x

x

Art. 434 - Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi

1. Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni.

2. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene.

Rassegna di giurisprudenza

In tema di offesa alla pubblica incolumità la giurisprudenza di legittimità, in linea con le affermazioni del giudice delle leggi, ha individuato tale bene nella tutela della vita e dell’incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, dal momento che il pericolo da esso cagionato deve essere caratterizzato dalla potenzialità di diffondersi ampiamente nello spazio circostante la zona interessata dall’evento e, conseguentemente, ha escluso che, ai fini della configurabilità del reato, si richieda che il fatto abbia direttamente prodotto la morte o la lesione delle persone, in quanto è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone e che l’eccezionalità della dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo. Dunque, nonostante l’inclusione della fattispecie di cui all’art. 434 nell’ambito normativo che tratta specificamente del crollo, non si richiede che di tale fenomeno il disastro replichi le caratteristiche fenomeniche e naturalistiche, essendo evidente che può farsi concretamente riferimento a un evento di natura eterogenea rispetto a quelli presi in considerazioni dalle altre fattispecie del capo in cui la disposizione in esame è inserita; è, quindi, possibile escludere, in sintonia con la giurisprudenza richiamata, che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi a un macroevento di dirompente portata distruttiva costituisca un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 434 essendo, viceversa, individuabile un evento disastroso anche in un fenomeno persistente, ma impercettibile, di durata pluriennale con le caratteristiche sopra delineate (Sez. 1, 44528/2019).

Il nostro ordinamento accoglie una nozione unitaria di “disastro”, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti (Sez. 1, 7941/2015).

Si può altresì ritenere pacifico che la fattispecie dell’art. 434, nella parte in cui punisce il disastro innominato, svolge la funzione di norma di chiusura, mirando a riempire i vuoti di tutela, all’interno del capo del codice penale nel quale la disposizione in questione è inserita. Ne discende che, nonostante l’inclusione della fattispecie di cui all’art. 434 nell’ambito normativo che tratta specificamente del crollo, non si richiede che di tale fenomeno il disastro replichi le caratteristiche fenomeniche e naturalistiche, essendo evidente che può farsi concretamente riferimento a un evento di natura eterogenea rispetto a quelli presi in considerazioni dalle altre fattispecie del capo in cui la disposizione in esame è inserita. Occorre, al contempo, rilevare che, tenuto conto delle altre fattispecie incriminatrici disciplinate dal capo del codice penale in questione, è possibile escludere che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi a un macroevento di dirompente portata distruttiva costituisca un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 434. Ne consegue che, alla fattispecie prevista dall’art. 434, possono essere ricondotti non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità. Recepita la nozione unitaria di disastro alla quale ci si è riferiti, non è possibile limitare dell’art. 434 ai soli fenomeni naturalistici macroscopici, visivamente percepibili (Sez. 1, 2209/2018).

La giurisprudenza di legittimità è assolutamente concorde nel ritenere che la fattispecie dell’art. 434, comma secondo, introduce un’ipotesi di reato aggravato dall’evento. Né possono rilevare, in senso contrario, gli argomenti che si fondano sulla natura di delitto di pericolo dell’ipotesi disciplinata dal primo comma dell’art. 434 e sull’assimilabilità di questa fattispecie di reato al modello di incriminazione del tentativo. Invero, non è contestabile che il primo comma dell’art. 434, preveda un’ipotesi a consumazione anticipata, riconducibile allo schema del delitto di attentato, ovvero del tentativo. Tuttavia, tali profili dogmatici non assumono un rilievo decisivo ai fini dell’inquadramento della fattispecie dell’art. 434, comma secondo, rispetto alla quale occorre comprendere che il legislatore, in questo come in altri analoghi delitti di attentato, ha inteso delineare autonomamente una fattispecie a consumazione anticipata, sottraendola alle regole generali della disciplina del tentativo, così rendendo, tra l’altro, irrilevanti le evenienze del terzo e quarto comma dell’art. 56 e strutturando quindi alla stregua di fattispecie aggravata l’ipotesi dell’evento realizzato. La conformazione del delitto come fattispecie di attentato eventualmente aggravato dall’evento corrisponde dunque ad una precisa scelta normativa, sorretta dalla medesima logica di politica criminale che assiste l’opzione di arretrare, eccezionalmente, la soglia della consumazione. Ne consegue che la possibilità di affermare l’inconciliabilità della configurazione dell’evento realizzato come fattispecie aggravata del delitto di attentato, ha «il difetto di pretendere di interpretare la disciplina particolare del delitto di attentato sulla base delle regole generali riferibili al delitto tentato: istituto simile, ma al quale il legislatore, disegnando la fattispecie come delitto di attentato, deliberatamente ha voluto non si facesse ricorso. In questa cornice, non si può non rilevare che la concretizzazione del disastro, così come prefigurata dall’art. 434, comma secondo, alla stregua di una circostanza aggravante, non comporta che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza dei termini di prescrizione, l’evento non debba essere considerato. Una tale opzione ermeneutica, infatti, non tiene conto del fatto che il reato deve ritenersi consumato allorché la fattispecie è compiutamente realizzata in tutti i suoi elementi costitutivi, realizzando una piena corrispondenza tra il modello legale di incriminazione prefigurato dalla fattispecie di volta in volta considerata e il comportamento illecito oggetto di vaglio. Ne discende che il riferimento alla consumazione del reato non significa esaurimento di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacché: o gli effetti dannosi coincidono con l’evento, ed allora l’esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento consumativo del reato (Sez. 1, 2209/2018).

Nel delitto previsto dal capoverso dell’art. 434, il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del “dies a quo” per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro (Sez. 1, 7941/2015).

Per le ipotesi di reato aggravato dall’evento disciplinate dall’art. 434, comma secondo, la progressione criminosa si interrompe con il verificarsi dell’evento disastroso (Sez. 1, 2181/1995).

Nell’ipotesi di cui all’art. 434, comma secondo, la realizzazione dell’evento disastroso costituisce un elemento di aggravamento del delitto disciplinato dal primo comma della stessa fattispecie incriminatrice, fermo restando che la data di consumazione del reato in questione non può che farsi coincidere con il momento in cui l’evento disastroso si è realizzato (Sez. 1, 2209/2018).

L’incolumità personale e collettiva incide sulla fattispecie prevista dall’art. 434 esclusivamente sotto il profilo della pericolosità ovvero della proiezione offensiva del comportamento illecito dell’agente, che ha per oggetto un evento materiale di natura disastrosa da intendere come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità della condotta.

Questa connotazione di pericolosità dell’evento disastroso, dunque, è indispensabile ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’art. 434, prescindendo, fatta salva la ricorrenza dell’aggravante di cui al secondo comma della stessa norma, dalle conseguenze concrete per l’incolumità delle persone, che rilevano ai soli fini della dimensione offensiva dell’ipotesi delittuosa in esame.

D’altra parte, il pericolo per la pubblica incolumità non può essere ritenuto, in quanto tale, un macroevento naturalistico, costituendo, sul piano dogmatico, l’espressione di un giudizio qualitativo di probabilità, che consente di collegare causalmente due fatti materiali, con la conseguenza che le connotazioni di pericolosità rilevano esclusivamente sotto il profilo probatorio, consentendo di ritenere sussistente il rischio di verificazione dell’evento disastroso prefigurato dall’art. 434 (Sez. 1, 7941/2015).

L’articolo 449, non a caso rubricato “delitti colposi di danno” - va chiarito ove mai residuassero dubbi - punisce anche a titolo di colpa la sola ipotesi dolosa aggravata di cui al secondo comma dell’articolo 434, e non anche quella di pericolo di cui al primo comma. Occorre, in altri termini, che si realizzi un evento di danno. Per la configurabilità del delitto di disastro colposo, in altri termini, è necessario che l’evento sì verifichi, diversamente dall’ipotesi dolosa, nella quale la soglia di punibilità è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal citato art. 434, comma 2 (Sez. 4,  4675/2007): le condotte meramente prodromiche rispetto al già più volte indicato evento di pericolo non rilevano. Una tale lettura della norma trova ulteriore conforto nel successivo art. 450, che in contrapposizione al precedente, relativo ai delitti colposi di danno, riguarda i delitti colposi di mero pericolo. Tale fattispecie anticipa la tutela rispetto a quella delineata dal precedente art. 449, incriminando anche le condotte che fanno solo sorgere o persistere il pericolo di un evento disastroso. La norma, tuttavia, non si riferisce indiscriminatamente a tutte le fattispecie di disastro, bensì solo ad alcune analiticamente indicate: disastro ferroviario, inondazione, naufragio sommersione. Si tratta di un’opzione normativa che non è casuale e trova esplicita spiegazione anche nella relazione ministeriale al progetto di codice, ove si spiega che l’esclusione della fattispecie colposa di pericolo di crollo trova giustificazione nella preoccupazione che lo sviluppo edilizio possa essere frenato da frequenti accertamenti tecnici connessi a tale fattispecie. La stessa differenziazione nell’anticipazione del punto di rilevanza penale delle ipotesi di disastro nominato rispetto a quelle di natura innominata se da un lato si aggancia alla voluntas legis di tutelare maggiormente le situazioni di pericolo relative ai cd. disastri catalogati (che per loro natura hanno una notevole carica di dannosità), dall’altro può giustificare la indicazione per la punibilità di fattispecie apparentemente anche meno distruttive come possono essere appunto i crolli delle civili abitazioni: per queste infatti deve necessariamente lasciarsi un ambito discrezionale al giudice per consentire di discernere (per escluderne la rilevanza penale) le ipotesi limite come potrebbe essere quella che del crollo di un modesto appartamento (in zona isolata) abitato da una sola persona. In proposito, dunque, si ritiene che vada qui ribadito l’indirizzo secondo il quale, in tema di delitti contro l’incolumità pubblica, le condotte colpose integranti pericolo di crollo di una costruzione non configurano il delitto di cui all’art. 449, che richiede il verificarsi di un disastro inteso come disfacimento dell’opera (Sez. 4, 1897/2009 che ha escluso che il grave, genetico disastro statico di un edificio, tanto rilevante da determinare pericolo di collasso, configurasse la fattispecie di disastro innominato colposo) (Sez. 4, 39128/2018).

Per configurare il delitto di crollo colposo è necessario che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante (Sez. 4, 6499/2018).

Attraverso le fattispecie collocate nel titolo sesto del codice penale, relativo ai reati contro l’incolumità pubblica, al cui interno trovano collocazione, per quello che qui interessa, il capo primo dedicato ai delitti dolosi di comune pericolo mediante violenza ed il capo terzo dedicato ai delitti colposi di comune pericolo, il codificatore ha inteso proteggere la sfera superindividuale di beni primari quali la vita, l’integrità fisica, la salute. La tecnica di conformazione delle incriminazioni è assai variegata e frutto di precise e tecnicamente dosate scelte di politica criminale. Per quel che qui interessa, è possibile partire dalla considerazione che il nucleo centrale di tale categoria di illeciti è costituita, nell’ambito dei reati dolosi di cui al primo capo, dalle fattispecie di disastro, ordinariamente configurate come reati di pericolo astratto. Vi compare un definito evento, contrassegnato da tipica pericolosità in relazione ai beni primari cautelati: un evento di pericolo, appunto. Si tratta di figure nelle quali non è affidata al giudice la concreta valutazione ex post della pericolosità della condotta, ma è la norma che descrive alcune situazioni tipicamente caratterizzate, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sè una rilevante possibilità di danno alla vita o all’incolumità personale. Si tratta di reati come l’incendio, l’inondazione, la frana, la valanga, il disastro ferroviario, il naufragio. L’evocazione di tali drammatiche contingenze tipiche, storicamente ben note alla legislazione penale, chiama in causa l’idea di indeterminatezza del danno che caratterizza i reati di comune pericolo. Si è infatti in presenza di eventi dotati di forza dirompente e quindi in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile. Rispetto a tali eventi, non è richiesta l’analisi a posteriori di specifici decorsi causali che è invece propria degli illeciti che coinvolgono una o più persone determinate. Al contrario, ciò che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è semplicemente la tipica, qualificata possibilità che le persone si trovino coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte alla sua forza distruttiva. Di qui l’idea di indeterminatezza. La struttura delle fattispecie è normalmente astratta; sicché al giudice è solo richiesto di verificare l’esistenza di un fatto conforme al modello tipico. Per tale ragione, i reati in questione mostrano un rapporto di tensione con il principio costituzionale di offensività: non può infatti escludersi l’eventualità che l’evento di pericolo conforme al tipo non rechi con sè una concreta misura di possibile pregiudizio per i beni cautelati. Tale pericolo può essere arginato da un lato in via interpretativa, conferendo alle sintetiche espressioni utilizzate dal codificatore per descrivere gli eventi in questione un significato che esprima, appunto, l’idea di accadimenti macroscopici, dirompenti e quindi potenzialmente lesivi nella dimensione indeterminata e superindividuale cui si è già sopra fatto cenno; dall’altro, nella fase giudiziale, accertando che il caso concreto presenti le caratteristiche di tipica offensività insite nella fattispecie astratta. Tale itinerario interpretativo è segnato anche dalla nota sentenza 286/1974. La Corte costituzionale, investita della questione di costituzionalità degli artt. 423 e 428, l’ha ritenuta infondata “tenendo anche conto che per la sussistenza dei reati di naufragio e di incendio di cosa aliena è necessario che si verifichi un evento che possa qualificarsi, appunto, naufragio od incendio, cioè un evento tale che sia potenzialmente idoneo - se pur non concretamente a creare la situazione di pencolo per la pubblica incolumità (per l’incendio sono richieste la vastità, la violenza, la capacità distruttiva, la diffusibilità del fuoco)”. Tale pronunzia, sebbene riferita a due specifiche categorie di disastri, propone con tutta evidenza enunciazioni di carattere generale che definiscono indubitabilmente il disastro come un evento macroscopico- tipicamente pericoloso. Il codificatore, come si è accennato, ha tuttavia variegato la disciplina con diversi schemi. In qualche caso, nell’ambito degli illeciti dolosi, ha anticipato ulteriormente la tutela rispetto all’evento di pericolo. Ad esempio nel danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 si punisce la condotta di chi appicca il fuoco se dal fatto sorge pericolo di un incendio. Una tecnica analoga si riscontra nella fattispecie di danneggiamento seguito da naufragio di cui all’art. 429 ed in quella di pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento di cui all’art. 431. In altri casi, invece, il tipo comprende la verificazione di un pericolo concreto. Ad esempio, nell’ambito della fattispecie di naufragio o sommersione di natante ovvero di caduta di un aeromobile di proprietà dell’agente (art. 428 comma 3), è richiesto non solo che l’evento disastroso sia potenzialmente, astrattamente idoneo a creare la situazione di pericolo ma altresì che dal fatto derivi concreto pericolo per la pubblica incolumità. E basterebbe questa constatazione a dimostrare che nelle fattispecie (come quella in esame) nelle quali manca l’evocazione di un pericolo concretamente cagionato, si è in presenza di fattispecie di pericolo astratto. In tale complessivo quadro, presenta particolare interesse sotto diversi aspetti la fattispecie di cui all’art. 434, richiamata dall’art. 449, relativa al collo di costruzioni o altri disastri dolosi. Essa da un lato anticipa la tutela sanzionando la condotta di attentato contrassegnata dal mero pericolo di crollo della costruzione, dall’altro chiede il concreto pericolo per la pubblica incolumità. La norma, inoltre, con l’espressione “un altro disastro” delinea la fattispecie di disastro innominato. Tale previsione, come emerge anche dalla relazione al progetto del codice, è ispirata all’esigenza di colmare eventuali lacune che si possono verificare nella previsione degli eventi disastrosi illeciti per effetto della evoluzione della tecnica. Di tale fattispecie si è occupata la Corte costituzionale (sentenza 327/2008) chiamata a valutare il dubbio di illegittimità costituzionale alla luce del principio di determinatezza. La Corte, nel dichiarare non fondata la questione, ha proposto alcune riflessioni che risultano interessanti anche ai fini del presente giudizio. Si rammenta che il principio di indeterminatezza è volto da un lato ad evitare che il giudice assuma un ruolo creativo individuando in luogo del legislatore i confini tra il lecito e l’illecito; e dall’altro è finalizzato a garantire la libera autodeterminazione individuale, consentendo al destinatario della norma penale di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta. Quanto alla specifica espressione “disastro” utilizzata nell’articolo richiamate” la Corte osserva che senza dubbio si tratta di formula sommaria capace di assumere nel linguaggio comune una gamma di significati ampiamente diversificati. Tuttavia la valenza del termine è illuminata dalla finalità dell’incriminazione e dalla sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità. Si tratta di evento diverso ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri contemplati negli articoli compresi nel capo relativo ai delitti di comune pericolo mediante violenza. Esso pertanto è caratterizzato dai tratti distintivi delle fattispecie di disastro tipiche, costituite da un evento distruttivo di proporzioni straordinarie anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi con conseguente pericolo per la vita e per l’integralità fisica di un numero indeterminato di persone. Tale interpretazione, conclude la Corte, è del resto conforme alla elaborazione giurisprudenziale di legittimità. Da quanto precede emerge una prima significativa conclusione, conformata sulle fattispecie dolose cui si è sin qui fatto cenno: il disastro, nominato o innominato che sia, costituisce un evento fortemente connotato sul piano naturalistico e contrassegnato da forza distruttiva di dimensioni assai rilevanti. Come si è accennato, l’ordinamento penale contempla altresì, in qualche caso, la ulteriore anticipazione della tutela, prevedendo (è il caso dell’art. 434) la fattispecie di attentato, contrassegnata dal pericolo di crollo o di disastro innominato, aggravata dalla verificazione dell’evento Resta da rapportare le indicate conclusioni all’ambito colposo definito dagli artt. 449 e 450. Quanto all’art. 449 è in primo luogo di rilevante interesse l’intitolazione “delitti colposi di danno”, che trova specificazione nella descrizione della fattispecie costituita dalla produzione, per colpa, di un incendio o di un altro disastro preveduto dal capo primo. La dizione non lascia adito a dubbi: nell’ambito colposo rileva solo la situazione in cui si sia realizzato l’evento di pericolo tipico costituito da disastro nominato o innominato, inteso come accadimento poderoso, nei termini cui si è già sopra fatto cenno. Tale conclusione è stata del resto già raggiunta in sede di legittimità quando ha affermato che per la configurabilità del delitto di disastro colposo (artt. 434 e 449) è necessario che l’evento si verifichi, diversamente dall’ipotesi dolosa (art. 434 comma 1), nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 434. Dunque, già la connotazione testuale dell’incriminazione esclude che nell’ambito colposo definito dall’art. 449 possano indistintamente rilevare condotte meramente prodromiche rispetto al già più volte indicato evento di pericolo. Tale lettura della norma trova ulteriore conforto nel successivo art. 450 che, in contrapposizione al precedente, relativo ai delitti colposi di danno, riguarda i delitti colposi di mero pericolo. Tale fattispecie anticipa la tutela rispetto a quella delineata dal precedente art. 449, incriminando anche le condotte che fanno solo sorgere o persistere il pericolo di un evento disastroso. La norma, tuttavia, non si riferisce indiscriminatamente a tutte le fattispecie di disastro, bensì solo ad alcune analiticamente indicate: disastro ferroviario, inondazione, naufragio, sommersione. Si tratta di un’opzione normativa che, con tutta evidenza, non è casuale e trova esplicita spiegazione anche nella relazione ministeriale al progetto di codice, ove si spiega che l’esclusione della fattispecie colposa di pericolo di crollo trova giustificazione nella preoccupazione che lo sviluppo edilizio possa essere frenato da frequenti accertamenti tecnici connessi a tale fattispecie. Anche la complessa articolazione della disciplina da ultimo esaminata conferma la frammentarietà che caratterizza la conformazione del tipo, nell’ambito degli illeciti di cui al titolo sesto. Il legislatore ha espresso nel codice scelte selettive, anche attraverso variegate tecniche d’incriminazione: una frammentarietà che è il frutto di ben meditate scelte di politica criminale, di cui occorre evidentemente tenere rispettosamente conto. Da quanto precede occorre inferire che il codificatore ha ritenuto, in ambito colposo, di anticipare la tutela, sanzionando alcune determinate situazioni fattuali nelle quali l’evento di pericolo, cioè il disastro quale accadimento macroscopico, non si è verificato; ma si è determinata una situazione concreta che ha implicato il pericolo di verificazione di disastro (Sez. 4, 22671/2014).

Per configurare il delitto di crollo colposo di cui agli artt. 434 e 449, è necessario che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante. Con riferimento alla differenza tra detto delitto e l’ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 676 c.p. va precisato che, rispetto all’elemento materiale ora richiamato, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone (Sez. 4, 9749/2021).

Le due ipotesi di reato, rispettivamente delittuosa e contravvenzionale, previste dall’art. 449, con riferimento all’art. 434, e dall’art. 676, differiscono tra loro non soltanto perché soggetto attivo del delitto può essere chiunque, mentre soggetti attivi della contravvenzione possono essere esclusivamente il progettista ed il costruttore, ma si distinguono anche e soprattutto per la differenza inerente all’elemento materiale e, particolarmente, per la maggiore gravità dell’avvenimento che caratterizza il delitto rispetto alla contravvenzione. Per la sussistenza del delitto, invero, si richiede che il crollo della costruzione abbia assunto la fisionomia di un disastro, cioè di un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita e la incolumità delle persone, indeterminatamente considerate (quali gli operai impiegati nei lavori), mentre per la contravvenzione deve trattarsi di semplice rovina di un edificio o di altra costruzione e la circostanza che sia derivato pericolo alle persone è prevista come aggravante (Sez. 4, 18432/2014).

La contravvenzione di cui all’art. 676, a differenza del delitto previsto dall’art. 449 in relazione al precedente art. 434, ha natura di reato proprio del progettista e del costruttore dell’edificio o dell’altra costruzione che per sua colpa rovini (Sez. 4, 39128/2018).

Ai fini della configurabilità del delitto di crollo colposo è necessario che il crollo della costruzione  inteso quale caduta violenta e improvvisa della stessa, senza che sia necessariamente richiesta la disintegrazione delle strutture essenziali  assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l’incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; mentre, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici di cui all’art. 676, secondo comma, non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone (Sez. 4, 51734/2017).

Le due ipotesi di reato, rispettivamente delittuosa e contravvenzionale, previste dall’art. 449, con riferimento all’art. 434, e dall’art. 676, differiscono tra loro non soltanto perché soggetto attivo del delitto può essere chiunque, mentre soggetti attivi della contravvenzione possono essere esclusivamente il progettista ed il costruttore, ma si distinguono anche e soprattutto per la differenza inerente all’elemento materiale e, particolarmente, per la maggiore gravità dell’avvenimento che caratterizza il delitto rispetto alla contravvenzione. Per la sussistenza del delitto, invero, si richiede che il crollo della costruzione abbia assunto la fisionomia di un disastro, cioè di un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita e la incolumità delle persone, indeterminatamente considerate (quali gli operai impiegati nei lavori), mentre per la contravvenzione deve trattarsi di semplice rovina di un edificio o di altra costruzione e la circostanza che sia derivato pericolo alle persone è prevista come aggravante (Sez. 4, 18432/2014).

I fenomeni di grave inquinamento ambientale sono stati tradizionalmente affrontati in giurisprudenza, recuperandoli all’ambito di applicabilità dell’art. 434 e facendo ricorso alla disposizione, in particolare, del disastro cd. innominato. Valorizzando la portata “inespressa” della norma regolatrice, la sua collocazione sistematica (tra i delitti contro la pubblica incolumità) e il contenuto lessicale del concetto descrittivo di “disastro” si è apprestata, attraverso la sua applicazione, tutela anche al “paesaggio” (e, dunque, all’ambiente), bene giuridico-materiale oggetto di presidio costituzionale (art. 9 Cost.). L’art. 434, norma di chiusura e residuale, ha generalmente presentato più d’un aspetto problematico nel regime della sua applicazione. Il modello legale, in sintesi estrema, ha permesso di delimitarne il piano operativo, innanzitutto, nei casi in cui non ricorresse alcuno dei disastri nominati. Un primo requisito di tipicità è stato enucleato proprio “in negativo” valorizzando il contenuto del disastro ed enucleando, tra gli “eventi”, quelli che non sarebbero rientrati nell’ambito di tutela della disposizione, in quanto già recuperati alla tipicità penale dalle norme che precedevano l’incriminazione. L’insolita tecnica normativa, che incentrava sul concetto di alterità del disastro, la connotazione dell’ambito di obiettivizzazione della condotta, ha indubbiamente stimolato il fronte delle critiche, sul piano del rigore descrittivo e della tassatività. In realtà la lamentata mancanza di una puntuale descrizione normativa del fatto è stata esclusa (Corte costituzionale, sentenza 327/2008) proprio in ragione del rinvio alla nozione di “disastro” desumibile dalle analoghe disposizioni incriminatrici, che caratterizzano il titolo VI del Libro II del codice penale, categoria idonea ad essere recuperata a unità concettuale e di cui l’art. 434 costituisce norma di chiusura. Un recupero di tipicità, dunque, che ha essenzialmente ritratto il suo fondamento dalla definizione unitaria e allargata del concetto penalistico di “disastro”, entro cui si è inscritto quello ambientale. Esso risultava, invero, connotato dalla specificità tipologica del bene aggredito e delle caratteristiche lesive e si coordinava e inseriva nel paradigma legale di quello incriminato come “altro disastro doloso”, anche assurto nel linguaggio applicativo ad una definizione tipizzante, attraverso il ricorso all’attributo di innominato. In questa logica, dunque, la delimitazione delle coordinate strutturali del nucleo essenziale di tipicità è stata individuata proprio nel carattere “dimensionale” e “offensivo” del fatto. Occorreva, cioè, un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi (o un atto diretto a ...). Ancora si sarebbe dovuto realizzare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che, peraltro, fosse richiesta l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Al delitto  rivolto a proteggere la pubblica incolumità, considerata nel suo complesso, e non l’integrità fisica del singolo individuo  è stata ascritta la forma tipica del reato di pericolo, nel suo primo comma. Ai sensi del secondo comma dello stesso art. 434 la verificazione del disastro determina un aggravamento di pena. La giurisprudenza ha ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 434 anche con riferimento a casi di inquinamento e contaminazione progressivi e talvolta lungo-latenti, non caratterizzati dalla sussistenza di un evento di forte impatto traumatico sulla realtà, né innescati da una causa di tipo violento. Si è, ancora, osservato che, per la configurazione del disastro ambientale, è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente un numero indeterminato di persone e si è giunti ad isolare alcuni requisiti che caratterizzano la nozione di disastro specificamente nella potenza espansiva del nocumento stesso e nell’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità. Il legislatore con l’inserimento nel Libro II del codice penale del Titolo VI bis, “dei delitti contro l’ambiente” ha, tra l’altro, introdotto la fattispecie di cui all’art. 452-quater con cui ha riscritto il modello del disastro ambientale. La fattispecie è costruita come reato di evento e non di pericolo (almeno nei modelli di incriminazione descrittivi di cui al comma 2 nn. 1 e 2). È caratterizzata da un incremento sanzionatorio (punisce, con una pena da 5 a 15 anni di reclusione, rispetto ai 3 anni di pena minima e ai 12 di massima dell’art. 434) e dalla condotta di colui che abusivamente cagioni uno dei tre distinti macro-eventi di disastro ambientale, cui si riferisce la tutela penale. Il primo consiste in una alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema di carattere «irreversibile» (n. 1); il secondo in un evento «la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (n. 2). Il terzo incrimina, infine, come macroevento: “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”. La natura della figura di cui al n. 3 non è di agevole definizione. Limitandosi ad una verifica formale potrebbe essere ricondotta, piuttosto, che al delitto con evento di danno in senso stretto, all’ipotesi dell’incriminazione del fatto di pericolo concreto. Ciò almeno nella ipotesi in cui sia l’indicatore alternativo del numero di persone esposte a pericolo a dare conto della lesione/offesa all’incolumità pubblica, lesione da intendere non solo come distruzione del bene protetto, ma come concreta esposizione di esso al pericolo della sua verificazione. La costruzione della fattispecie come causalmente orientata, secondo il modello descrittivo base di cui all’art. 452-quater comma 1 e l’intendimento dell’offesa alla pubblica incolumità come evento giuridico potrebbero anche essere di conforto in questa lettura della disposizione. Si tratta, tuttavia, di un tema marginale, in definitiva, ai fini che qui interessano e che non appare utile approfondire non risultando rilevante in funzione di alcuna delle questioni prospettate. Piuttosto, l’incriminazione in esame è sussidiaria ai casi di «compromissione e deterioramento significativi e misurabili» dell’ecosistema (“inquinamento ambientale” ex art. 452-bis). Non interessa qui trattenersi sui criteri distintivi tra le due ipotesi di alterazione dell’ecosistema, di cui ai nn. 1) e 2) del nuovo art. 452-quater, né su quelli che potrebbero segnare il distinguo concettuale tra l’alterazione non irreversibile dell’ecosistema, di cui al n. 2) cit. e la mera compromissione, che dà luogo all’ipotesi delittuosa di inquinamento ex art. 452-bis. In questa logica dovrebbe essere centrale l’interpretazione dei riferimenti alla “particolare onerosità” e alla “eccezionalità dei provvedimenti” necessari per l’eliminazione del danno. Ciò che va, piuttosto, analizzato è l’assetto dei rapporti che intercorrono tra le figure delittuose, in ragione, in particolare, di una riflessione sulla clausola di riserva che il legislatore ha ritenuto di inserire nella descrizione della condotta tipica del nuovo disastro ambientale («fuori dai casi previsti dall’art. 434»). Lo scopo, in generale delle clausole di riserva è quello di delimitare i rapporti tra le due figure criminis e, soprattutto, nel caso di specie e nei limiti del possibile, di garantire le sorti dei processi già avviati con l’accusa di disastro innominato ex art. 434. Gli stessi lavori preparatori della riforma ne danno, d’altro canto, conto. Si deve osservare che difficilmente si sarebbe potuto ritenere, in ragione della formulazione delle norme e dei rapporti tra le fattispecie, alla luce di quanto aveva avuto modo di definire la giurisprudenza nella applicazione dell’art. 434, che il nuovo art. 452-quater avesse abrogato la precedente incriminazione sottraendo all’area di rilevanza penale il “precedente” disastro ambientale, punibile ai sensi dell’art. 434. Già per ciò solo si sarebbe esclusa la possibilità di un recupero dello statuto normativo della cd. nuova incriminazione in materia di successione di leggi penali del tempo, così optando per l’applicazione dell’art. 2 comma 1. Né, e per altro verso, si sarebbe potuta prospettare la possibilità di applicare la nuova fattispecie, ai fatti precedentemente commessi, perché figura normativa più grave sul piano del trattamento sanzionatorio del disastro cd. innominato ex art. 434. Una lettura diversa avrebbe, infatti, determinato l’applicazione retroattiva  anche, cioè, ai processi in corso  con violazione dei principi generali in tema di successione di norme penali nel tempo, fissati dall’art. 2. Già queste premesse inducono la constatazione che, alla luce della presenza della clausola di riserva, il tema dei rapporti tra fattispecie sia stato risolto in radice dal legislatore escludendo interferenze tra le incriminazioni o problemi di successione in senso stretto. L’esatta delimitazione della portata operativa della clausola in questione non è di semplice definizione in ogni suo aspetto. Tuttavia, sembra chiaro che essa non instilli dubbi, almeno sul piano della successione temporale tra norme, avendo chiarito secondo la voluntas legis che non si sia inteso abdicare alla tutela penale in materia di ambiente (specie in relazione ai giudizi in corso) e non si siano sottratte affatto all’intervento penale le condotte di disastro che la giurisprudenza aveva già enucleato in quelle caratteristiche di tipicità strutturale, rilevanti ai fini dell’incriminazione di cui all’art. 434. Non si tratta, pertanto, di una ipotesi cd. nuova incriminazione, d’un fatto prima non previsto dalla legge come reato, poiché il disastro ambientale, sia pur nel paradigma cd. innominato era già direttamente punito dall’art. 434 in funzione della tutela apprestata costituzionalmente al bene giuridico-materiale di presidio superprimario. Si è, piuttosto, al cospetto di un trattamento penale modificativo, in cui il fatto lesivo permane nel suo nucleo essenziale e centrale di disvalore  che il legislatore ha rinnovato  e che risulta descritto, in maggiore aderenza al principio di tassatività, attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, con funzione e connotati specializzanti. Si tratta di elementi che non immutano, tuttavia, la portata offensiva della condotta e la lesione che la caratterizza nella sua dimensione ontologica e che, piuttosto, operano sul piano della tecnica normativa descrittiva dell’incriminazione e dei criteri da seguire nella strutturazione della fattispecie, in funzione della delimitazione del suo contenuto di tipicità. Non è un caso che la “normativizzazione” della definizione del disastro ambientale sia passata attraverso le letture che la stessa giurisprudenza aveva già in passato avuto modo di operare di quel concetto lesivo, ritraendole dalle categorie omologhe, sia pur di ambiti diversi, cui il disastro innominato stesso si era rifatto, per “ritagliarsi”, nella dimensione legale, un margine di tipicità adeguato (evocando appunto e come detto il concetto di alterità che figura nell’art. 434). Del resto, i criteri generalmente utilizzati per definire i rapporti tra l’abrogazione della precedente incriminazione, l’introduzione di una nuova fattispecie e la definizione d’un trattamento penale di mera modifica sono essenzialmente riconducibili al principio di continuità del tipo di illecito, alla regola di continenza tra fattispecie e a quello dei rapporti strutturali tra paradigmi normativi, alla luce delle rispettive collocazioni sistematiche. In ciascuno di essi si suole generalmente impiegare, ora con funzione d’integrazione, ora di pura delimitazione, il principio di specialità (art 15) regola cardine che governa la più ampia fenomenologia del concorso di norme e non la specifica materia della successione delle disposizioni penali nel tempo, rimessa allo statuto dell’art. 2. Ciascuna delle impostazioni enucleate, sia pur con i pregi che include, contiene nodi di criticità. La teoria della continuità dell’illecito isolatamente applicata, incentrandosi sul solo bene giuridico e sulle modalità d’offesa si rimette a puri criteri di valore, per inferire l’abrogazione o meno a seconda dell’identità e/o della continuità del bene stesso, elemento che, escludendo il fenomeno abolitivo, attesterebbe, appunto, quello d’un trattamento di mera modifica. Il rapporto di continenza, ancora, postulando che la nuova legge contenga la precedente e introducendo elementi di specialità rispetto alla prima che avrebbe carattere generale, si limita a prevedere un meccanismo di funzionamento per specialità unilaterale, là dove rapporto di continenza può esistere anche allorquando la norma successiva, pur introducendo elementi di specialità su taluni dei temi, assuma, comunque, carattere generale su altri. Il rapporto strutturale tra fattispecie si conforma, di converso, al trattamento di mera modifica, allorquando la norma successiva, speciale, è abrogata e si espande quella generale con l’introduzione di elementi tali da comprendere la condotta precedente, salve le ipotesi di espressa decriminalizzazione. Infine / si verifica allorquando la nuova norma abroga la precedente a carattere generale e subentra con elementi di specialità, rispetto ai segmenti che mantengono rilevanza penale  in ragione della disposizione introdotta successivamente . Vi sarebbe abrogazione, in senso stretto, in tutti i casi in cui l’eterogeneità tra fattispecie esclude la continuità tra figure criminis (art. 2 comma 1 e 2). Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di spiegare che in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del terzo comma dell’art. 2, occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie. Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità di offesa. L’art. 2, infatti, pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo comma deve essere esclusa l’applicabilità del primo e del secondo comma. Ne consegue che un fatto è punibile se, astrattamente considerato e sulla base dei criteri enunciati, rientra nell’ambito normativo di disposizioni che si sono succedute nel tempo e, quando ciò accade e nei limiti in cui accade, non opera l’effetto abolitivo della disposizione successiva. Questi principi che dettano i criteri generalmente valevoli perla risoluzione del rapporto tra fattispecie, postulano, tuttavia, che il Legislatore non abbia risolto il problema del coordinamento tra norme ab initio e al momento dell’intervento normativo di riforma. È, contrariamente, certo nella specie che l’intervento normativo ha inteso esattamente fare salvi i casi di applicazione dell’art. 434 cod. pen. e salvaguardare, dunque, e in primo luogo, i processi in corso, per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata, proprio inserendo una espressa clausola di riserva, in ragione della indiscussa applicazione dell’art. 434. Se, poi, la clausola abbia anche l’ulteriore funzione e conseguenza di riservare alla tutela di quella disposizione anzidetta fatti successivamente commessi, rispetto all’entrata in vigore della L. 68/2015 e che non rientrano nell’ambito di applicabilità dell’art. 452-quater., di nuova formulazione, non rileva in questa sede e ai fini dell’odierno decidere, proprio per quanto si è già avuto modo di dire e poiché dovrebbe trattarsi di fatti avvenuti dopo l’entrata in vigore della L. 68/2015. È certo, piuttosto, che, per l’incidenza lessicale della clausola di riserva richiamata e per il tenore dei lavori preparatori, le condotte oggetto di esame si debbano, appunto, esaminare in relazione alla precedente disposizione escludendosi, in ragione del tempus commissi delicti e del quadro legislativo di riferimento, oltre che dell’assenza di un intervento normativo proteso a introdurre un effetto di abrogazione espressa o implicita, con introduzione di una nuova incriminazione, che norma regolatrice della fattispecie debba essere appunto l’art. 434. nella sua formulazione originaria. Né si ritiene possano mutare le conclusioni nella definizione del rapporto tra l’art. 452-bis e l’incriminazione del disastro cd. innominato. La norma neo-introdotta è in stretto rapporto di collegamento con l’art. 452-quater e si lega alla disposizione anzidetta attraverso un evidente vincolo di progressione lesiva. L’aggressione al bene giuridico e la conseguente tutela apprestata dal legislatore sono in nesso di continuità crescente nel senso che da una lesione di minore portata si passa ad una di consistenza maggiore che recupera la condotta al disastro, là dove l’alterazione assuma i caratteri dell’irreversibilità o della reversibilità, per così dire complessa, per oneri e interventi eccezionali comportamentali in funzione ripristinatoria. Nella descrizione normativa della tipicità del delitto di cui all’art. 452-bis l’inquinamento ambientale è definito evocando concetti di indubbia valenza sostanziale che si è inteso ancorare ai referenti definitori della misurabilità e della significatività. Si tratta di elementi di specializzazione del risultato-evento (compromissione o deterioramento) che la condotta di inquinamento deve produrre e che, risulta chiaro, nell’espansione dell’offesa al massimo livello, induce le alterazioni irreversibili dell’art. 452-quater. Si intende, pertanto, come il rapporto che lega le due disposizioni poggi su un giudizio di valore che riserva l’intervento con il disastro ambientale ai casi di maggiore gravità, in cui la lesione risulta connotata da tratti di alterazione che producono modifiche irreversibili degli equilibri di sistema e che non permettono all’ambiente di reagire ripristinando lo status quo ante, secondo meccanismi naturali o che potrebbero indurre quel tipo di riduzione in pristino stato solo attraverso interventi etero-indotti eccezionali o di carattere particolarmente oneroso. Si comprende da questa premessa come la clausola di riserva che risulta inserita nell’art. 452-quater finisca per segnare anche l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 452-bis, là dove l’inquinamento si arresti ad una soglia lesiva che non è tale da indurre in senso stretto “disastro ambientale” punito dall’art. 452-quater. Già questa premessa impone di ritenere che in via logica sia da escludere che possa prefigurarsi rispetto al disastro cd. innominato la sostituzione nei processi in corso con la fattispecie di cui all’art. 452-bis. A ciò deve, tuttavia, aggiungersi che tra le due fattispecie vi è un’indubbia diversità strutturale, evocando i fatti-reato nei rispettivi nuclei lesivi figure criminis sensibilmente diverse. L’inquinamento ambientale si caratterizza per una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle matrici ambientali, degli ecosistemi o delle biodiversità. Il disastro innominato, specie nella forma aggravata, ha, contrariamente, carattere ben più ampio e meno limitato rispetto all’ambito di applicazione della condotta testé descritta e postula un fatto di proporzioni di ben più ampia gravità, che lo collocano in un grado di lesività ben più marcata al bene protetto. Pur potendo dunque, concettualmente, continuare ad ipotizzarsi l’evocata linea progressiva nell’offesa si tratta di delitti distinti rispetto ai quali, in ragione della diversità strutturale (e pur postulato non estensibile in chiave risolutiva l’effetto della clausola di riserva) non si pone, in concreto, un problema di successione tra norme penali. Del resto la norma in esame contempla un fatto di aggressione al bene giuridico diverso nella sua tipicità descrittiva rispetto a quello incriminato dal primo e dal secondo comma dell’art. 434. Ricorre, infatti, nel comma 1 dell’articolo testé indicato un delitto di pericolo che, nella struttura, anticipa la punibilità secondo il modello del fatto tentato e dei fatti di attentato, creando l’insidia per il bene della pubblica incolumità. Nel secondo comma/ la norma incrimina, si è detto, l’evento aggravante della verificazione del disastro stesso. È, tuttavia, la stessa definizione di disastro, ritratta dalle elaborazioni giurisprudenziali, a guidare l’interpretazione e a escludere che si possa recuperare al concetto di identità e continuità normativa i due delitti. I fatti, come anticipato, risultano diversi, né vi sono margini per ritenere che il criterio di specialità possa intervenire a risolvere ipotizzati problemi di coordinamento normativo nel fenomeno successorio, che al contrario vanno ritenuti non esistenti (Sez. 1, 58023/2017).

L’art. 452-quater, rientrante nella Parte Sesta-bis del codice penale, introdotta con la L. 68/2015, stabilisce testualmente: “fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente: 1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata”. L’art.452-quinquies stabilisce, inoltre che “se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi. Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo”. Ciò premesso, va in primo luogo osservato che il delitto di disastro ambientale ha, quale oggetto di tutela, la integrità dell’ambiente ed in ciò si distingue, peraltro, dal disastro innominato di cui all’art. 434, menzionato nella clausola di riserva, posto a tutela della pubblica incolumità, peraltro come norma di chiusura rispetto alle altre figure tipiche disciplinate dagli articoli che lo precedono. Nei delitti contro l’incolumità pubblica, poi, si fa esclusivo riferimento ad eventi tali da porre in pericolo la vita e l’integrità fisica delle persone ed il danno alle cose viene preso in considerazione solo nel caso in cui sia tale da produrre quelle conseguenze, tanto che la scelta del termine «incolumità», come ricorda la relazione ministeriale al progetto del codice penale, non è affatto casuale, mentre il disastro ambientale può verificarsi anche senza danno o pericolo per le persone, evenienza che viene chiaramente presa in considerazione quale estensione degli effetti dell’alterazione dell’ecosistema. Delle differenze tra le due fattispecie si è ripetutamente interessata la dottrina, mentre l’ambito di operatività dell’art. 434, nella figura, di creazione giurisprudenziale, del c.d. disastro ambientale innominato, è stata più volte presa in considerazione in sede di legittimità (Sez. 1, 2209/2018, nonché Sez. 1, 58023/2017, che prende in considerazione anche le differenze tra le due fattispecie).

Un primo requisito del disastro ambientale, come emerge dalla lettura della norma, è quello della “abusività” della condotta, comune anche ad altri delitti contro l’ambiente, quali l’inquinamento ambientale, sanzionato dall’art. 452-bis e rispetto al quale la giurisprudenza di legittimità, richiamando anche i principi precedentemente affermati con riferimento al delitto ora contemplato dall’art. 452-quaterdecies (e prima sanzionato dall’art. 260 DSLGS 152/2006), ha avuto già modo di pronunciarsi (Sez. 3, 18934/2017; Sez. 3, 15865/2017; Sez. 3, 46170/2016.), ritenendo, in sintesi, che la condotta “abusiva” è non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali  ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale  ovvero di prescrizioni amministrative. La disposizione in esame fornisce, inoltre, la definizione di disastro ambientale, indicando tre diverse situazioni che alternativamente lo configurano. Nel caso in esame rileva esclusivamente quella indicata la n. 3 dell’art. 452- quater, in quanto oggetto della provvisoria incolpazione. Si tratta, tra le tre ipotesi di disastro ambientale, di quella di meno agevole lettura e l’unica in astratto ricollegabile all’art. 434, rispetto al quale si pone in rapporto di sostanziale specialità. La fattispecie descritta nell’art. 452-quater al n. 3 si pone, di fatto, a chiusura del sistema di condotte punibili e riguarda qualsiasi comportamento che, ancorché non produttivo degli specifici effetti descritti nei numeri precedenti  poiché, altrimenti, come rilevato da più parti in dottrina, una simile previsione sarebbe superflua  determini un’offesa alla pubblica incolumità di particolare rilevanza per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi, ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. Va però rilevato che la collocazione di tale condotta nell’ambito dello specifico delitto di disastro ambientale deve necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti sull’ambiente, rispetto ai quali il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta una diretta conseguenza, pur in assenza delle altre situazioni contemplate dalla norma. Tale soluzione interpretativa trova peraltro plurime conferme, in primo luogo, nella collocazione della condotta tra le ipotesi di disastro ambientale, quindi di “un fenomeno che logicamente svolge i suoi effetti sull’ambiente, trattandosi, appunto, di un delitto contro l’ambiente; un ulteriore motivo di distinzione è dato dal fatto che, escludendo tale necessario collegamento con l’ambiente e considerando il solo riferimento alla pubblica incolumità, verrebbe meno ogni distinzione rispetto al disastro innominato di cui all’art. 434 ed, infine, assume rilievo anche il tenore stesso della disposizione, laddove l’offesa alla pubblica incolumità appare chiaramente quale conseguenza di un fatto caratterizzato da una compromissione  evidentemente dell’ambiente o di una sua componente  estesa, ovvero che abbia significativi effetti lesivi o che coinvolga un numero di persone offese o esposte al pericolo altrettanto significativo. Ne consegue che anche l’ipotesi di disastro ambientale descritta al n. 3 dell’art. 452-quater presuppone, come le due precedenti, che le conseguenze della condotta svolgano i propri effetti sull’ambiente in genere o su una delle sue componenti. Resta da considerare, a questo punto, quale sia la nozione di ambiente da prendere in considerazione. Sembra, anche ad un sommario esame del complesso delle disposizioni richiamate nella Parte Sesta-bis del codice penale, che il legislatore abbia inteso riferirsi alla più ampia accezione di ambiente, quella cosiddetta unitaria, non limitata da un esclusivo riferimento agli aspetti naturali, ma estesa anche alle conseguenze dell’intervento umano, ponendo in evidenza la correlazione tra l’aspetto puramente ambientale e quello culturale, considerando quindi non soltanto l’ambiente nella sua connotazione originaria e prettamente naturale, ma anche l’ambiente inteso come risultato anche delle trasformazioni operate dall’uomo e meritevoli di tutela. Invero, paiono deporre in questo senso le aggravanti previste dagli artt. 452-bis, comma 2, 452-quater comma 2 nella parte in cui si riferiscono alle ipotesi in cui i fatti puniti si verifichino anche in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, storico, artistico, architettonico o archeologico, né osta a tale soluzione alcuna delle disposizioni contenute nel titolo. Inoltre, anche nella giurisprudenza costituzionale si rinvengono considerazioni che depongono nel senso di una concezione più ampia di ambiente, laddove si parla, ad esempio, dell’ambiente “come “valore costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia ‘trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse (Corte costituzionale, sentenza 407/2002), affermandosi anche che “quando si guarda all’ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti (...). Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico “(Corte costituzionale, sentenza 378/2007) (Sez. 3, 29901/2018).