Art. 168-bis - Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (1)
1. Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
2. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
3. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
4. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta (2).
5. La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108.
(1) Articolo inserito dall’art. 3, comma 1, L. 67/2014.
(2) La Corte costituzionale, con la sentenza n. 174/2022, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale comma nella parte in cui non prevede che l'imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova qualora si proceda per reati connessi, ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso.
Rassegna di giurisprudenza
In tema di “messa alla prova”, con l'inserimento nel testo dell'art. 168-bis comma 2 della locuzione «ove possibile», il legislatore ha inteso introdurre il rilievo della esigibilità in concreto della prestazione risarcitoria, da valutare in riferimento alla specifica vicenda processuale, tanto in relazione alla natura dell'illecito commesso ed alla produzione di un pregiudizio risarcibile in termini pecuniari (in modo da assicurare che il risarcimento corrisponda al danno), quanto alla situazione personale dell'imputato, che deve essere tale da consentirgli di compiere quanto impostogli. Si tratta di un'indagine che non può avvalersi del giudizio di responsabilità, reso all'esito del percorso processuale di accertamento del reato e della sua attribuzione all'imputato, poiché l'introduzione del rito speciale della messa alla prova prescinde dalla condanna e dall'affermazione della colpevolezza (Sez. 1, 13975/2021).
Qualora il giudice, nel disporre la sospensione del procedimento penale con messa alla prova, si limiti a recepire il programma di trattamento, l'onere motivazionale su di lui incombente può intendersi soddisfatto anche attraverso un semplice richiamo alla congruità del programma, trattandosi di un elaborato dall'UEPE di intesa con l'imputato e, dunque, conosciuto e condiviso da quest'ultimo. Qualora, invece, il giudice non si limiti a recepire il contenuto del programma ma lo integri, deve fornire una motivazione che non può limitarsi ad un semplice richiamo al programma stesso o, genericamente, ai parametri dell'art. 133 c.p., ma deve dare conto delle ragioni delle scelte operate in relazione alle peculiarità del caso concreto. (Nel caso di specie il giudice di primo grado aveva integrato il programma di trattamento fissando la durata del lavoro di pubblica utilità, non determinata dall’UEPE. Conseguentemente, la Suprema corte ha ritenuto insufficiente, perché priva di concreti riferimenti alla fattispecie, la motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui si limitava ad affermare che, «alla luce dei parametri ex art. 133, deve ritenersi idoneo il programma presentato e valutato») (Sez. 6, 37694/2020).
La messa alla prova è subordinata alla duplice condizione dell'idoneità del trattamento e della prognosi favorevole in ordine all'astensione dell'imputato dal commettere ulteriori reati, giudizi entrambi rimessi alla discrezionalità del giudice, guidata dai parametri di cui all'art. 133; da ciò deriva che la concessione del beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi dell'art. 168-bis c.p., è rimessa al potere discrezionale del giudice e postula un giudizio volto a formulare una prognosi positiva, negativamente integrata anche da un solo precedente specifico, che deve confrontarsi con l'efficacia riabilitativa e dissuasiva del programma di trattamento proposto (Sez. 4, 17127/2020).
Con la L. 67/2014, traendo ispirazione da istituti di matrice anglosassone, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento la messa alla prova, quale ulteriore strumento di deflazione processuale e di alleggerimento della gravosa situazione carceraria, imposto anche dalla Corte EDU con la condanna inflitta all’Italia l’8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani contro Italia. L’istituto prevede che – in relazione ai procedimenti per i reati meno gravi ed in presenza di talune condizioni – sia data possibilità all’imputato che lo richieda di evitare la celebrazione del dibattimento e di essere sottoposto ad un trattamento rieducativo e risocializzante, con lo svolgimento di attività socialmente utili e l’attuazione di condotte riparatorie. Diversamente dall’omologa misura prevista nel procedimento per i minorenni con DPR 488/1988 (chiaramente orientata in una prospettiva di recupero, risocializzazione e rieducazione di una personalità ancora in via di formazione), la messa alla prova per gli adulti è misura caratterizzata da una natura proteiforme. Per un verso, essa si muove in un’ottica special-preventiva, dal momento che – sia pure in assenza di un accertamento giurisdizionale della penale responsabilità (salva la necessità di dichiarare la ricorrenza delle cause di proscioglimento "allo stato degli atti", di cui all’art. 129 CPP) – consente di avviare un percorso alternativo al carcere, connotato da tratti – allo stesso tempo – sanzionatori e rieducativo-risocializzanti, subordinatamente alla valutazione discrezionale del giudice sia quanto all’an (dipendendo da una prognosi di non recidiva del soggetto e dall’accertamento dell’idoneità del programma proposto), sia quanto al quomodo (rimettendo al decidente la definizione dei contenuti e della durata della prova, con un’individualizzazione del trattamento alle esigenze del singolo interessato). Per altro verso, l’istituto presenta un carattere indubbiamente premiale, là dove, a fronte della rinuncia dell’imputato alla piena cognitio dibattimentale – dunque a fronte della scelta deflattiva –, assicura all’interessato diversi vantaggi sul piano processuale e sanzionatorio, consentendo la sospensione del procedimento penale, l’accesso ad una pena alternativa non carceraria tendente a favorire un percorso di reinserimento e, in caso di esito positivo della prova, l’estinzione del reato con pronuncia liberatoria. Come la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire, la sospensione con messa alla prova «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotata da una intrinseca dimensione processuale, in quanto costituisce un nuovo procedimento speciale alternativo al giudizio» (Corte costituzionale, sentenza 240/2015). Duplice dimensione – penale sostanziale e processuale – palesata, del resto, dalla previsione dell’istituto tanto nel codice penale, tanto nel codice di procedura e, precisamente, nell’ambito dei procedimenti speciali del libro sesto del codice. Su questa scia, le Sezioni unite hanno affermato che la nuova figura, nel realizzare una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita, si connoti per un’accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio, ma presenti, anche e soprattutto, natura sostanziale. «Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (SU, 36272/2016). Come si è già rilevato, l’accesso all’istituto presuppone, da un lato, la verifica del giudice circa la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dal legislatore (id est che si tratti di procedimento per reato punito con pena detentiva non superiore a 4 anni o rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 550, comma 2, CPP e di soggetto non delinquente abituale, professionale o per tendenza) e l’idoneità del trattamento proposto; dall’altro lato, la prognosi che il soggetto si asterrà dal commettere ulteriori delitti, dunque l’assenza di pericolosità sociale. La messa alla prova implica la sottoposizione del soggetto a specifici obblighi e prescrizioni: per un verso, prevede l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di attività di volontariato di rilievo sociale e comporta l’osservanza di prescrizioni e lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, che assume la duplice valenza rieducativa e sanzionatoria; per altro verso, impone la prestazione di condotte riparatorie e restitutorie, al fine di eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti da reato e, ove possibile, di garantire il risarcimento del danno cagionato alla vittima, nonché l’avvio di una mediazione con quest’ultima (Sez. 6, 28826/2018).
Non costituisce presupposto per accedere al procedimento speciale della messa alla prova l’avvenuto risarcimento del danno che, al contrario, deve essere uno dei punti del programma che l’interessato deve predisporre d’intesa con l’UEPE (artt. 168-bis, comma 2 e 464-bis, comma 4, lett. b, CPP). Esso è dunque collocato a valle e non a monte della messa alla prova che, invece, è soggetta alla sola verifica, da parte del giudice investito della richiesta, della ritenuta idoneità del programma e della possibilità di una prognosi positiva circa l’eventuale ricaduta nell’illecito dell’imputato, da formularsi in relazione ai parametri di cui all’art. 133 (art. 464-quater, comma 3, CPP) (Sez. 5, 3163/2019).
Il duplice ordine di prestazioni che la messa alla prova comporta, costituite da condotte riparatorie, volte cioè all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, e dal risarcimento del danno cagionato, che attiene invece al ristoro del pregiudizio direttamente subito dal danneggiato e che si traduce in una dazione pecuniaria come del resto conferma l’art. 464-quinquies, CPP, induce a ritenere che entrambe siano presupposti imprescindibili per la sua attivazione da inserire all’interno del programma di trattamento di cui all’art. 464-bis CPP in quanto l’una, al pari dell’altra, rientrano nell’ambito di un percorso di responsabilizzazione del condannato rispetto all’illecito commesso e alle conseguenze derivatene, in un’ottica essenzialmente rieducativa (Sez. 3, 353/2019).
Se è da ritenersi legittimo, come già dichiarato in analoga fattispecie relativa all’omesso versamento di contributi previdenziali all’INPS, il rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova contenente solo una generica dichiarazione dell’imputato di voler risarcire il danno, essendo egli tenuto a comprovare, con idonee allegazioni, il suo intento di porre in essere condotte riparative (Sez. 3, 13235/2016, in una fattispecie in cui l’imputato si era limitato a rappresentare all’INPS la sua intenzione, senza che a ciò fosse seguito il versamento né altra condotta indicativa di un’effettiva intenzione di espletare condotte riparatorie), a fortiori il diniego deve reputarsi incensurabile quando l’istante si sia limitato a dichiarare di essere impossibilitato a risarcire il danno senza fornire alcuna prova o riscontro della dedotta impossibilità. Così come non è sufficiente la mera presentazione dell’istanza di sospensione di messa alla prova con l’annuncio di una condotta riparatoria non seguita da comportamenti concreti che consentano al giudice di valutare la serietà dell’istanza, tanto meno può trovare ingresso un’istanza di messa alla prova non accompagnata, sul presupposto della dedotta impossibilità di adempiere alla prestazione risarcitoria nei confronti del danneggiato, dalla dimostrazione dell’asserito impedimento ed ancor prima dalla specifica allegazione delle cause dello stesso, tenuto conto che l’eccepita impossibilità ad adempiere è stata ritenuta inidonea ad escludere la rilevanza penale del fatto in contestazione. È ben vero che la formulazione testuale dell’art. 168-bis sembra lasciare un più ampio margine nelle prescrizioni impositive del programma riabilitativo in relazione al risarcimento del danno prevedendo che esso sia dovuto "ove possibile". Ma pur aprendosi il varco attraverso tale locuzione al principio di esigibilità della prestazione, neanche in tal caso la prestazione risarcitoria può ritenersi scevra dal controllo giudiziale diretto a verificarne il fondamento in concreto. Anche a volere ritenere che la locuzione "ove possibile" sia estesa agli impedimenti soggettivi dell’imputato, è ciò nondimeno necessaria la puntuale dimostrazione della suddetta impossibilità, non potendo essere l’accesso alla messa in prova rimesso ad una libera scelta di chi intende fruire del beneficio, scevra dal controllo e dalla valutazione giudiziale sull’esigibilità della prestazione. Ben poca rilevanza rivestono le dissertazioni svolte dalla difesa sulla natura assoluta o relativa dell’inesigibilità della condotta riparatoria posto che nella specie la ricorrente neppure indica quali siano le preclusioni all’obbligazione risarcitoria, limitandosi ad invocare l’intervenuto dissesto dell’azienda dalla medesima amministrata e ad affermare di non versare nelle condizioni economiche di poter riparare il danno, senza ulteriori allegazioni che consentano di discernere un impedimento assoluto che possa escludere la volontarietà della scelta preannunciata. In assenza di tale principio di prova, immune da censure deve quindi ritenersi il provvedimento impugnato, a fronte di una richiesta del tutto generica e pertanto tale da non consentire l’attivazione dei poteri valutativi rimessi al giudicante al fine di filtrare le istanze che non risultino il frutto di espedienti elusivi o dilatori rispetto all’accertamento processuale che, a seguito del loro accoglimento, viene automaticamente sospeso. È infatti da escludere, a dispetto dell’incompiutezza della disposizione normativa, che, in presenza dei reati inclusi nella forbice prevista dall’ art. 168-bis, la sospensione del procedimento con la messa alla prova sia devoluta all’unilaterale manifestazione di volontà dell’imputato, trattandosi invece di un beneficio la cui applicabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice, che se correttamente motivato non è peraltro sindacabile in questa sede, postulando un giudizio volto a formulare, alla luce della sua dispendiosità a fronte delle limitate risorse statali, della gravità delle ricadute in caso di esito negativo sullo stesso imputato e del prezzo in termini di durata del processo, una prognosi positiva riguardo all’efficacia riabilitativa e dissuasiva del programma di trattamento proposto (Sez. 3, 353/2019).
La sospensione del processo con messa alla prova è subordinata alla duplice condizione dell’idoneità del programma di trattamento e, congiuntamente, della prognosi favorevole in ordine all’astensione dell’imputato dai commettere ulteriori reati; si tratta di due giudizi diversi rimessi alla discrezionalità del giudice guidata dai parametri indicati dall’art. 133. Ne consegue che l’impossibilità di formulare con esito favorevole la prognosi in ordine alla capacità a delinquere dell’imputato impedisce che quest’ultimo ottenga il beneficio richiesto, indipendentemente dalla presentazione del programma di trattamento (Sez. 5, 7983/2015).
Va, infatti, osservato che la sospensione del processo con messa alla prova non rappresenta un diritto assoluto dell’imputato, in quanto la relativa richiesta può trovare accoglimento solo nel caso in cui il giudice al quale viene rivolta, all’esito di un percorso valutativo da effettuare alla luce dei parametri fissati dall’art. 133, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, come espressamente previsto dall’art. 464-quater, comma 3, CPP. L’uso della congiunzione "e" rende evidente che nell’esercizio del suo potere discrezionale il giudice dovrà valutare, avendo sempre come punto di riferimento la gravità del reato e la capacità a delinquere del prevenuto, sia l’idoneità del programma di trattamento, sia la possibilità di formulare una prognosi favorevole nei confronti dell’imputato sulla circostanza che egli per il futuro si asterrà dal commettere ulteriori reati, previsione quest’ultima che, nel rifarsi alla formulazione dell’art. 164, comma 1 (con l’unica rilevante differenza che la valutazione riguarda la persona dell’imputato e non del "colpevole"), accomuna la causa di estinzione del reato di nuovo conio alla sospensione condizionale della pena, di cui all’art. 163. Trattandosi di due giudizi diversi, riferiti il primo alla idoneità del programma previsto dall’art. 168-bis, il secondo alla personalità del prevenuto, se ne deduce che l’impossibilità di formulare la suddetta prognosi con esito favorevole per l’imputato, impedisce allo stesso di ottenere la sospensione del processo con messa alla prova, indipendentemente dalla circostanza che sia stato o meno presentato il programma di trattamento (Sez. 4, 4638/2019).
L’istituto della messa alla prova disciplinato dagli artt. 168 bis e ss. ha come presupposto indefettibile la prestazione di lavoro di pubblica utilità, che costituisce il profilo sanzionatorio di maggior rilievo di detta misura e che ne esprime la sua necessaria componente afflittiva, secondo quanto si evince dai lavori preparatori della L. 67/2014, cui viene associato l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma. La finalità sottesa alla predetta norma è quella di pervenire ad una composizione preventiva e pregiudiziale del conflitto penale, a differenza di quanto stabilito dagli istituti disciplinati dal comma 9-bis dell’art. 186 CDS e dal comma 8-bis dell’art. 187 CDS che, invece, presuppongono l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato (tramite la celebrazione del giudizio in forma dibattimentale, oppure con lo svolgimento del rito abbreviato, o, comunque, la sua definizione con l’adozione dell’applicazione di pena ex art. 444 CPP o anche con decreto penale dì condanna non opposto) (Sez. 4, 41882/2018).
L’art. 464-bis, comma 4, CPP prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato di sospensione del procedimento come messa alla prova, è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma, il quale prevede: le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale. Il successivo art. 464-quater, comma 3, CPP, stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il quadro è completato dall’art. 168-bis, terzo comma, il quale prevede che: «La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore». Dal complesso di tali disposizioni emerge che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisce il nucleo sanzionatorio del sistema della sospensione con messa alla prova: si tratta, cioè, di una sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva. E la connotazione sanzionatoria del lavoro di pubblica utilità induce a rilevare, come una lacuna significativa, la mancata previsione dei criteri cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruità della sua durata complessiva e della sua intensità. Dalle norme sopra richiamate si evincono: una durata minima di dieci giorni e una massima che, in mancanza di diverse indicazioni, non può che coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); un’intensità massima di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo. Non essendo previsto che la prestazione del lavoro gratuito debba necessariamente coprire l’intero periodo della sospensione – perché non avrebbe senso, altrimenti, la previsione di un limite minimo di dieci giorni – occorre individuare indici di commisurazione sufficientemente certi. Non possono evidentemente trovare applicazione i criteri dettati nei casi in cui il lavoro gratuito è previsto come pena sostitutiva di quella detentiva: sia perché la messa alla prova e la prestazione lavorativa che vi è inclusa si applicano anche a reati sanzionati con pena esclusivamente pecuniaria; sia perché qui manca, per definizione, una condanna che possa fungere da limite e parametro di ragguaglio. Il criterio più sicuro e dotato di più solidi appigli testuali è, dunque, quello dell’applicazione in via analogica degli indici dettati dall’art. 133 per la commisurazione della pena, con una prospettiva che tenga conto a un tempo: della valutazione virtuale della gravità concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione. E, del resto, la necessità di riferirsi, in generale, ai parametri di valutazione di cui all’art. 133 è richiamata anche dalla Corte costituzionale (ordinanza 54/2017) quale condizione per la compatibilità del sistema della messa alla prova e, nel suo ambito, del lavoro di pubblica utilità con gli artt. 3, 24 e 27 Cost. (Sez. 3, 55511/2017).
Sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ex art, 464-bis CPP, avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna, è competente a decidere il GIP e non il giudice del dibattimento, alla stessa stregua degli altri procedimenti speciali, tra i quali la disciplina della messa alla prova è inserita, con conseguente possibilità per l’interessato di eventualmente chiedere – in via subordinata ovvero in caso di rigetto della richiesta stessa – la definizione mediante riti alternativi rispetto ai quali non siano ancora maturate preclusioni. (Sez. 1, 53622/2017).
Il giudice al quale sia richiesta la sospensione del procedimento e la messa alla prova dell’imputato ai sensi dell’art. 168-bis è tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa e può – ove la ritenga non corretta – modificarla, traendone i conseguenti effetti sul piano della ricorrenza o meno dei presupposti dell’istituto in questione (Sez. 4, 4527/2016).
Sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 464-bis CPP, riproposta ai sensi del comma 9 della medesima disposizione dopo che la precedente istanza avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna è stata dichiarata inammissibile dal GIP, è competente a decidere il giudice del dibattimento (Sez. 1, 23700/2018).
L’ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. CPP in quanto l’art. 464-quater comma settimo, CPP, nel prevedere il ricorso per cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con la messa alla prova (SU, 33216/2016).
Nel giudizio di appello l’imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all’art. 168-bis, attesa l’incompatibilità del nuovo istituto con il sistema delle impugnazioni e la mancanza di una specifica disciplina transitoria (Sez. 4, 43009/2015. In motivazione la Corte ha precisato che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale 263/2011, la mancata applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore, non implica alcuna lesione del principio di retroattività della "lex mitior" da riferirsi esclusivamente alle disposizioni che definiscono i reati e le pene). È stata poi ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma secondo, CPP, per contrasto all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione dell’istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della L. 67/2014, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile (Sez. 6, 47587/2014) (riassunzione dovuta a Sez. 4, 3224/2019).
In tema di circolazione stradale è inammissibile, per difetto dell’interesse concreto a impugnare, il ricorso per cassazione presentato dal PM avverso una sentenza di non doversi procedere (nella specie: per intervenuto esito positivo della messa alla prova) che non abbia disposto la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa ex art. 221, comma 2, CDS, potendo la parte impugnante procedere all’adempimento omesso personalmente ovvero facendone richiesta all’ufficio del giudice che ha emesso il provvedimento (Sez. 4, 9453/2019).
Pur non dovendo attendere il passaggio in giudicato della sentenza che definisca il procedimento relativo al nuovo illecito, ai fini della revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova per commissione di un reato, il giudice deve verificare che la sua commissione sia provata in termini di elevata probabilità, attraverso una delibazione della serietà dell'ipotesi accusatoria compiuta sulla scorta di una solida base cognitiva, avuto riguardo, qualora il nuovo fatto reato costituisca ancora una semplice notitia criminis, alla documentazione allegata alla richiesta di revoca o prodotta dalle parti, agli elementi ed alle argomentazioni offerti nel corso dell'udienza ex art. 464 octies c.p.p. ed alle eventuali dichiarazioni rese dall'interessato (Sez. 4, 41905/2019).