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Art. 328 - Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (1)

1. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

2. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

(1) Articolo così sostituito, dall’art. 16, L. 86/1990.

Rassegna di giurisprudenza

Bene giuridico tutelato dalla norma e individuazione della parte offesa

Il reato di cui all’art. 328 è compreso tra quelli commessi dai pubblici ufficiali contro la p.a. ed il bene giuridico tutelato, non è la «salvaguardia dell’organizzazione amministrativa» in quanto tale, bensì il buon andamento e la trasparenza dell’attività amministrativa (tutela dei valori-fine della legalità, probità, efficienza ed imparzialità) che devono caratterizzare l’attività della p.a., quando essa viene in contatto con i cittadini, mentre i privati non sono soggetti passivi bensì eventualmente danneggiati. In tale ottica, si deve escludere che il Codacons nella veste di ente esponenziale di interessi connessi alla tutela dell’ambiente e della salute, possa considerarsi persona offesa dei reati in argomento e quindi destinatario di quelle garanzie procedimentali previste dagli artt. 408-410 CPP (Sez. 4, 18851/2012).

Il reato di abuso d’ufficio (art. 323), come quello di omissioni d’atti d’ufficio (art. 328), hanno natura plurioffensiva, poiché idonei a ledere, oltre all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della P.A., anche l’interesse del privato a non essere leso nei propri diritti costituzionalmente garantiti dal comportamento illegittimo ed ingiusto del pubblico ufficiale (Sez. 6, 20399/2006), nonché il concorrente interesse del privato danneggiato dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto (Sez. 2, 17345/2011) (riassunzione dovuta a Sez. 6, 15515/2018).

 

Elemento soggettivo del reato

Per configurare l’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio è necessario che il pubblico ufficiale sia consapevole del proprio contegno omissivo  dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius  e il diniego di adempimento non deve trovare plausibili giustificazioni nelle norme che disciplinano il dovere di azione (Sez. 6, 36674/2015).

Quanto all’elemento soggettivo, va osservato che il rifiuto di atti professionali, dovuti per ragioni sanitarie, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, ossia con riferimento alla consapevolezza del contegno omissivo, senza tracimare in violazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato (Sez. 6, 1602/1996).

 

Elemento oggettivo del reato

Il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, tanto che esso non è integrato solo nell’ipotesi, in cui l’atto, pur rispondendo alle ragioni indicate dalla norma incriminatrice, non riveste carattere di indifferibilità e doverosità (Sez. 6, 17570/2006).

 

Rifiuto di atti che devono essere compiuti senza ritardo

In tema di omissione di atti di ufficio, per atto di ufficio che per ragione di giustizia deve essere compiuto senza ritardo si intende solo un ordine o provvedimento autorizzato da una norma giuridica per la pronta attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile, o più agevole l’attività del giudice, del PM o degli ufficiali di PG (Sez. 6, 16567/2013).

Ad integrare la fattispecie dell’omissione d’atti d’ufficio di cui all’art. 328, comma primo, non è sufficiente che il rifiuto abbia ad oggetto un qualsiasi atto d’ufficio, ma è necessario che l’atto sia "qualificato" perché compiuto per ragioni di giustizia o sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, nonché che l’atto sia "indifferibile" dovendo lo stesso essere adottato senza ritardo (Sez. 3, 5688/2014).

Le finalità tassativamente poste alla base dell’atto con riferimento alle ragioni di giustizia sono solo quelle pertinenti alla emanazione o alla esecuzione di provvedimenti giurisdizionali, esaurendosi con l’emanazione del provvedimento di uno degli organi svolgenti la funzione giudiziaria: giudice, PM, ufficiali di PG, ausiliari del giudice, ufficiali giudiziari, curatore fallimentare (Sez. 6, 4845/2019).

Il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, sicché la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogni qual volta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (Sez. 6, 3778/2019).

L’assenza di espliciti termini di legge non esclude il dovere di compiere l’atto in un ristretto margine temporale quando ciò sia necessario per evitare un sostanziale aumento del rischio per gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice (Sez. 6, 47531/2012).

Per l’integrazione del delitto di rifiuto e omissione di atti d’ufficio ex art. 328, comma primo, in relazione alla mancata adozione di uno specifico intervento, è indispensabile innanzitutto la dimostrazione della situazione legittimante il potere di intervento da parte dell’organo a tanto deputato, affinché venga accertato il presupposto oggettivo la cui presenza impone l’intervento tempestivo del funzionario istituzionalmente preposto alla funzione di controllo delle fonti di pericolo che possono incombere sulla sicurezza pubblica; solo all’esito può ritenersi sussistente un non consentito e penalmente rilevante rifiuto di adottare l’atto del proprio ufficio che per ragioni di sicurezza pubblica deve essere compiuto senza ritardo dal pubblico ufficiale (Sez. 6, 54426/2018).

Il rifiuto dell’atto, nel contesto del delitto di cui all’art. 328 rileva soltanto se avviene "indebitamente". Come già per la formulazione previgente dell’art. 328, non si è in presenza di una pleonastica riaffermazione dell’antigiuridicità segnata dalla stesse norma incriminatrice; l’avverbio, infatti, rimanda chiaramente alla disciplina dell’ufficio o del servizio, indicando che una condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che non contrasti con la norma di riferimento, con le leggi o le disposizioni amministrative che regolano competenze e forme, non è penalmente rilevante.

La contrarietà ai doveri del singolo pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, posti da leggi, regolamenti, istruzioni od ordini, è, pertanto, un elemento della tipicità che rileva anche in punto di dolo. Il contenuto del dovere di agire imposto al sanitario che effettua servizio di guardia medica è, infatti, precisato dal rinvio alla specifica disciplina subprimaria vigente in tale materia, che concorre, in funzione integratrice, a definire la condotta doverosa e, correlativamente, l’ambito della responsabilità penale dell’agente (Sez. 6, 23151/2018).

Il sanitario che effettua servizio di guardia medica è, pertanto, tenuto in virtù del terzo comma dell’art. 13 DPR 41/1991, a compiere al più presto tutti gli interventi che siano richiesti direttamente dall’utente e che, per come prospettati, presentino caratteri tali da richiedere un immediato apprezzamento del quadro clinico ed i conseguenti opportuni interventi; pertanto, ogniqualvolta la guardia medica, richiesta di una visita domiciliare non intervenga, pur presentando la richiesta di soccorso inequivoci connotati di gravità, risponderà del reato di rifiuto di atti di ufficio (Sez. 6, 40753/2016).

L’elemento oggettivo è, infatti, integrato dal rifiuto che si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, e non è integrato solo nell’ipotesi, in cui l’atto, non rivesta ex se la indifferibilità ed urgenza.

Il reato di rifiuto di atti di ufficio è, infatti, un reato di pericolo, onde la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (Sez. 6, 3599/1997) e finanche dalla circostanza che il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva.

L’esercizio del potere-dovere del medico di valutare la necessità della visita domiciliare ai sensi dell’art. 13, comma 3, DPR 41/1991 è pienamente sindacabile da parte del giudice sulla base degli elementi di prova acquisiti (Sez. 6, 43123/2017) (riassunzione dovuta a Sez. 6, 23151/2018).

 

Omissione dell’atto compiuto a richiesta di chi vi abbia interesse

L’ipotesi prevista dall’art. 328 cpv. è diretta a disciplinare esclusivamente i rapporti tra la pubblica amministrazione e i soggetti ad essa esterni, fornendo a questi ultimi uno specifico e puntuale strumento di tutela: l’omissione di atti rilevanti esclusivamente all’interno dei rapporti tra diverse amministrazioni in nessun caso può essere ricondotto a tale fattispecie. L’espressione "vi abbia interesse" sembra rinviare al soggetto privato, in quanto, sotto l’aspetto della proprietà terminologica, le situazioni soggettive delle amministrazioni pubbliche si designano piuttosto in termini di competenza, attribuzione, potestà e simili.

Ma ad ammettere una libertà lessicale e semantica del legislatore, il quale nel denominatore dell’interesse potrebbe proprio voler accumunare sia pretese dei singoli che situazioni pubbliche, queste allora, ai fini in discussione, andrebbero intese come riflesso dei pubblici interessi di cui il soggetto pubblico è istituzionalmente portatore.

Così opinando tuttavia l’applicazione del secondo comma dell’art. 328 ai rapporti in esame si porrebbe in contrasto con almeno due principi costituzionale regolanti l’attività amministrativa. In realtà, legittimare in base al solo interesse l’ufficio, l’organo o l’ente a promuovere il procedimento previsto dalla norma penale (richiesta, provvedimento o obbligo di risposta) contrasta palesemente con il canone della tipicità degli atti della pubblica amministrazione, che vincola il legislatore stesso, secondo cui occorre invece uno specifico conferimento di attribuzioni per poter partecipare procedimento.

Deve osservarsi che, come già si è accennato, la presenza di un interesse va derivata dalla generica struttura del soggetto pubblico, ente esponenziale di comunità per esempio, e questo soggetto potrebbe allora intervenire in ogni procedimento in cui, per continuare nell’esempio, quella comunità sia anche indirettamente coinvolta.

Con l’aporia dunque di un atto in ipotesi illegittimo richiesta avanzata da ente privo di competenza, ma interessato) a cui dovrebbe però rispondersi per non incorrere nella sanzione penale, aporia a giustificazione della quale non basterebbe tornare pure in questa ipotesi ad affermare l’autonomia del diritto penale da quello amministrativo. Infatti l’applicazione dell’art. 328 secondo comma ai rapporti tra amministrazioni, apparentemente giustificata da tale affermazione dagli incerti confini, verrebbe ancora ad urtare con il principio di buon andamento, producendo una superfetazione procedimentale, poiché le richieste previste dall’art. 328 potrebbero inserirsi, in maniera atipica ed imprevedibile, in qualunque fase dell’attività amministrativa, nonostante che le scansioni di queste fasi siano compiutamente disciplinate quanto alla partecipazione delle amministrazioni coinvolte.

D’altronde, ritenendosi comunque doverosa una risposta del titolare dell’ufficio richiesto all’ufficio richiedente, vi sarebbe una perfetta equiparazione tra la posizione del cittadino e quella dell’ufficio pubblico. Senonché simile equiparazione di tutela sarebbe oggettivamente del tutto irragionevole, dato che la situazione dei singoli dinanzi all’Autorità ha motivi di protezione completamente diversi da quelli che volta a volta sono a base della composizione dei pubblici interessi. Tanto è confortato dai lavori preparatori che depongono per la realizzazione di un presidio penale alla trasparenza dell’operato delle Autorità, attraverso la creazione di un diritto del singolo al procedimento: si tratta dunque di motivazioni assolutamente intrasferibili ai rapporti tra amministrazioni pubbliche. Resta infine da dire dell’adeguatezza di un sistema che equiparasse privati ed amministrazioni nel reato di omissione.

Questa adeguatezza va intesa come riduzione all’indispensabile dell’incriminazione delle fattispecie (secondo quanto traggono dall’art. 25 della Costituzione le sentenze 487/1989 e 282/1990 della Corte costituzionale) e in relazione ad essa, allo strumento dell’art. 328 si oppone a ben vedere il criterio di proporzionalità, che ne è coronario: la tutela delle amministrazioni che, in quanto dotate di competenza e in posizione sovraordinata, sono realmente legittimate alla richiesta (quale è il caso di specie) è assicurata da istituti ben più efficaci, sol che si intenda attuarli, come interventi sostitutivi, surrogatori e simili, i quali in via immediata realizzano l’interesse pubblico.

Di converso per le amministrazioni "minori", sebbene titolari di potestà e di competenza nella materia della richiesta, non è l’obbligo della risposta quello che conta, quanto ottenere il provvedimento, donde ancora l’inadeguatezza del secondo comma dell’art. 328, che in definitiva solo una risposta garantisce (Sez. 6, 2351/1998, richiamata da Sez. 6, 10110/2019).

L’azione tipica del delitto di cui all’art. 328, comma secondo, è integrata dal mancato compimento di un atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle ragioni del ritardo, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse; ne consegue che il reato, omissivo proprio e a consumazione istantanea, deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto. Ai fini dell’integrazione del delitto di omissione di atti d’ufficio, è infatti irrilevante il formarsi del silenzio-inadempimento entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato che, in quanto inadempimento, integra la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice.

È ormai costante l’orientamento secondo cui l’integrazione della fattispecie penale non interferisce con i rimedi che l’ordinamento appresta avverso l’inerzia o l’inadempimento della pubblica amministrazione che seguono canoni ed intenti di tutela distinti, certamente non esaustivi degli strumenti a disposizione del privato che potrebbe, in ipotesi, non conseguire un’adeguata tutela sol che si pensi ai limiti posti all’impugnazione degli atti, alla deducibilità dei soli vizi di legittimità (escludendosi il merito), osservandosi inoltre che, nonostante gli sforzi in tal senso operati dalla giurisdizione amministrativa, la declaratoria di annullamento non sempre soddisfa il raggiungimento degli obbiettivi che il privato intende perseguire.

La ratio della norma che prevede l’integrazione della fattispecie nell’ipotesi di inadempimento o omessa risposta decorsi i trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse, non può fondatamente essere ulteriormente compressa attraverso una duplicazione defaticante degli adempimenti necessari per conseguire (quantomeno) una risposta formulata per iscritto sulle ragioni del ritardo; circostanza che, qualora avallata, subirebbe poi le ulteriori implicazioni direttamente connesse alla disciplina amministrativa del procedimento, tanto da determinare interferenze tra le vicende penali e quelle amministrative; situazione che, attraverso la previsione del termine di trenta giorni contemporaneamente previsto dall’art. 2 L. 241/1990 e dal secondo comma dell’art. 328, il legislatore ha inteso chiaramente evitare.

Si rileva, quindi, che la richiesta scritta di cui all’art. 328, comma secondo, rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono. Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l’osservanza di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.

Ne deriva che il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest’ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto. Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza della richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata risposta nei termini.

Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall’art. 16 L. 86/1990, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo della istanza, conseguisse una più significativa tutela delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo (Sez. 6, 17536/2018).

La richiesta scritta di cui all’art. 328, comma 2, assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, 2331/2014).

In tema di omissione di atti d’ufficio, il dovere di risposta del pubblico ufficiale presuppone che sia stato avviato un procedimento amministrativo, rimanendo al di fuori della tutela penale quelle richieste che sollecitano alla P.A. un’attività che la stessa ritenga ragionevolmente superflua e non doverosa (Sez. 6, 79/2012).

Al fine di dimostrare la penale responsabilità in ordine al delitto di omissione di atto di ufficio, di cui all’art. 328, comma secondo, occorre individuare il soggetto cui è assegnata la responsabilità dell’istruttoria e del provvedimento finale, non potendosi desumere una diretta competenza dal potere di sorveglianza, se del caso gravante sul sindaco o sul direttore generale (Sez. 6, 5691/2000).

 

Casistica

Sussiste il reato di omissione di atti d’ufficio anche nell’ipotesi in cui un sanitario addetto al servizio di guardia medica non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente, limitandosi a suggerire al paziente l’opportunità di richiedere l’intervento del "118" per il trasporto in ospedale, dimostrando così di essersi reso conto che la situazione denunciata richiedeva il tempestivo intervento di un sanitario (Sez. 6, 35344/2008).

Integra il delitto di rifiuto di atti d’ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente, nonostante l’iniziale diagnosi sia stata confermata all’esito del successivo controllo ospedaliero del paziente, dovendosi ritenere sindacabile dal giudice la discrezionale valutazione del sanitario sulla necessità di compiere o meno la visita, al fine di accertare se la stessa sia stata correttamente effettuata, ovvero se costituisca un mero pretesto per giustificare l’inadempimento dei propri doveri (Sez. 6, 12143/2009).

Dopo la modifica dell’art. 328 intervenuta con la L. 86/1990, è stato escluso, seppur di tanto si sia inizialmente dubitato, che gli atti di competenza dell’autorità amministrativa, per quel che concerne la normativa edilizia ed urbanistica, rientrassero nelle ragioni di ordine pubblico. Giammai si è, però, sostenuto che tali condotte potessero rientrare nelle ragioni di giustizia, generalmente assicurate dai provvedimenti cautelari penali e dalle misure di sicurezza patrimoniali in detta materia, adottate da soggetti comunque appartenenti alla funzione giudiziaria o loro ausiliari.

L’adozione di provvedimenti di sospensione dei lavori abusivi risulta ambito dell’attività rientrante nella funzione meramente amministrativa dell’ente territoriale, in generale, e del settore a cui è attribuita tale materia, in particolare; attività disciplinata dai modi e dai tempi propri dello svolgimento dell’attività discrezionale delle pubbliche amministrazioni non specificamente riconducibili alle "ragioni qualificate" rilevanti ex art. 328, comma primo, che, per tale ragione, non integra l’indebito rifiuto penalmente rilevante (Sez. 6, 4845/2019).

L’articolo 192 DLGS 152/2006 prevede un generale divieto di abbandono di rifiuti e tale condotta è sanzionata dagli articoli 255 e 256 del medesimo decreto, analogamente a quanto disposto, dal previgente DLGS 22\1997, negli artt. 14, 50 e 51. L’abbandono dei rifiuti obbliga chiunque contravvenga al divieto a provvedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi. Obbligati in solido sono anche il proprietario ed i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.

I destinatari delle disposizioni richiamate vanno individuati in qualunque soggetto che si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli  e per ciò stesso imporgli  di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti, nocivi per la salvaguardia dell’ambiente (SU, 4472/2009).

Le operazioni finalizzate all’adempimento degli obblighi conseguenti alla violazione del divieto sono disposte dal sindaco con ordinanza, che contiene anche l’indicazione di un termine entro il quale provvedere. L’inutile decorso del termine determina l’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed il recupero delle somme anticipate. Presupposto per l’emanazione del provvedimento, secondo la giustizia amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. 5, 5609/2013), è l’esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti, a prescindere dalla loro potenzialità inquinante, poiché tale ulteriore dato fonda il diverso provvedimento consistente nell’ordine di bonifica dei terreni contaminati ex artt. 244 e 245 DLGS 152/2006.

L’emanazione dell’ordinanza e l’esecuzione in danno costituiscono un obbligo e non una semplice facoltà, al punto che si è sostenuto, in dottrina, che il sindaco deve comunque procedere alla rimozione o all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti stessi anche nel caso in cui i soggetti obbligati non siano noti o immediatamente identificabili, fatta salva la successiva rivalsa, nei loro confronti, per il recupero delle somme anticipate.

Inoltre, l’eventuale omissione configura l’ipotesi di reato sanzionata dall’articolo 328, senza che possa avere efficacia scriminante l’attesa dovuta alla preliminare individuazione, da parte dell’ufficio tecnico, dei nominativi dei proprietari dei terreni inquinati o il rispetto dei tempi necessari per la procedura d’appalto dei lavori di rimozione dei rifiuti (Sez. 6, 33034/2005).

I soggetti individuati dall’ordinanza sindacale come obbligati, una volta assunta tale veste, sono tenuti in ogni caso ad attenersi al provvedimento emanato, indipendentemente dalla effettività di tale qualifica ed è loro onere ottenere l’annullamento del provvedimento sindacale o comunque dimostrare, in sede penale, l’assenza di tale condizione soggettiva al fine di ottenere dal giudice la disapplicazione dell’atto. Non rileva neppure la circostanza che l’accumulo dei rifiuti non sia ascrivibile al comportamento del destinatario dell’intimazione o risalga a tempi antecedenti l’acquisto dell’immobile stesso (Sez. 3, 39430/2018).