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Art. 403 - Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone (1)

1. Chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.

2. Si applica la multa da euro 2.000 a euro 6.000 a chi offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro del culto.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 7, L. 85/2006.

Rassegna di giurisprudenza

Il sentimento religioso, quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell'art. 3 e dall'art. 20.

Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell'ipotesi dell'art. 403 legittimamente può limitare l'ambito di operatività dell'art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire "tenere a vile", e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l'art. 19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale principio dell'art. 21.

È evidente, ad esempio, a tacer d'altro, che non sussisterebbe quella libertà di far "propaganda" per una religione, come espressamente prevede e consente l'art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi. Il vilipendio, dunque, non si confonde né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l'espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamano tesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.

Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell'art. 21 (e dell'art. 19), la contumelia, lo scherno, l'offesa, per dir così, fine a sé stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato (Corte costituzionale, 188/1975).

Nella decisione 168/2005 (che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 403 nella parte in cui prevedeva, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall'art. 406), evidenziando con chiarezza l'esistenza di «esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose», la Consulta ha confermato che tutte le norme contemplate nel Capo "Dei delitti contro il sentimento religioso" «Si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l'art. 403 tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto».

In precedenza, con la decisione 188/1975, era stato affermato che il sentimento religioso, quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti (ex artt. 2, 8 e 19 Cost., ed indirettamente, art. 3 comma 1 e art. 20 Cost). Di conseguenza, il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto, come nell'ipotesi dell'art. 403, ed addirittura nei confronti del Capo della Chiesa, ossia il Papa, rappresenta una limitazione di operatività dell'art. 21 Cost., il quale garantisce la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero anche in materia religiosa.

La condotta di vilipendio certamente si connota entro i confini segnati dallo stesso significato etimologico della parola ("tenere a vile", ossia additare al pubblico disprezzo o dileggio, ovvero svilire), per cui è ben vero che il vilipendio alla religione non deve mai essere confuso con la discussione, scientifica o meno, sui temi religiosi, né con la critica, o con l'espressione di dissenso dai valori religiosi per l'adesione ad ideologie atee o di altra natura, ovvero con la confutazione, anche con toni "accesi", dei dogmi della fede (Sez. 3, 10535/2009).

Del resto anche recentemente (Sez. 3, 41044/2015), si è ribadito che "in materia religiosa, la critica è lecita quando  sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati  si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione, mentre trasmoda in vilipendio quando  attraverso un giudizio sommario e gratuito  manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione cattolica, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità, e diventi una mera offesa fine a se stessa" (Sez. 3, 1952/2017).