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Art. 439 - Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari

1. Chiunque avvelena acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni.

2. Se dal fatto deriva la morte di alcuno, si applica l’ergastolo; e, nel caso di morte di più persone, si applica la pena di morte (1).

(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall’art. 1, DLGS LGT 224/1944 e sostituita con la pena dell’ergastolo.

Rassegna di giurisprudenza

La tutela penale della contaminazione delle acque destinate all’alimentazione da cui derivi pericolo per la salute pubblica è contemplata negli artt. 439 e 440 che sono le fattispecie dolose alle quali l’art. 452 associa, estendendone per relationem l’area applicativa, le corrispondenti fattispecie colpose. La caratteristica comune di dette norme è che la condotta deve essere commessa prima che le acque potabili o le sostanze destinate all’alimentazione siano attinte o distribuite per il consumo. Uno dei più delicati problemi interpretativi attiene alla individuazione dei profili di tipicità sottesi alle rispettive incriminazioni.

Le ipotesi di «avvelenamento» e di «corrompimento» delle acque, originariamente giustapposte nell’art. 318 del codice Zanardelli e sottoposte al medesimo trattamento sanzionatorio, sono state disciplinate dal codice Rocco in distinte disposizioni il cui principale tratto differenziale è individuabile nell’inclusione nel concetto di avvelenamento della proiezione offensiva sul bene protetto, prescindendo dal richiamo espresso alla messa a repentaglio della salute pubblica che permane, invece, in rapporto all’ipotesi, meno grave, del «corrompimento».

Oggetto di tutela di entrambe le norme sono sia le acque potabili comuni o minerali immuni da elementi insalubri quanto le acque destinate all’alimentazione sebbene chimicamente e batteriologicamente impure; ciò che rileva non sono tanto i caratteri biochimici della potabilità secondo i canoni previsti dalle leggi sanitarie e dalla scienza bensì l’uso effettivo e reale delle acque ad uso di alimentazione (Sez. 4, 6651/1984).

Dal punto di vista letterale i termini «avvelenare» e «corrompere» indicano entrambi un’azione che provoca il deterioramento dell’alimento attraverso l’aggiunta di sostanze estranee che determinano un’alterazione della sua natura biologica o chimico - fisica, senza che in essi sia possibile cogliere la diversa modalità del processo di apporto della sostanza contaminante. I principi basilari della scienza tossicologica inducono ad escludere di poter fondare il criterio discretivo di dette fattispecie esclusivamente sulla base della mera natura della sostanza contaminante indipendentemente dalla sua concentrazione, riservando cioè ad una presunta categoria di «veleni» l’ambito operativo dell’art. 439 e, in via residuale, alle sostanze non qualificabili come tali quello riferibile all’art. 440.

Risulta infatti consolidato l’assunto secondo cui non è possibile definire a priori quali sostanze siano «veleni» in quanto le indicazioni che si ricavano dalla scienza tossicologica non costituiscono un numerus clausus, dovendo considerarsi tali anche quelli non inseriti nella farmacopea ufficiale, e risultano incompleti i modelli causali che determinano i meccanismi della loro tossicità.

È comunque indubbio che il concetto di «avvelenamento» ha connaturato in sé un intrinseco coefficiente di offensività, tant’è che il concreto pericolo per la salute pubblica deve ritenersi implicitamente ricompreso nella stessa tipologia di condotta di cui è chiaramente percepibile il disvalore (Sez. 1, 45001/2014) mentre la minore pregnanza della condotta di «corrompimento» ha indotto il legislatore a stabilirne la punibilità quando risulti concretamente pericolosa per la salute pubblica, oltre che a calibrare diversamente la risposta sanzionatoria.

Le norme si pongono, dunque, in un rapporto di sussidiarietà nel senso che l’avvelenamento è caratterizzato dall’immissione di sostanze di natura e in quantità tale che, seppur senza avere necessariamente una potenzialità letale, producono ordinariamente, in caso di assunzione, effetti tossici secondo un meccanismo di regolarità causale che desta un notevole allarme sanitario che va valutato anche in relazione alla tipologia delle possibili malattie conseguenti (Sez. 1, 35456/2006). Nel caso in cui, invece, il rischio sanitario sia complessivamente di entità minore trova applicazione l’art. 440.

Tale assunto trova conferma testuale nella struttura di detta fattispecie che non prevede alcuna circostanza aggravante, a differenza dell’art. 439, in relazione al caso in cui dalla condotta derivi la morte di una o più persone; da ciò si desume che la condotta di corrompimento dell’acqua o dell’alimento non deve comportare il pericolo di morte per il consumatore della sostanza corrotta, tanto da giustificare il più lieve trattamento sanzionatorio (Sez. 4, 9133/2018).

Il reato di avvelenamento colposo delle acque trova la sua fonte normativa, come recita l’imputazione, nel combinato disposto degli articoli 439 e 452. La norma di cui all’art. 439 prevede che: “Chiunque avvelena acque o sostanze destinate alla alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni” E l’art. 452 estende la punibilità a “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439” prevedendo che sia punito (...) “3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione”.

Va subito evidenziato come la portata semantica del termine “avvelenamento” potrebbe indurre l’interprete a concludere che si tratti di una fattispecie di pericolo concreto che, per divenire effettivo, deve portare all’avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione. La formulazione stessa della norma, tuttavia, quando impone che l’accertamento del pericolo avvenga “prima” che le sostanze siano attinte o distribuite per il consumo, porta, invece, a propendere per un inquadramento della norma nel novero dei reati di pericolo astratto o presunto.

La ratio della previsione incriminatrice risiede nel colpire la diffusività del pericolo nei confronti di un numero indeterminato di persone, derivandone che ricade nella fattispecie in esame l’avvelenamento compiuto in qualsiasi fase anteriore alla destinazione dell’acqua o della merce ad uno specifico acquirente, poiché è in quel momento, e più precisamente solo in quel momento, che il pericolo collettivo si puntualizza in un pericolo individuale, sanzionato da altre disposizioni. Ed è lo stesso tenore letterale della norma che depone in tal senso, in quanto la” distribuzione per il consumo” rende l’idea di qualsiasi atto di cessione a terzi, successivo alla mera “detenzione per la vendita”.

La giurisprudenza di legittimità, con una pronuncia condivisibile, ha chiarito che, per la configurabilità del reato di avvelenamento (ipotizzato, nella specie, come colposo) di acque o sostanze destinate all’alimentazione, pur dovendosi ritenere che trattasi di reato di pericolo presunto, è tuttavia necessario che un «avvelenamento» di per sé produttivo, come tale, di pericolo per la salute pubblica, vi sia comunque stato; il che richiede che vi sia stata immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico-nocivi per la salute (Sez. 4, 15216/2007, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto fondata ed assorbente la censura con la quale, da parte dell’imputato, dichiarato responsabile del reato de quo a causa dello sversamento accidentale in un corso di acqua pubblica di un quantitativo di acido cromico, si era denunciato il mancato accertamento, in sede di merito, dell’effettiva pericolosità della concentrazione di detta sostanza in corrispondenza del punto d’ingresso delle acque nell’impianto di potabilizzazione, essendosi ritenuto sufficiente il mero superamento dei limiti tabellari).

Pericolosa per il bene giuridico tutelato è, in altre parole, quella dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute. Detta pericolosità deve dunque potersi ritenere scientificamente accertata quando possa dirsi riferita a “dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute” (Sez. 4, 15216/2017). Nel ribadire tale principio, di recente, si è precisato che non è sufficiente il mero superamento dei “limiti soglia” di carattere precauzionale, che costituiscono una prudenziale indicazione sulla quantità di sostanza, presente in alimenti, che l’uomo può assumere senza rischio, quotidianamente e sul lungo periodo (Sez. 4, 25547/2018).

Tale superamento non è sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall’art. 257 DLGS 152/2006, la quale sanziona condotte di “inquinamento”, ossia causative di un evento che costituisce evidentemente un “minus” rispetto all’ipotesi di “avvelenamento” (Sez. 1, 45001/2014). Va ulteriormente precisato che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 439 l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione non deve avere necessariamente potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia la potenzialità di nuocere alla salute.

E che le acque considerate dalla norma di cui ci si occupa sono quelle destinate all’alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Tali principi sono stati affermati già oltre trent’anni or sono, in riferimento ad un caso che presentava molte similitudini rispetto a quello che ci occupa, in cui vi era stato lo sversamento nel terreno di sostanze inquinanti di origine industriale, penetrate in falde acquifere, con conseguente avvelenamento dell’acqua di vari pozzi della zona ed è stata respinta la tesi difensiva secondo cui per acqua destinata all’alimentazione deve intendersi solo l’acqua «potabile» a norma dell’art. 249 T.U. leggi sanitarie (Sez. 4, 6651/1985).

Ancora, recentemente, si è affermato che la condotta di avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione di cui all’art. 439, a differenza di quella di corrompimento di cui all’art. 440, ha connaturato in sé un intrinseco coefficiente di offensività, caratterizzandosi per l’immissione di sostanze estranee di natura e in quantità tale che, seppur senza avere necessariamente una potenzialità letale, producono ordinariamente, in caso di assunzione, effetti tossici secondo un meccanismo di regolarità causale che desta un notevole allarme sanitario da valutarsi anche in relazione alla tipologia delle possibili malattie conseguenti (così Sez. 4, 9133/2018 che ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 440 a carico del dirigente e del responsabile di settore di una società di gestione di un acquedotto, in ragione della concentrazione non elevata degli agenti patogeni veicolati nell’acqua e del loro ruolo eziologico nella diffusione di una malattia infettiva  la gastroenterite  che, nelle sue concrete modalità di manifestazione non era risultata particolarmente invasiva per la salute, tenuto conto anche dei contenuti tempi di guarigione delle persone offese) (Sez. 4, 48548/2018).

Il reato di avvelenamento ex art. 439 è un reato istantaneo ad effetti permanenti che si realizza nel momento in cui le condotte inquinanti, per la qualità e la quantità della polluzione, divengono pericolose per la salute pubblica, cioè potenzialmente idonee a produrre effetti tossico-nocivi per la salute pubblica, come subito si vedrà analizzando la struttura della fattispecie. In tale genere di reati  va ricordato  non si ha il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono le sole conseguenze dannose del reato.

Diversamente da quanto avviene in altri reati, quale, ad esempio, quello di disastro innominato di cui all’art. 434 comma 2, in quello di avvelenamento colposo delle acque, ai fini della consumazione andrà tenuto conto del momento in cui è cessata la condotta inquinante, ma anche di quello in cui si è realizzato l’evento di inquinamento della falda (Sez. 4, 25547/2018).

Ai fini della configurabilità del delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione non deve necessariamente avere potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia idoneità a nuocere alla salute (Sez. 1, 35456/2006).

Per la configurabilità del reato di avvelenamento (sia esso ipotizzato, come nella specie, quale delitto doloso, o quale fatto colposo) di acque o sostanze destinate all’alimentazione, pur potendosi ritenere giustificato l’orientamento secondo cui che il reato è di pericolo presunto, è tuttavia necessario che un “avvelenamento”, vi sia comunque stato. E il termine “avvelenamento”, «che ha pregnanza semantica tale da renderne deducibile in via normale il pericolo per la salute pubblica», non può riferirsi che «a condotte che, per la qualità e la quantità dell’inquinante, siano pericolose per la salute pubblica (vale a dire potenzialmente idonee a produrre effetti tossico-nocivi per la salute)».

Detta pericolosità deve dunque potersi ritenere scientificamente accertata, nel senso che deve essere riferita a «dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute» (Sez. 4, 15216/2007).

Ne discende che non può ritenersi corretto, neppure ai limitati fini dell’apprezzamento del fumus del reato contestato, allorché si ipotizza che questo consisterebbe nell’avvelenamento di acque o di sostanze alimentari ai sensi dell’art. 439, il riferimento a schemi presuntivi che s’attestano su indicazioni di carattere meramente precauzionale, ovvero, in particolare, ai cosiddetti CSC, limiti di concentrazione della contaminazione che costituiscono ai sensi del citato decreto legislativo sull’inquinamento la prudenziale indicazione di una soglia di valori al di sotto della quale non si richiede, neppure in presenza di assunzione quotidiana e sul lungo periodo, alcun accertamento ulteriore di rischio e il cui superamento neppure basta ad integrare la fattispecie specifica di cui all’art. 257 DLGS 156/2006, posto che per la punibilità delle condotte ivi previste  che pure implicano un “inquinamento” che costituisce evidentemente un minus rispetto all’ipotesi di “avvelenamento”  si richiede il superamento delle “concentrazioni soglie di rischio” (CSR), ovverosia di valori ben superiori ai parametri di CSC (Sez. 1, 45001/2014).