) con finalità di terrorismo (il comma 2 della norma estendendo la punizione delle condotte vietate alle persone addestrate e quindi anche al soggetto che si auto addestri), impone la distinzione tra formazione e informazione (ovvero tra insegnamento e divulgazione), senza potersi anticipare la soglia di punibilità a uno stadio della condotta che non sia ancora insegnamento ma mera divulgazione ovvero (laddove la finalità sia di terrorismo) di proposta ideologica.

Per il principio di legalità di cui all’art. 1 cod. pen. non si possono, cioè, promuovere manifestazioni di pericolosità sociale (sia pur grave e qualificata) a condotte penalmente rilevanti: le nozioni fornite (od acquisite) di tipo militare devono essere, appunto, idonee a costituire in chi le riceve (o le acquisisce) un bagaglio tecnico sufficiente a preparare o ad usare armi e quant’altro, non solo [...] a suscitare o ad aumentare il proprio o altrui interesse in tale settore». Ancora di seguito, Sez. 6, 28009/2014 (con una pronuncia dedicata alle vicende del movimento c.d. "NO TAV") si soffermava in termini assai approfonditi ed analitici sulla nozione di "finalità di terrorismo" di cui all’art. 270-sexies; nozione che  secondo una delle massime ufficiali ricavate dalla decisione  non può ritenersi integrata solo in base alla direzione dell’atteggiamento psicologico dell’agente, essendo invece necessario che la condotta posta in essere «sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto articolo (intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali ecc. di un Paese o di un’organizzazione internazionale), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell’intero Paese.

La sentenza in questione muoveva il proprio excursus dal rilievo che il soggetto attivo del reato in argomento, «sul piano della rappresentazione e della volizione [...], opera in una duplice direzione. In primo luogo vuole un "grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale", o almeno vuole creare condizioni che seriamente conducano in quella direzione. In secondo luogo, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, o infine costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o a non compiere un qualsiasi atto [...]. Subito si evidenzia la particolare struttura del dolo. Salva ogni osservazione in punto di idoneità dell’azione al fine, quale profilo strutturale dei casi di dolo specifico, la prima parte della norma descrive un evento di pericolo, che deve concretamente profilarsi e che, nei riflessi soggettivi, deve pienamente riprodursi. La legge non si limita ad esigere il fine di produrre un "grave danno", ma esige l’obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso) [...]: già il tenore letterale della norma implica che non basta l’intenzione del danno, posto che la condotta deve creare la possibilità che si verifichi.

Un evento di pericolo concreto, dunque, da valutare secondo l’ordinario paradigma della prognosi postuma». Si giungeva nell’occasione ad affermare che il finalismo terroristico descritto dall’art. 270-sexies non poteva considerarsi un fenomeno esclusivamente psicologico, dovendosi piuttosto «materializzare in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma medesima». In ordine alle caratteristiche oggettive e soggettive dei delitti di attentato, i giudici di legittimità precisavano altresì come gli stessi dovessero intendersi «segnati sul piano materiale dalla univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dalla idoneità degli atti medesimi a produrre la relativa lesione, con la conseguenza che la loro integrazione, sul piano del dolo, resta esclusa nel caso di mera accettazione del rischio che il bene giuridico subisca l’offesa», per poi aggiungere  attraverso una parallela disamina delle tematiche correlate alla disciplina del tentativo  che «il requisito di idoneità concorre anche a circoscrivere il fatto punibile secondo il principio di tassatività, poiché in sostanza inserisce nella previsione di legge il divieto di creare situazioni pericolose per un determinato interesse.

Ma per lo stesso scopo è indispensabile che il criterio concorrente dell’univocità sia inteso quale essenza del fatto criminoso, e non semplicemente quale tema di prova o caratteristica dell’elemento psicologico. Occorre cioè, sul piano obiettivo, che le condizioni in cui matura l’azione denuncino univocamente l’orientamento causale della condotta verso un evento dato, tipicamente previsto dalla legge penale e diverso da ogni altro. Solo a queste condizioni la tecnica di tipizzazione del tentativo si accosta ad altre, fondate appunto sull’orientamento e non sulla descrizione (è il caso ad esempio del reato concorsuale ex art. 110), e con esse condivide, secondo l’opinione ampiamente maggioritaria, uno status di compatibilità con l’art. 25 Cost. [...]. Dal punto di vista pratico, del resto, la corrispondenza tra il fine concreto di un determinato agire e la congruenza allo scopo degli atti compiuti, secondo un criterio di comune apprezzamento, rappresenta la modalità di gran lunga più frequente di accertamento del dolo punibile. Se la univocità "obiettiva" è elemento costitutivo della fattispecie, l’atteggiamento della volontà non può che conformarsi sulla medesima.

A maggior ragione, l’unidirezionalità del momento volitivo risulta indefettibile qualora il requisito dell’univocità venga invece concepito in termini essenzialmente soggettivi Nei delitti di attentato manca, in realtà, il riferimento esplicito a quei fattori tipizzanti che invece caratterizzano la previsione dell’art. 56, cioè l’idoneità e l’univocità degli atti. Se si guarda per altro al panorama dottrinale recente, è comune l’opinione che si tratti di requisiti necessari anche per le figure in questione. L’assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità fra tentativo e attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie. Anche in giurisprudenza, poi, si è affermata stabilmente l’esigenza che la condotta di attentato presenti un connotato di idoneità, anche se le variazioni dovute alla pluralità delle fattispecie ed al correre del tempo varrebbero ad evidenziare, in esito ad un esame approfondito, concezioni non del tutto omogenee del relativo concetto».

La giurisprudenza di legittimità si è invece chiaramente espressa nel senso di ritenere reati di pericolo presunto quelli previsti dall’art. 270-bis in tema di condotte di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento o partecipazione ad associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico: in tale prospettiva, richiamando anche precedenti conformi, una recente decisione (Sez. 5, 48001/2016) ha precisato che «la ravvisabilità della condotta associativa, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di effettività che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso [...] è determinante in tal senso il fatto che, nella previsione normativa, la rilevanza penale dell’associazione sia legata non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità.

Costituiscono pertanto elementi necessari, per l’esistenza del reato, in primo luogo l’individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell’associazione, quanto meno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione». Ne deriva, sempre secondo tale decisione, che una «attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non dà [...] la necessaria consistenza a quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell’associazione in esame.

Alla vocazione al martirio è stata invero attribuita significatività ai fini della ravvisabilità del reato; ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l’adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata aliunde riconosciuta l’effettiva operatività [..] e, comunque, laddove alle attività di indottrinamento e reclutamento sia affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento [...], che attribuisca all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, "si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo"».

In quella fattispecie concreta, pertanto, si è ritenuto che il gruppo delineato dagli inquirenti si fosse limitato solamente «ad un’attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del combattimento per l’affermazione dell’islamismo e della morte per tale causa. Attività che può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito; al più realizzando presupposti di pericolosità dei soggetti interessati valutabili ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione».

Alla luce dei principi appena richiamati, deve senz’altro affermarsi che, per la ravvisabilità del delitto di cui all’art. 270- quinquies (anche con riguardo alla ipotesi descritta nell’ultima parte del primo comma), è pur sempre necessario che il soggetto attivo ponga in essere comportamenti significativi sul piano materiale, senza limitarsi ad una semplice attività di raccolta di dati informativi, od a manifestare le proprie scelte ideologiche (riassunzione dovuta a Sez. 5, 6061/2017).

La previsione della fattispecie criminosa ex art. 270-quinquies ha certamente consentito di colmare lacune normative rilevate già in sede internazionale e, in adesione alle direttive del legislatore internazionale, di ampliare  perseguendo finalità preventive e non solo reattive  la tutela contro il fenomeno terroristico, criminalizzando condotte di training concretizzantisi nella dazione e ricezione di nozioni in materia di preparazione ed uso di esplosivi, di armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, di tecniche e metodi per il compimento di atti di violenza, di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo anche internazionale.

Quanto ai soggetti, il legislatore ha individuato le categorie complementari di "colui che addestra o comunque fornisce istruzioni" sulle materie sopra indicate e la "persona addestrata", per tutti prevedendo la medesima pena. Da un lato, dunque, la norma, nella previsione della condotta illecita, fa riferimento al concetto di conferimento ed acquisizione di tecniche e metodi imposti da regole prestabilite o suggerite dall’esperienza; dall’altro, individua i soggetti agenti distinguendo le figure dell’addestratore, ossia di colui che non si limita a trasferire informazioni ma agisce somministrando specifiche nozioni, in tal guisa "formando" i destinatari e rendendoli idonei ad una funzione determinata o ad un comportamento specifico, quella dell’informatore, ossia di colui che raccoglie e comunica dati utili nell’ambito di una attività e che, quindi, agisce quale veicolo di trasmissione e diffusione di tali dati, quella infine dell’addestrato, ossia di colui che, al di là dell’attitudine soggettiva di esso discente o dell’efficacia soggettiva del docente, si rende pienamente disponibile alla ricezione non episodica di quelle nozioni specifiche alle quali si è sopra fatto riferimento.

Resta di contro esclusa dalla previsione punitiva la figura del mero informato, in esso dovendosi individuare colui che rimane mero occasionale percettore di informazioni al di fuori di un rapporto, sia pure informale, di apprendimento e che non agisce a sua volta quale informatore/addestratore. E che la previsione legislativa in punto di individuazione dei soggetti chiamati a rispondere del reato de quo, nei limiti sopra tratteggiati, risponda a criteri di ragionevolezza appare di tutta evidenza solo che si considerino le finalità perseguite dalla disposizione, quelle di reprimere il fenomeno della circolazione ed acquisizione di nozioni e dati connessi a metodi di lotta politica basati sulla violenza, fenomeno dal quale é appunto estranea la posizione del mero informato. Rimane da precisare e sottolineare la irrilevanza dello specifico atteggiarsi del rapporto di addestramento, che ben può concretizzarsi al di fuori di contesti strutturati e senza estrinsecarsi in attività concrete o di verifica e sperimentazione dì quanto appreso (Sez. 1, 42726/2015).