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Art. 423 - Incendio

1. Chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da tre a sette anni.

2. La disposizione precedente si applica anche nel caso d’incendio della cosa propria, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità pubblica.

Rassegna di giurisprudenza

Il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio e quello di incendio è costituito dall’elemento psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art. 423 esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta, mentre, invece, il reato di cui all’art. 424 è caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento.

Pertanto, nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare, quando a detta ulteriore e specifica attività si associa la coscienza e la volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall’art. 423, è applicabile quest’ultima norma e non l’art. 424, nel quale l’incendio è contemplato come evento che esula dall’intenzione dell’agente (Sez. 7, 8399/2019).

Al fine della configurabilità del reato di cui all’articolo 423, secondo comma, per cosa propria deve intendersi quella su cui grava il diritto di proprietà dell’agente, e non quella semplicemente posseduta, o sulla quale altri vanti un diritto reale limitato (Sez. 5, 4129/2000).

L’incendio doloso della cosa altrui è disciplinato dal primo comma dell’art. 423 e si perfeziona quando risultano integrati tutti i suoi elementi costitutivi che vanno identificati nella vastità delle proporzioni delle fiamme, nella diffusività delle stesse, ossia nella tendenza a progredire e ad espandersi, e nella difficoltà del loro spegnimento. L’incendio doloso della cosa propria, disciplinato dal comma successivo della stessa norma, esige per il suo perfezionamento il riscontro che dal fatto sia derivato pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 1, 2123/2019).

Ai fini dell’integrazione del delitto di incendio, occorre distinguere tra il concetto di “fuoco” e quello di “incendio”, in quanto si ha incendio solo quando il fuoco divampi irrefrenabilmente, in vaste proporzioni, con fiamme divoratrici che si propaghino con potenza distruttrice, così da porre in pericolo la incolumità di un numero indeterminato di persone (Sez. 1, 14263/2017).

Per l’art. 423, primo comma, che prevede un reato di pericolo presunto, l’elemento materiale  ossia il fuoco che trasmoda in incendio  deve presentare connotati tali da rendere deducibili, per il loro modo di essere, in via normale e alla stregua delle norme di esperienza, il pericolo per l’incolumità pubblica: pertanto, se e quando risulti dalle prove acquisite che il fuoco, dopo aver attaccato e distrutto le prime zone oggetto di appiccamento, si sia esteso alle altre zone o pareti dell’immobile così da propagarsi o essere sul punto di propagarsi alle ulteriori parti del fabbricato, si profila raggiunta la convergente e sicura dimostrazione degli elementi costitutivi della nozione di incendio, ossia la vastità delle proporzioni del fuoco, l’appurata diffusività delle fiamme, in quanto tendenti, per l’intensità del fuoco, a espandersi, e la conseguente difficoltà del loro spegnimento.

Allora si versa nell’ipotesi delittuosa sanzionata dall’art. 423, primo comma, (Sez. 1, 14592/2000).

Il tentativo di incendio è configurabile soltanto nel caso previsto dall’art. 423, primo comma, non invece nel caso di incendio di cosa propria, nel quale l’esclusione del tentativo è giustificata dalla circostanza che, diversamente, si anticiperebbe irrazionalmente la soglia di punibilità, reprimendo il pericolo di un pericolo (Sez. 1, 6392/1998).

Integra il delitto di incendio tentato l’appiccare un fuoco che sia poi domato sul nascere, prima di poter divampare in vaste proporzioni, con fiamme divoratrici che si propaghino con potenza distruttrice, sì da porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone (Sez. 1, 4417/2009).

Il pericolo per la pubblica incolumità può essere costituito  non soltanto dalle fiamme, ma  anche dalle loro dirette conseguenze (calore, fumo, mancanza di ossigeno, eventuale sprigionarsi di gas pericolosi dalle materie incendiate) che si pongono in rapporto di causa ad effetto con l’incendio, senza soluzione di continuità (Sez. 4, 44744/2013).

Non è necessario accertare  nell’ipotesi di cui all’art. 423, comma 1  il verificarsi di un concreto pericolo per la pubblica incolumità, giacché l’altruità sia pur parziale del bene incendiato, rende inconferente il rilievo difensivo in merito all’assenza di un pericolo concreto per la pubblica incolumità, che si presume invece in modo assoluto (Sez. 1, 28843/2009).

La distruzione, la dispersione, il deterioramento e l’occultamento di cose proprie, al fine di conseguire il prezzo di una assicurazione contro gli infortuni, costituenti l’elemento materiale del reato di cui all’art. 642, possono essere cagionati con qualsiasi mezzo. Ma se l’uso di un determinato mezzo costituisce di per sé stesso reato, quest’ultimo concorre materialmente con quello di fraudolenta distruzione della cosa propria, a norma del comma primo dell’art. 81, nessun reato essendo previsto come elemento costitutivo o circostanza aggravante del delitto contemplato nell’art. 642 e viceversa.

Ne consegue che se il mezzo adoperato è l’incendio della cosa propria e ne è derivato pericolo per la pubblica incolumità, il delitto d’incendio, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2, concorre materialmente con quello dell’art. 642, in quanto, sebbene il fatto sia unico, si sono violate due diverse disposizioni di legge, senza che ricorra l’ipotesi del reato complesso di cui all’art. 84 (Sez. 1, 39767/2018).

La Corte costituzionale, con la sentenza 143/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo siano raddoppiati, rispetto al reato di incendio colposo, ai sensi dell’art. 449, in riferimento all’art. 423.

La Consulta, a fondamento dell’assunto, ha posto in evidenzia che la disciplina di cui all’art. 157, comma sesto, determina una anomalia di ordine sistematico, laddove il termine prescrizionale per i delitti realizzati in forma colposa  nella specie l’incendio  risulta addirittura superiore rispetto alla corrispondente ipotesi dolosa, se pure identica sul piano oggettivo. Il giudice delle leggi, muovendo dalla considerazione per cui la regola generale di computo della prescrizione non può certo ritenersi inderogabile da parte del legislatore, ha evidenziato che soluzioni ampliative dei termini di prescrizione ordinari possono essere giustificate, come emergente dai lavori parlamentari relativi alla legge in esame, sia dal particolare allarme sociale generato da alcuni tipi di reato, il quale comporti una “resistenza all’oblio” nella coscienza comune più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria; sia dalla speciale complessità delle indagini richieste per il loro accertamento e dalla laboriosità della verifica dell’ipotesi accusatoria in sede processuale, cui corrisponde un fisiologico allungamento dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva.

La discrezionalità legislativa in materia deve essere esercitata, tuttavia, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee, come invece era avvenuto nel caso esaminato. Con la recente sentenza 265/2017 la Corte costituzionale ha, invece, dichiarato l’infondatezza di analoga questione posta in relazione al reato di disastro colposo, risultante dal combinato disposto degli artt. 449 e 434, il cui termine prescrizionale, in base alla regola del raddoppio, risulterebbe uguale a quello previsto per il disastro doloso, disciplinato dall’art. 434 comma 2.

La Corte costituzionale, ha in tal caso, escluso la possibilità di estendere in via interpretativa il portato demolitorio della precedente sentenza 143/2014, posto che tale pronuncia si basava specificamente sull’analisi comparativa dei reati di incendio colposo e doloso per i quali la regola del raddoppio rendeva il termine di prescrizione non uguale ma nettamente più lungo per il primo rispetto al secondo. La Corte ha invero precisato che con la precedente pronuncia non si era affatto inteso affermare che vi sia una inderogabile esigenza costituzionale di stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l’ipotesi colposa un termine di prescrizione diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato, registrandosi nel nostro sistema un ragguardevole numero di casi di equiparazione.

Ha altresì, e in termini più generali, considerato che al legislatore non è precluso di ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti colposi la “resistenza all’oblio” nella coscienza sociale e la complessità dell’accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale. Ciò che dunque fonda e giustifica tali situazioni derogatorie sono ad avviso della giudice delle leggi proprio gli elementi sopra richiamati del livello di allarme sociale e laboriosità delle attività accertative dell’illecito (Sez. 4, 15206/2018).