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Art. 199 - Sottoposizione a misure di sicurezza: disposizione espressa di legge

1. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.

Rassegna di giurisprudenza

La nozione di "misura di sicurezza illegale" risulta evocata assai raramente nella giurisprudenza di legittimità. Una risalente decisione ha affermato che tutto ciò che si riferisce alla erronea applicazione di una misura di sicurezza fuori dei casi consentiti, in quanto violazione del più ampio principio di legalità (artt. 199 e 25 Cost.), cui è sottoposto, come le pene, anche il regime delle misure di sicurezza, rientra nel potere decisorio ex officio della Corte di cassazione che, se rileva una causa di illegalità della misura di sicurezza, deve provvedere ad eliminarla.

Si tratta di un’affermazione di principio, relativa ad una vicenda in cui la Corte di legittimità ha ritenuto che la misura di sicurezza, nella specie l’assegnazione ad una casa di lavoro, era stata correttamente applicata, perché, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, l’estinzione della pena per il reato "presupposto", fenomeno da cui discende l’inapplicabilità della misura di sicurezza ex art. 210, era stata, in realtà, soltanto parziale. Altra più recente decisione, poi, ha affermato l’illegalità di una confisca per equivalente disposta per un valore superiore al profitto del reato, sul presupposto della natura «sanzionatoria» di tale misura (Sez. 3, 46049/2018).

Precisamente, a fondamento del principio, la pronuncia citata ha osservato che «la confisca di valore, avendo natura eminentemente sanzionatoria, partecipa alla disciplina delle sanzioni penali, con la conseguenza che essa non può essere disposta ed eseguita per un valore superiore al profitto del reato, risolvendosi, in caso contrario, nell’applicazione di una pena illegale, alla quale sarebbe pienamente equiparabile, sicché, nel caso di superamento del valore confiscato rispetto al prezzo o profitto del reato, l’importo deve essere ridotto anche d’ufficio». Ad avviso del Collegio, la nozione di "misura di sicurezza illegale" non sembra determinabile, almeno in linea generale, utilizzando i parametri cui si fa riferimento per individuare il significato della nozione di "pena illegale".

In particolare, nei casi di confisca a norma dell’art. 240 e di confisca in casi particolari ex art. 240-bis (cd. confisca per sproporzione), ma anche, ad esempio, di espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato, sembra davvero difficile ipotizzare una misura che, per specie ovvero per quantità, non corrisponda a quella astrattamente prevista, o che è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili. Piuttosto, la nozione di "misura di sicurezza illegale" sembra far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge.

Indicazioni in questo senso sembrano inferibili dal testo delle disposizioni di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost., e 199, così come indicato da Sez. 3, 1044/1967. Invero, la disposizione costituzionale recita: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge»; la disposizione del codice statuisce: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».

Del resto, che il controllo sulla legalità della misura di sicurezza abbia una proiezione diversa rispetto a quello sulla legalità della pena è coerente anche con la diversità dei presupposti normativamente previsti per l’applicazione della prima rispetto alla seconda. Infatti, mentre la pena segue indefettibilmente all’accertamento del reato e, nei casi previsti, alla esclusione di una causa di non punibilità, la misura di sicurezza presuppone sempre una valutazione ulteriore rispetto a quella relativa alla sussistenza della fattispecie di reato (o "quasi-reato") "presupposta".

Ad esempio, ai fini dell’applicabilità delle misure di sicurezza personale non è mai sufficiente la verifica della commissione di un fatto di reato attribuibile al soggetto, ma occorre anche l’accertamento della pericolosità sociale del medesimo, a norma dell’art. 202; allo stesso modo, ai fini dell’applicabilità della figura "classica" di confisca prevista dall’art. 240, primo comma, è necessario in ogni caso accertare che le cose da sottoporre ad ablazione «servirono o furono destinate a commettere il reato», o sono «il prodotto o il profitto» dell’illecito penale.

La nozione di "misura di sicurezza illegale" quale categoria concernente le misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge consente anche di assicurare il rispetto del principio costituzionale della ricorribilità in cassazione «per violazione di legge» contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale, fissato dall’art. 111, settimo comma, Cost. La natura del giudizio di cassazione come «rimedio costituzionalmente imposto» nei confronti di tutte le sentenze ed i provvedimenti in materia sulla libertà personale è oggetto di un consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

La giurisprudenza costituzionale, in particolare, ha evidenziato: «l’art. 111 della Costituzione [...] non a caso prevede che contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale "è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge". Ciò sta dunque a significare non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte suprema, cioè il diritto al processo in cassazione» (Corte costituzionale, sentenza 395/2000).

Il «carattere "costituzionalmente imposto" del controllo di legalità dell’operato dei giudici di merito mediante il ricorso per cassazione» è stato poi ribadito da numerose decisioni della giurisprudenza di legittimità ed anche delle Sezioni unite.

In particolare, SU, 28719/2012 e SU, 13199/2017 hanno inferito dalla natura di rimedio costituzionalmente imposto del ricorso per cassazione, rispettivamente, la legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625-bis CPP anche dell’imputato condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, e l’esperibilità del ricorso straordinario ex art. 625-bis CPP anche in caso di giudizio di revisione e di ordinanze del giudice dell’esecuzione incidenti sulla stabilizzazione del giudicato. SU, 8914/2018, poi, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 613 CPP, come modificato dall’art. 1, comma 55, L. 103/2017, per asserita violazione degli artt. 24, 111, settimo comma, Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui non consente più la proposizione del ricorso in cassazione all’imputato personalmente, ha evidenziato, da un lato, «il carattere "costituzionalmente imposto" del controllo di legalità dell’operato dei giudici di merito mediante il ricorso in cassazione», e, dall’altro, la modulabilità delle sue forme di attuazione in funzione dell’esercizio della nomofilachia.

In particolare, la decisione afferma: «Il carattere "costituzionalmente imposto" del controllo di legalità dell’operato dei giudici di merito mediante il ricorso in cassazione (Corte cost., sent. n. 395 del 13 luglio 2000) non preclude, tuttavia, la discrezionalità del legislatore ordinario nella possibilità di conformare razionalmente l’esercizio di tale garanzia e di rinvenire soluzioni, quali la esclusione della legittimazione personale alla impugnazione in sede di legittimità, volte a garantire un migliore funzionamento della Corte di cassazione ed un più agevole esercizio delle funzioni di nomofilachia alla stessa attribuite».

La garanzia costituzionale del controllo di legalità dell’operato dei giudici di merito mediante il ricorso per cassazione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, si estende anche alla mancanza o mera apparenza della motivazione. Invero, risulta costante l’insegnamento secondo cui il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. è esperibile anche in caso di motivazione «mancante o meramente apparente, perché in tali casi si ha la violazione della norma che impone l’obbligo della motivazione» (così SU, 25080/2003).

Del resto, in linea ancor più generale, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente ritenuto compresi nell’ambito della nozione di violazione di legge sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (SU, 25932/2008; nello stesso senso, di recente, SU, 15453/2016, nonché, in precedenza, SU, 5876/2014, e, in materia di misure di prevenzione, SU, 33451/2014).

Alla garanzia costituzionale della ricorribilità in cassazione, assicurata dall’art. 111, settimo comma, Cost., difficilmente può ritenersi estraneo il controllo sul rispetto dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per l’applicazione delle misure di sicurezza. Come si è detto, ai fini dell’imposizione di un provvedimento di tale tipologia, non è sufficiente che risulti l’accertamento di un fatto di reato, ma  per espressa disposizione di legge  occorre la verifica dell’esistenza di presupposti ulteriori, come, nel caso delle misure personali, la pericolosità sociale del soggetto, o, nel caso della confisca ex art. 240, primo comma, il rapporto di pertinenzialità o di derivazione tra la cosa ed il reato.

Di conseguenza, il controllo sulla «violazione di legge», nell’accezione costituzionalmente rilevante, sembra doversi riferire all’accertamento non solo del fatto di reato, ma anche degli altri presupposti previsti dalla legge per l’applicazione della misura. Diversamente, infatti, la verifica dell’esistenza di questi ultimi, resterebbe sottratta ad ogni controllo, e, quindi, ancor più specificamente, sarebbe immune da ogni sindacato anche il rispetto delle prescrizioni di legge ad essi relative.

Diversa è la questione del controllo sulla legalità della pena. Invero, l’applicazione della pena segue sempre, salvo il caso di una condizione di punibilità o di non punibilità espressamente tipizzata, all’accertamento del reato. Pertanto, sembra ragionevole ammettere che, a norma dell’art. 111, settimo comma, Cost., il controllo sulla legalità della pena, a differenza di quella sulla legalità della misura di sicurezza, una volta accertata l’esistenza del reato, possa essere limitato alla sola verifica del rispetto della cornice edittale e del riferimento, da parte del giudice di merito, nel procedimento di commisurazione, ad una cornice edittale correttamente applicabile.

Le conclusioni indicate appaiono in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in tema di rapporti tra sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e principi costituzionali in materia di motivazione e di ricorribilità in cassazione. Nella giurisprudenza costituzionale emergono specifiche indicazioni in tema di obbligo costituzionale di motivazione della sentenza emessa a norma dell’art. 444 e ss. CPP. In particolare, Corte costituzionale, sentenza 313/1990, dopo aver precisato che, nel rito di applicazione della pena su richiesta, il dovere del giudice di motivare non si esaurisce nell’enunciazione nel dispositivo della sentenza dell’avvenuta proposizione della richiesta delle parti, ha rappresentato che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 444 CPP. in riferimento all’art. 111, primo [ora sesto] comma, Cost. è infondata anche per l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 546, comma 1, lett. e), CPP.

Precisamente, la Consulta ha osservato: «il modello generale di sentenza, che il legislatore delinea nell’art. 546 cod. proc. pen., prevede alla lettera e del primo comma "la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata": si tratta di un’esigenza che non è esclusa dalla particolare configurazione della sentenza prevista dall’art. 444 cod. proc. pen., anche se ovviamente va ad essa ragguagliata». Nella giurisprudenza di legittimità, i principi fondamentali in materia risultano stabilizzati all’esito delle sostanzialmente convergenti pronunce delle Sezioni unite.

In particolare, SU, 10372/1995, ha affermato che l’obbligo della motivazione, imposto al giudice dagli artt. 111 Cost. e 125, comma 3, CPP per tutte le sentenze, opera anche rispetto a quelle di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se deve essere conformato alla particolare natura giuridica di queste, sicché lo sviluppo delle linee argomentative della decisione assunta ex artt. 444 ss. CPP è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione. SU, 20/1999, poi, ha sì ritenuto che l’intervenuto patteggiamento preclude la possibilità di contestare, con i motivi di impugnazione, i termini fattuali dell’imputazione, ma ha anche precisato: «di fronte al patteggiamento delle parti, è compito indeclinabile del giudice valutare gli elementi probatori acquisiti ed accertare i fatti per verificare l’eventuale esistenza di cause di non punibilità a norma dell’art. 129 CPP e la necessità dell’accertamento del fatto è inderogabilmente postulata, oltre che nell’ottica dell’applicazione di cause di non punibilità, tanto ai fini del controllo dell’esattezza della qualificazione giuridica, che si attua attraverso la verifica della corrispondenza del fatto accertato con la fattispecie legale, quanto ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie».

SU, 5/2000, ancora, nell’affermare che con il ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento può essere denunciata l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo delle parti e recepita dal giudice, ha posto a fondamento di tale enunciato anche, e specificamente, il principio della «ricorribilità per cassazione di tutte le sentenze per violazione di legge, come prevede l’articolo 111, comma 2 [ora settimo comma], della Carta costituzionale, in quanto necessariamente implicante la deducibilità, in sede di legittimità, di un «chiaro errore di diritto».

In considerazione delle riferite indicazioni, il sindacato di legittimità sulla "illegalità delle misure di sicurezza", intendendo questa categoria come relativa alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, appare coerente sia con l’esigenza costituzionale della motivazione in relazione alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, sia con il principio della ricorribilità in cassazione avverso tale tipologia di sentenza in relazione agli errori di diritto. Da un lato, infatti, sembra corretto sintetizzare che, secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, l’esigenza costituzionale della motivazione in relazione alle sentenze pronunciate a norma dell’art. 444 ss. CPP deve conformarsi al contenuto delle stesse.

Ora, pur restando nell’ambito di queste coordinate, appare ragionevole ritenere che l’obbligo di motivazione, in relazione all’applicazione delle misure di sicurezza, implichi un discorso giustificativo più analitico ed approfondito di quello richiesto per l’accertamento del fatto di reato e per la determinazione della pena: lo stesso, infatti, con riferimento a tali disposizioni, non è correlabile ad alcun atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione o concorda la pena.

Dall’altro, poi, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il principio costituzionale della ricorribilità in cassazione avverso le sentenze di applicazione della pena su richiesta impone di ritenere consentito il sindacato sugli errori di diritto. Ebbene, il controllo sulla violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge in tema di applicazione di misure di sicurezza, per le ragioni precedentemente precisate, risulta essere proprio un sindacato sugli errori di diritto. Le conclusioni in ordine alla tipologia di controllo di legittimità sulla illegalità della misura di sicurezza, inoltre, sembrano compatibili con i principi della CEDU.

Nella giurisprudenza della Corte EDU, innanzitutto, è frequente l’affermazione secondo cui l’attuazione della garanzia di cui all’art. 2 Prot. 7 CEDU, in forza della quale ciascun condannato per un reato da un Tribunale ha diritto ad un giudizio di controllo da parte di un giudice superiore, è rimessa ad un ampio margine di apprezzamento da parte degli Stati nazionali (cfr., in particolare: Corte EDU, 25/07/2017, Rostovtsev c. Ucraina; Corte EDU, 29/04/2014, Natsvlishili e Togonidze c. Georgia; Corte EDU, 13/02/2001, Krombach c. Francia).

Nella medesima giurisprudenza, poi, vi è anche espressa indicazione che i moduli di definizione concordata del processo penale possono implicare garanzie di impugnazione meno ampie. In particolare, Corte EDU, 29/04/2014, Natsvlishili e Togonidze c. Georgia, § 96, ha osservato che è ragionevole ritenere più limitato il diritto di impugnazione nel caso di condanne pronunciate sulla base di riti "patteggiati". A fondamento di questo enunciato, i giudici di Strasburgo hanno innanzitutto osservato che l’attuazione della garanzia di cui all’art. 2 Prot. 7 CEDU, in forza della quale ciascun condannato per un reato da un Tribunale ha diritto ad un giudizio di controllo da parte di un giudice superiore, è rimessa ad un ampio margine di apprezzamento da parte degli Stati nazionali; hanno poi aggiunto che l’accettazione della procedura di definizione concordata del procedimento, come comporta una rinuncia alle garanzie del processo ordinario, così può implicare la rinuncia alla possibilità di fruire del regime ordinario delle impugnazioni.

La soluzione accolta dal collegio in relazione al sindacato sull’applicazione di una misura di sicurezza, se esclude l’applicabilità della disciplina ordinaria del controllo di legittimità a norma dell’art. 606 CPP, implica comunque un controllo di legalità nella misura costituzionalmente inderogabile fissata dall’art. 111 Cost. (Sez. 3, 4252/2019).

Il principio di legalità, enunciato per le misure di sicurezza dall’art. 199 e sistematicamente composto con quello della legalità della pena, di cui all’art. 1, nella previsione di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., informa di sé tutto il sistema penale e vieta che abbia esecuzione, con la pena illegale, anche una misura di sicurezza illegale, ovverosia che non abbia fondamento, nel caso concreto oggetto di giudizio, in una norma di legge. Sull’indicata premessa, mutuando definizioni maturate nella giurisprudenza di legittimità in materia di pena illegale (sulla definizione di pena illegale, tra le altre: SU, 47766/2015), può ben concludersi nel senso che la misura di sicurezza illegale è categoria destinata a ricomprendere, in riferimento al rito prescelto, sia quella non prevista dall’ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, sia, ancora, quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali.

Resta pertanto estraneo al sindacato di legittimità  ristretto ai profili di illegalità della misura  la diversa fattispecie della misura di sicurezza la cui applicazione sia esclusivamente denunciata per vizio di motivazione da mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà e sua insufficienza, nella differente riconducibilità delle descritte ipotesi al vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) CPP.

Non solo, infatti, l’illegalità è categoria che predica la radicale estraneità a sistema della misura di sicurezza, come già della pena, per mancanza di elementi di struttura rispetto al modello tipico applicabile al caso concreto, mentre, al contrario, la fattispecie della motivazione viziata per le sintomatiche declinazioni di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) evoca una causa di illegittimità della sentenza di merito, emendabile nel rapporto tra giudizio rescindente di legittimità e rescissorio del giudice di rinvio, sicché quest’ultima tradisce, nel suo diverso ambito operativo, una tendenziale eterogeneità rispetto alla illegalità, categoria, robusta, che si caratterizza per l’irrimediabile deviazione della misura di sicurezza applicata dal rilevante modello tipico.

Ma, soprattutto, i vizi di motivazione  ed anche la sua totale mancanza, che nelle sue possibili declinazioni è stata talvolta ricondotta alla categoria della violazione di legge  non sono autonomamente deducibili col ricorso per cassazione, allorché la loro proposizione non si accompagni alla plausibile prospettazione di quella specifica violazione di legge penale sostanziale  evocata nel comma 2-bis dell’art. 448 e sopra descritta  rappresentata dalla illegalità dell’applicata misura di sicurezza.

L’illegalità di tale misura è infatti il necessario corollario  anzi, il vero e proprio presupposto logico  di ogni censura della motivazione della sentenza di patteggiamento sul relativo punto della decisione: il primo vizio contiene in sé il secondo, che il primo presuppone e nel primo risulta necessariamente assorbito.

Sarebbe del resto inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento che lamentasse un vizio di motivazione in punto di misura di sicurezza senza prefigurare l’inosservanza o l’erronea applicazione delle rilevanti norme sostanziali in materia, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio.

Infine, il collegio ritiene che tale complessiva ricostruzione interpretativa dell’art. 448, comma 2-bis, CPP, sia conforme ai rilevanti parametri costituzionali e convenzionali. Osserva a tale riguardo che la scelta del rito alternativo, che sia immune da vizi per quanto concerne l’espressione della volontà dell’imputato (vizi che, significativamente e opportunamente, legittimano pubblico ministero e imputato al ricorso per cassazione ai sensi dello stesso comma 2-bis dell’art. 448), sostiene ragionevolmente una consapevole accettazione delle parti del ristretto regime di impugnazione definito dalle nuove norme.

E ciò anche per quanto attiene ai punti della sentenza di patteggiamento che, pur non ricompresi nel perimetro dell’accordo sulla pena, rientrano tuttavia in un’area di ragionevole prevedibilità, come nel caso di applicazione di misura di sicurezza non illegale, perché prevista dalla legge  quanto a specie, oggetto e durata/ammontare  in relazione al fatto contestato e ritenuto in sentenza. La previsione di una specifica disciplina transitoria per il novellato art. 448, comma 2-bis, CPP  che, ai sensi dell’art. 1, comma 51 L. 103/2017, si applica solo ai procedimenti nei quali la richiesta di pena ex art. 444 CPP è stata presentata successivamente alla entrata in vigore della legge di modifica  consente del resto alle parti una scelta del rito pienamente consapevole anche in ordine alle conseguenze relative al nuovo regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento e rappresenta un’ulteriore conferma della razionalità e ponderatezza della chiara scelta operata dal legislatore.

Per tutto quanto fin qui esposto, l’esperibilità del ricorso per cassazione in caso di illegalità della misura di sicurezza soddisfa i requisiti costituzionali richiesti dall’art. 111, commi 6 e 7, Cost. (il vizio deducibile, se correttamente e plausibilmente prospettato, comprende e assorbe i vizi di motivazione, dei quali rappresenta la necessaria cornice) e deve ritenersi conforme alle esigenze di tutela del diritto di difesa e di rispetto dei principi dell’equo processo, di cui agli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU, anche con specifico riferimento ai parametri di ragionevolezza, proporzionalità e ragionevole durata del processo.

Rientra infatti nel libero esercizio delle facoltà difensive dell’imputato il diritto di affrontare il giudizio ordinario, e di avvalersi così dei mezzi di impugnazione ad esso propri, ovvero di presentare richiesta di patteggiamento, coi benefici  e i limiti – che la legge ricollega, in questo caso, all’accordo delle parti sulla pena. In tale prospettiva, va rimarcato come, in relazione alle garanzie dell’equo processo e del doppio grado di giurisdizione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la decisione di patteggiamento implichi la consapevole rinuncia da parte dell’imputato ad una serie di diritti e garanzie procedurali che, allorché accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contraria al pubblico interesse.

La Corte EDU ha, a tale riguardo, espressamente condiviso l’idea che il patteggiamento offra "gli importanti vantaggi di una rapida decisione dei casi penali e di alleviare il carico di lavoro di tribunali, pubblici ministeri e avvocati", ed ha affermato di ritenere "normale che l’ambito dell’esercizio del diritto al controllo sulla decisione per mezzo delle impugnazioni sia più limitato per una condanna basata su un patteggiamento, che rappresenta una rinuncia al diritto di avere la causa penale contro l’accusato esaminata nel merito, rispetto a una condanna pronunciata all’esito di un processo penale ordinario".

Col medesimo provvedimento la Corte EDU ha ribadito che "gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 7" e si è detta del parere che accettando il patteggiamento, il ricorrente, oltre a rinunciare al suo diritto a un processo ordinario, rinunci validamente anche al suo diritto di impugnare la sentenza con i mezzi ordinari, e che di questa particolare conseguenza legale del patteggiamento, chiaramente formulata dalla normativa interna, egli debba essere ritenuto consapevole, essendo tra l’altro dotato di difesa tecnica.

La Corte EDU ha dunque ritenuto che, nel caso sottoposto al suo esame, nel quale l’accordo sulla pena era riconducibile ad una decisione volontaria e consapevole, il patteggiamento era conforme alle esigenze dell’equo processo di cui all’articolo 6 § 1 della Convenzione e che la rinuncia al diritto di impugnazione coi mezzi ordinari non rappresenta una restrizione arbitraria e contraria al principio di ragionevolezza contenuto nell’articolo 2 del Protocollo n. 7 (Sez. 6, 7630/2019).