Art. 88 - Vizio totale di mente
1. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere.
Rassegna di giurisprudenza
Il complesso normativa costituito dagli artt. 85, 88, 89 e 90 richiede, ai fini della ·esclusione o della attenuazione di essa, una infermità di natura ed intensità tali da compromettere i processi conoscitivi, valutativi e volitivi della persona, eliminando o scemando la capacità di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi autonomamente (sempre a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale).
Le cosiddette "anormalità psichiche", quali le nevrosi o le psicopatie, non indicative di uno stato morboso a differenza delle psicosi acute o croniche, non sono annoverabili tra le infermità mentali anzidette e non sono rilevanti ai fini dell’applicazione degli artt. 88 e 89 (Sez. 1, 52951/2014). Spetta tuttavia al giudice la valutazione delle risultanze processuali, ivi compresa la richiesta di giudizio abbreviato quale atto personale incompatibile con l’esistenza di vizi di mente, per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, la meritevolezza della richiesta di perizia psichiatrica (Sez. 3, 55301/2016).
Va infine precisato che l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata (Sez. 4, 2318/2018).
Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, acquistano rilievo solo quei "disturbi della personalità" che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale (SU, 9163/2005).
Il gioco d’azzardo patologico viene classificato per i più recenti approdi della nosologia medica (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o DSM nei suoi successivi aggiornamenti) quale disturbo del controllo degli impulsi e definito come comportamento persistente, ricorrente e maladattativo che registra una compromissione delle attività personali, familiari o lavorative.
La giurisprudenza di legittimità chiamata ad interrogarsi sui disturbi della personalità per scrutinarne la rilevanza ai fini della imputabilità del reato ed alla loro più ampia ascrivibilità alla categoria della infermità mentale, capace di escludere o grandemente far scemare la capacità di intendere e di volere integrativa della prima (artt. 88 e 89), si è trovata da tempo ad affermarne il rilievo.
Si è così detto che «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale».
All’indicata qualificazione si è ritenuto che consegua la non rilevanza ai fini dell’imputabilità di anomalie caratteriali o alterazioni della personalità che risultino tali da non presentare gli esposti caratteri e, ancora, gli stati emotivi e passionali che in quanto temporanei ed accidentali non sono destinati a definire un quadro di infermità come previsto dal codice penale (SU, 9163/2005; Sez. 1, 52951/2014; in materia di gioco d’azzardo, in termini sulla qualificazione: Sez. 2, 24535/2012). Il disturbo della personalità registra una dipendenza dell’agente da situazioni e beni e può tradursi in una causa di esclusione dell’imputabilità là dove esso assuma connotati di intensità tali da escludere la capacità dell’agente di autodeterminarsi.
Scrutinata ancora nella giurisprudenza di legittimità la nozione di imputabilità intesa come capacità di intendere e di volere del soggetto, si è in tal modo valorizzata di quest’ultima l’autonoma e decisiva rilevanza agli effetti del giudizio di cui agli artt. 85 e 88, anche in ipotesi di accertata capacità di intendere, a cui si accompagni la comprensione del disvalore sociale della azione delittuosa. Si tratta di ipotesi in cui si registra nel carattere irresistibile per l’agente degli impulsi all’azione l’apprezzamento da parte del primo della riprovevolezza della seconda che risulta comunque non contenibile per la consistenza ed ampiezza degli impulsi, tali da vanificare la capacità di apprezzare dell’azione le conseguenze.
All’indicata forza determinativa deve altresì accompagnarsi il nesso eziologico tra impulso e condotta criminosa sicché il fatto di reato deve essere causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale idoneo ad alterare non l’intendere, ma il solo volere dell’autore della condotta illecita, restando fermo l’onere dell’interessato dimostrare il carattere cogente nel singolo caso dell’impulso stesso (Sez. 6, 18458/2012). In applicazione degli indicati principi il disturbo da gioco d’azzardo è un disturbo della personalità o disturbo del controllo degli impulsi destinato, come tale, a sconfinare nella patologia e ad incidere, escludendola, sulla imputabilità per il profilo della capacità di volere (Sez. 6, 33463/2018).
L’intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti può influire sulla capacità di intendere e di volere soltanto qualora, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provochi alterazioni psicologiche permanenti configurabili quale vera e propria malattia, dovendo escludersi dal vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 anomalie non conseguenti ad uno stato patologico (Sez. 6, 47078/2013).
Con specifico riferimento all’utilizzo probatorio della perizia psichiatrica si è affermato che l’indagine tecnica deve svilupparsi attraverso due passaggi sequenziali, indipendenti, ma tra loro connessi in vista dell’espressione del giudizio finale: la percezione dei dati storico-fattuali e la formulazione della diagnosi su di essa basata; su tale percezione deve appuntarsi la verifica giudiziale in modo tale che quando se ne riscontri l’erroneità, è consentito al decidente discostarsi dalle considerazioni peritali ed esprimere un autonomo giudizio, sempre che fondato su basi scientifiche consolidate.
Qualora poi le conclusioni degli esperti che hanno ricevuto incarico di eseguire perizia psichiatrica sull’imputato e dei consulenti di parte siano insanabilmente divergenti, la motivazione della decisione sulla capacità di intendere e di volere deve necessariamente esternare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche, le ragioni della ritenuta inattendibilità di quella disattesa ed il raffronto tra quelle recepite e le altre risultanze processuali (Sez. 5, 686/2014).
Un’eventuale sindrome depressiva è inidonea a far escludere o a far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Sez. 5, 44045/2008).