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Art. 440 - Adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari

1. Chiunque corrompe o adultera acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.

2. La stessa pena si applica a chi contraffà, in modo pericoloso alla salute pubblica, sostanze alimentari destinate al commercio.

3. La pena è aumentata se sono adulterate o contraffatte sostanze medicinali.

Rassegna di giurisprudenza

Il requisito della pericolosità per la salute pubblica, necessario per poter configurare i reati di cui agli artt. 440 e 444, che non richiedono la verificazione di alcun effettivo pregiudizio, deve essere accertato concretamente, di volta in volta, attraverso l’individuazione dei requisiti specifici della sostanza alimentare in contestazione. Nella considerazione del legislatore l’attitudine che devono possedere le condotte incriminate non può risolversi in una mera ipotesi, né in un’astrazione, ma occorre il pericolo concreto di un pregiudizio al bene tutelato, la cui sussistenza va dimostrata specificamente mediante indagine tecnica, oppure tramite qualsiasi altro mezzo di prova. L’opzione esegetica qui ribadita si avvale dell’autorevole conferma offerta dalla giurisprudenza costituzionale.

La Consulta nella sentenza 326/1993, nell’affrontare la questione d’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del DLGS 118/1992, il quale punisce la somministrazione di sostanze stilbeniche ad animali “da azienda”, ossia allevati per essere destinati all’alimentazione umana, sotto qualunque forma e per qualunque via, ha trattato anche il tema dei rapporti tra la norma scrutinata e quella di cui all’art. 440, di cui ha riconosciuto la reciproca autonomia.

Nell’analisi dei connotati fondamentali e tipici delle fattispecie penali a raffronto, che ha rimarcato come nettamente distinti, ha evidenziato la distinta struttura dei due illeciti, che richiedono sul piano oggettivo, nel caso della contravvenzione la mera somministrazione delle sostanze cancerogene, nel caso del delitto di cui all’art. 440 il compimento dell’attività di corruzione o adulterazione di sostanze destinate all’alimentazione” ed il realizzarsi del “pericolo concreto per la salute pubblica, elemento, questo, che non si riscontra nella fattispecie legale di reato introdotta dalla norma denunziata: con quest’ultima il legislatore, sulla base di una generica previsione di pericolo astratto, più coerente con una fattispecie contravvenzionale, ha arretrato la soglia della punibilità di interventi su sostanze destinate all’alimentazione umana, alla somministrazione in sé considerata” (Sez. 1, 54083/2017).

Il reato di avvelenamento colposo delle acque trova la sua fonte normativa, come recita l’imputazione, nel combinato disposto degli articoli 439 e 452. La norma di cui all’art. 439 prevede che: “Chiunque avvelena acque o sostanze destinate alla alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni” E l’art. 452 estende la punibilità a “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439” prevedendo che sia punito (...) “3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione”.

Va subito evidenziato come la portata semantica del termine “avvelenamento” potrebbe indurre l’interprete a concludere che si tratti di una fattispecie di pericolo concreto che, per divenire effettivo, deve portare all’avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione. La formulazione stessa della norma, tuttavia, quando impone che l’accertamento del pericolo avvenga “prima” che le sostanze siano attinte o distribuite per il consumo, porta, invece, a propendere per un inquadramento della norma nel novero dei reati di pericolo astratto o presunto.

La ratio della previsione incriminatrice risiede nel colpire la diffusività del pericolo nei confronti di un numero indeterminato di persone, derivandone che ricade nella fattispecie in esame l’avvelenamento compiuto in qualsiasi fase anteriore alla destinazione dell’acqua o della merce ad uno specifico acquirente, poiché è in quel momento, e più precisamente solo in quel momento, che il pericolo collettivo si puntualizza in un pericolo individuale, sanzionato da altre disposizioni. Ed è lo stesso tenore letterale della norma che depone in tal senso, in quanto la” distribuzione per il consumo” rende l’idea di qualsiasi atto di cessione a terzi, successivo alla mera “detenzione per la vendita”.

La giurisprudenza di legittimità, con una pronuncia condivisibile, ha chiarito che, per la configurabilità del reato di avvelenamento (ipotizzato, nella specie, come colposo) di acque o sostanze destinate all’alimentazione, pur dovendosi ritenere che trattasi di reato di pericolo presunto, è tuttavia necessario che un «avvelenamento» di per sé produttivo, come tale, di pericolo per la salute pubblica, vi sia comunque stato; il che richiede che vi sia stata immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico-nocivi per la salute (Sez. 4, 15216/2007, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto fondata ed assorbente la censura con la quale, da parte dell’imputato, dichiarato responsabile del reato de quo a causa dello sversamento accidentale in un corso di acqua pubblica di un quantitativo di acido cromico, si era denunciato il mancato accertamento, in sede di merito, dell’effettiva pericolosità della concentrazione di detta sostanza in corrispondenza del punto d’ingresso delle acque nell’impianto di potabilizzazione, essendosi ritenuto sufficiente il mero superamento dei limiti tabellari).

Pericolosa per il bene giuridico tutelato è, in altre parole, quella dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute. Detta pericolosità deve dunque potersi ritenere scientificamente accertata quando possa dirsi riferita a “dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute” (Sez. 4, 15216/2017).

Nel ribadire tale principio, di recente, si è precisato che non è sufficiente il mero superamento dei “limiti soglia” di carattere precauzionale, che costituiscono una prudenziale indicazione sulla quantità di sostanza, presente in alimenti, che l’uomo può assumere senza rischio, quotidianamente e sul lungo periodo (Sez. 4, 25547/2018). Tale superamento non è sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall’art. 257 DLGS 152/2006, la quale sanziona condotte di “inquinamento”, ossia causative di un evento che costituisce evidentemente un “minus” rispetto all’ipotesi di “avvelenamento” (Sez. 1, 45001/2014). Va ulteriormente precisato che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 439 l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione non deve avere necessariamente potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia la potenzialità di nuocere alla salute.

E che le acque considerate dalla norma di cui ci si occupa sono quelle destinate all’alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Tali principi sono stati affermati già oltre trent’anni or sono, in riferimento ad un caso che presentava molte similitudini rispetto a quello che ci occupa, in cui vi era stato lo sversamento nel terreno di sostanze inquinanti di origine industriale, penetrate in falde acquifere, con conseguente avvelenamento dell’acqua di vari pozzi della zona ed è stata respinta la tesi difensiva secondo cui per acqua destinata all’alimentazione deve intendersi solo l’acqua «potabile» a norma dell’art. 249 T.U. leggi sanitarie (Sez. 4, 6651/1985).

Ancora, recentemente, si è affermato che la condotta di avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione di cui all’art. 439, a differenza di quella di corrompimento di cui all’art. 440, ha connaturato in sé un intrinseco coefficiente di offensività, caratterizzandosi per l’immissione di sostanze estranee di natura e in quantità tale che, seppur senza avere necessariamente una potenzialità letale, producono ordinariamente, in caso di assunzione, effetti tossici secondo un meccanismo di regolarità causale che desta un notevole allarme sanitario da valutarsi anche in relazione alla tipologia delle possibili malattie conseguenti (così Sez. 4, 9133/2018 che ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 440 a carico del dirigente e del responsabile di settore di una società di gestione di un acquedotto, in ragione della concentrazione non elevata degli agenti patogeni veicolati nell’acqua e del loro ruolo eziologico nella diffusione di una malattia infettiva  la gastroenterite  che, nelle sue concrete modalità di manifestazione non era risultata particolarmente invasiva per la salute, tenuto conto anche dei contenuti tempi di guarigione delle persone offese) (Sez. 4, 48548/2018).

La tutela penale della contaminazione delle acque destinate all’alimentazione da cui derivi pericolo per la salute pubblica è contemplata negli artt. 439 e 440 che sono le fattispecie dolose alle quali l’art. 452 associa, estendendone per relationem l’area applicativa, le corrispondenti fattispecie colpose. La caratteristica comune di dette norme è che la condotta deve essere commessa prima che le acque potabili o le sostanze destinate all’alimentazione siano attinte o distribuite per il consumo. Uno dei più delicati problemi interpretativi attiene alla individuazione dei profili di tipicità sottesi alle rispettive incriminazioni.

Le ipotesi di «avvelenamento» e di «corrompimento» delle acque, originariamente giustapposte nell’art. 318 del codice Zanardelli e sottoposte al medesimo trattamento sanzionatorio, sono state disciplinate dal codice Rocco in distinte disposizioni il cui principale tratto differenziale è individuabile nell’inclusione nel concetto di avvelenamento della proiezione offensiva sul bene protetto, prescindendo dal richiamo espresso alla messa a repentaglio della salute pubblica che permane, invece, in rapporto all’ipotesi, meno grave, del «corrompimento».

Oggetto di tutela di entrambe le norme sono sia le acque potabili comuni o minerali immuni da elementi insalubri quanto le acque destinate all’alimentazione sebbene chimicamente e batteriologicamente impure; ciò che rileva non sono tanto i caratteri biochimici della potabilità secondo i canoni previsti dalle leggi sanitarie e dalla scienza bensì l’uso effettivo e reale delle acque ad uso di alimentazione (Sez. 4, 6651/1984). Dal punto di vista letterale i termini «avvelenare» e «corrompere» indicano entrambi un’azione che provoca il deterioramento dell’alimento attraverso l’aggiunta di sostanze estranee che determinano un’alterazione della sua natura biologica o chimico - fisica, senza che in essi sia possibile cogliere la diversa modalità del processo di apporto della sostanza contaminante.

I principi basilari della scienza tossicologica inducono ad escludere di poter fondare il criterio discretivo di dette fattispecie esclusivamente sulla base della mera natura della sostanza contaminante indipendentemente dalla sua concentrazione, riservando cioè ad una presunta categoria di «veleni» l’ambito operativo dell’art. 439 e, in via residuale, alle sostanze non qualificabili come tali quello riferibile all’art. 440. Risulta infatti consolidato l’assunto secondo cui non è possibile definire a priori quali sostanze siano «veleni» in quanto le indicazioni che si ricavano dalla scienza tossicologica non costituiscono un numerus clausus, dovendo considerarsi tali anche quelli non inseriti nella farmacopea ufficiale, e risultano incompleti i modelli causali che determinano i meccanismi della loro tossicità.

È comunque indubbio che il concetto di «avvelenamento» ha connaturato in sé un intrinseco coefficiente di offensività, tant’è che il concreto pericolo per la salute pubblica deve ritenersi implicitamente ricompreso nella stessa tipologia di condotta di cui è chiaramente percepibile il disvalore (Sez. 1, 45001/2014) mentre la minore pregnanza della condotta di «corrompimento» ha indotto il legislatore a stabilirne la punibilità quando risulti concretamente pericolosa per la salute pubblica, oltre che a calibrare diversamente la risposta sanzionatoria.

Le norme si pongono, dunque, in un rapporto di sussidiarietà nel senso che l’avvelenamento è caratterizzato dall’immissione di sostanze di natura e in quantità tale che, seppur senza avere necessariamente una potenzialità letale, producono ordinariamente, in caso di assunzione, effetti tossici secondo un meccanismo di regolarità causale che desta un notevole allarme sanitario che va valutato anche in relazione alla tipologia delle possibili malattie conseguenti (Sez. 1, 35456/2006). Nel caso in cui, invece, il rischio sanitario sia complessivamente di entità minore trova applicazione l’art. 440.

Tale assunto trova conferma testuale nella struttura di detta fattispecie che non prevede alcuna circostanza aggravante, a differenza dell’art. 439, in relazione al caso in cui dalla condotta derivi la morte di una o più persone; da ciò si desume che la condotta di corrompimento dell’acqua o dell’alimento non deve comportare il pericolo di morte per il consumatore della sostanza corrotta, tanto da giustificare il più lieve trattamento sanzionatorio (Sez. 4, 9133/2018).

Il reato di cui all’art. 440 è configurabile anche nell’ipotesi che il corrompimento venga operato su acque non pure dal punto di vista chimico o batteriologico (Sez. 1, 41983/2005).

L’art. 440 è suscettibile di essere realizzato sia in forma commissiva che in forma omissiva ai sensi dell’art. 40, comma 2, come nel caso della mancata adozione, da parte del titolare della posizione di garanzia, di cautele doverose atte ad evitare sversamenti di prodotti tossici che cagionino il corrompimento dell’acqua potabile (Sez. 3, 7170/1997).

Tra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 440 (adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari) e quella di cui all’art. 442 (commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate) vi è differenza sostanziale nell’attività posta in essere dal soggetto agente, considerato che l’elemento materiale della prima ipotesi è costituito dall’opera di corruzione o adulterazione delle sostanze alimentari destinate all’alimentazione o al commercio, mentre l’elemento oggettivo della seconda consiste nella detenzione per il commercio o nella distribuzione per il consumo di sostanze che siano state contraffatte o adulterate da altri (Sez. 1, 3842/2018).