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Art. 228 - Libertà vigilata

1. La sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata è affidata all’autorità di pubblica sicurezza. Alla persona in stato di libertà vigilata sono imposte dal giudice prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati.

2. Tali prescrizioni possono essere dal giudice successivamente modificate o limitate.

3. La sorveglianza deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale.

4. La libertà vigilata non può avere durata inferiore a un anno.

5. Per la vigilanza sui minori si osservano le disposizioni precedenti, in quanto non provvedano leggi speciali.

Rassegna di giurisprudenza

La sostituzione della libertà vigilata con una misura più grave, come l’assegnazione ad una casa di lavoro, non può essere disposta in sede di riesame della pericolosità, se non nel caso in cui l’interessato abbia trasgredito gli obblighi impostigli durante il periodo di sottoposizione alla libertà vigilata, come previsto dall’art. 231. L’aggravamento può essere disposto anche in relazione alla commissione di reati durante il periodo di esecuzione della libertà vigilata, in quanto le prescrizioni sono imposte proprio al fine di evitare le occasioni di nuovi reati (art. 228, comma secondo). Non è necessario poi che le trasgressioni trovino conferma in una sentenza di condanna (Sez. 7, 48742/2017).

L’art. 230, comma primo, n. 1) impone l’applicazione della libertà vigilata per un tempo non inferiore a tre anni, sempre che sia stata accertata l’attuale pericolosità di colui che è stato condannato a non meno di dieci anni di reclusione, ma non esclude, nella lettura della medesima norma coordinata con quella prevista dall’art. 228, comma terzo, (lì dove è previsto solo il limite minimo di un anno), che il giudice possa applicare la libertà vigilata per il medesimo tempo di tre anni anche al condannato a pena inferiore a dieci anni (Sez. 1, 42804/2017).

La misura di sicurezza personale, diversamente dalla pena, ha una durata massima indeterminata  salvi i limiti introdotti dalla L. 81/2014  ed è sottoposta alla verifica, in concreto, del venir meno della pericolosità sociale del soggetto, in tal senso la sua cessazione conseguendo esclusivamente all’accertamento della sopravvenuta mancanza di tale pericolosità (ex art. 207), fermo restando che la previsione di un periodo minimo di durata delle misure di sicurezza personali e il necessario riesame della pericolosità sociale  effettuato, oltre che alla scadenza di esso, comunque allorquando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato (ex art 208), nell’alveo giurisdizionale e con le garanzie difensive previste anche nel procedimento di sorveglianza  rendono la mancata fissazione di una durata massima (nei limiti in cui essa tuttora persiste, post L. 81/2014) compatibile con il principio dell’inviolabilità della libertà personale (Sez. 1, 42804/2017).

La Corte costituzionale con sentenza 253/2003 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 (ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale.

La Corte costituzionale in motivazione ha censurato «il vincolo rigido imposto al giudice di disporre comunque la misura detentiva (tale è il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario: art. 215, primo comma, n. 3, anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, che è accompagnata da prescrizioni imposte dal giudice di contenuto non tipizzato (e quindi anche con valenza terapeutica), "idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati" (art. 228, secondo comma), appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale».

Ha evidenziato, inoltre, che per l’infermo di mente "‘l’automatismo di una misura segregante e "totale", come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta pur quando essa appaia in concreto inadatta, infrange l’equilibrio costituzionalmente necessario e viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione".

Di qui la necessità «di eliminare l’accennato automatismo, consentendo che, pur nell’ambito dell’attuale sistema, il giudice possa adottare, fra le misure che l’ordinamento prevede, quella che in concreto appaia idonea a soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona, da un lato, di controllo e contenimento della sua pericolosità sociale dall’altro lato».

Alla citata pronuncia è seguita la sentenza 367/2004, che ha dichiarato anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 206 (applicazione provvisoria delle misure di sicurezza), nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate ed a contenere la sua pericolosità sociale. Si ricorda, in proposito, che il primo comma del citato art. 206 prevede l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, limitandola alle sole misure detentive di natura custodiale-terapeutica (ospedale psichiatrico giudiziario o casa di cura e di custodia), ovvero a quelle minorili (riformatorio giudiziario e libertà vigilata - artt. 36 e ss., DPR 448/1988).

L’ambito applicativo è quindi soggettivamente limitato al minore di età, all’infermo di mente, all’ubriaco abituale, alla persona dedita all’uso di sostanze stupefacenti o in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti. In linea con gli stessi principi sopra enunciati, in altra sentenza (208/2009) la stessa Corte costituzionale ha ribadito che "si deve escludere l’automatismo che impone al giudice di disporre comunque la misura detentiva, anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale.

Tale principio, dettato in relazione alla misura del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, vale anche per l’assegnazione ad una casa di cura e di custodia, che è, a sua volta, misura di sicurezza detentiva e quindi segregante (art. 215, comma secondo, n. 2), sicché ad essa ben si attagliano le conclusioni circa la violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute svolte, in particolare, nella sentenza n. 253 del 2003". Né differenze significative "possono ravvisarsi nella circostanza che la misura di cui all’art. 222 presuppone che il soggetto interessato risulti gravemente infermo di mente, e quindi non sia penalmente responsabile. Come rilevato in dottrina e in giurisprudenza, vi è una sostanziale identità concettuale tra vizio totale e vizio parziale di mente, il cui unico elemento differenziatore consiste nella diversa incidenza quantitativa esercitata sulla capacità d’intendere e di volere, capacità esclusa nell’ipotesi di cui all’art. 88, soltanto diminuita  ma comunque grandemente scemata  nell’ipotesi di cui all’art. 89" (Sez. 5, 51137/2015).