Art. 176 - Liberazione condizionale
1. Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni.
2. Se si tratta di recidivo, nei casi preveduti dai capoversi dell’articolo 99, il condannato, per essere ammesso alla liberazione condizionale, deve avere scontato almeno quattro anni di pena e non meno di tre quarti della pena inflittagli.
3. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (1).
4. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle (2).
(1) Comma così sostituito dall’art. 28, L. 663/1986.
(2) Articolo così modificato dall’art. 2, L. 1634/1962.
Rassegna di giurisprudenza
Il sistema delineato dall’ordinamento penitenziario vigente, in materia di accesso ai benefici del detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo per condanne relative a reati contemplati dall’art. 4-bis Ord. pen., risulta compatibile con i principi costituzionali e con quelli della CEDU, in quanto, in caso di provato ravvedimento, il condannato può essere ammesso alla liberazione condizionale, ai sensi dell’art. 176, comma 3, anche per i predetti reati, in relazione ai quali la richiesta collaborazione e la perdita di legami con il contesto della criminalità organizzata costituiscono indici legali di tale ravvedimento; circostanza sufficiente, alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte dei diritti umani, ad escludere che il condannato sia privato «in radice» del diritto alla speranza e, sotto tale aspetto, assoggettato a pena inumana o degradante (Sez. 1, 56147/2018).
La nozione di “sicuro ravvedimento”, alla quale deve essere ancorato il giudizio prognostico relativo alla liberazione condizionale, si differenzia dall'ordinaria buona condotta carceraria, implicando comportamenti positivi da cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali, tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato (precisa il Supremo collegio che è certamente vero che il “sicuro ravvedimento” del detenuto è un elemento di difficile verifica, essendo legato al mondo interiore del condannato e collegandosi a un riscatto morale del reo, valutabili in una prospettiva globale, che consideri tutti gli atti e le manifestazioni della condotta del condannato, di contenuto materiale e morale, idonei ad assumere un valore sintomatico nella direzione prefigurata dall'art. 176 comma 1. Questo requisito, quindi, presuppone un comportamento attivo di pronta e costante adesione alle regole trattamentali, concretamente verificabile sulla base degli elementi di giudizio forniti dalle istituzioni penitenziarie, che, nel caso in cui l'istante sia un collaboratore di giustizia, deve tenere contro del percorso collaborativo intrapreso e del consolidamento nel tempo degli effetti positivi del processo rieducativo, l'ampiezza dell'arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa o di studio, lo svolgimento di attività sociali che forniscano la prova dell'aspirazione del detenuto al suo riscatto morale) (Sez. 1, 17831/2021).
L’accertamento del sicuro ravvedimento di cui all’art. 176 che costituisce il fondamento giuridico dell’istituto della liberazione condizionale postula una più ampia e penetrante valutazione della personalità del soggetto, che tenga conto, oltre che della condotta carceraria, anche del comportamento tenuto dallo stesso nelle varie manifestazioni della sua vita, nonché della volontà di reinserimento nella società, dedotta dall’interesse dimostrato per i valori etici e sociali, dalle prove di altruismo e di solidarietà, dall’interesse dimostrato per le vittime dei reati commessi e dal fattivo intendimento di riparare le conseguenze dannose dei medesimi. Conviene ricordare che, in tema di procedimento di sorveglianza, per effetto del rinvio operato dall’art. 678 CPP alla disciplina del procedimento di esecuzione di cui all’art. 666 CPP, il magistrato e il tribunale di sorveglianza, nell’ambito delle rispettive competenze, sono investiti di poteri istruttori di ufficio, con facoltà di chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni utili ai fini della decisione, e con possibilità di assumere le prove occorrenti in udienza nel rispetto del contraddittorio. Tuttavia, nessuna norma impone al giudice di sostituirsi alla parte inerte per acquisire documentazione o informazioni che possano servire a suffragare l’istanza da questa proposta: sebbene non sussista un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, esiste però un onere di allegazione, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi alla autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti (Sez. 1, 47089/2018).
È principio consolidato che la finalità principale del beneficio della liberazione anticipata è quella di consentire un più efficace reinserimento nella società del condannato che abbia offerto la prova di partecipazione all’opera di rieducazione, anche senza attingere quel «sicuro ravvedimento» che, invece, esige l’art. 176 per la concessione della liberazione condizionale (Corte costituzionale, sentenza 276/1990).
Si è più volte sottolineato il contenuto complesso del concetto di partecipazione all’opera di rieducazione espresso dall’art. 54 Ord. pen. e successive modifiche, lo stesso, da un lato, richiamando comportamenti esteriori oggettivamente determinati e, dall’altro, – evocando un’adesione psicologica al trattamento sintomatica di un processo di reintegrazione sociale in itinere, e si è rimarcata la rilevanza del riferimento, operato – al fine della valutazione della indicata partecipazione dall’art. 103, comma 2, DPR 230/2000 (contenente il regolamento dell’ordinamento penitenziario), a parametri precisi e oggettivi e, segnatamente, all’impegno, non meramente formale, dimostrato dal detenuto «nel trarre profitto delle opportunità offertegli nel corso del trattamento e al mantenimento di corretti e costruttivi rapporti con gli operatori, con i compagni, con la famiglia e la comunità esterna», per la loro idoneità a rivelare una tensione finalistica verso nuovi modelli di vita, contraddistinti dall’abbandono delle pregresse logiche devianti. Nel ribadire che il beneficio non può essere negato in presenza di violazioni (della disciplina carceraria o punibili come reati) che siano di lieve entità e, comunque, scarsamente significative, in termini contenutistici, di incompatibilità con la richiesta condotta partecipativa, non potendo in nessun caso prescindersi dall’esame delle relazioni comportamentali relative all’intero periodo e dalla valutazione di tutti gli aspetti del singolo fatto, si è costantemente riaffermato nella giurisprudenza di legittimità che la normale valutazione per semestri del comportamento del condannato, se non esclude che un fatto negativo possa riverberarsi anche sulla valutazione dei semestri diversi, antecedenti ovvero successivi, ovvero non immediatamente contigui, rispetto a quello in cui il fatto è avvenuto, richiede comunque che la condotta cui si attribuisce tale effetto «espansivo» risulti e sia valutata come particolarmente grave ed effettivamente sintomatica di una generalizzata mancanza di adesione alle finalità del trattamento ovvero dell’assenza di effetti positivi dell’opera di rieducazione sul detenuto (Sez. 1, 43820/2018).
L’ultimo comma dell’art. 176 inerisce al complesso delle obbligazioni civili scaturenti dal reato ("La concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle") sulla cui globale consistenza non risultano, peraltro, essere stati esposti espliciti elementi nel provvedimento. Le obbligazioni civili derivanti dal reato che si collocano nella titolarità passiva del condannato hanno contenuto composito, essendo formate dalle restituzioni e dal risarcimento del danno, dalle spese di mantenimento in carcere e dalle spese del procedimento, oltre che, al caso, dalle spese di pubblicazione della sentenza. Pure l’obbligazione del pagamento delle spese processuali ha, dunque, carattere civile e deriva dal reato, non dalla condanna, la quale rappresenta il titolo con cui viene accertata l’esistenza del debito, ma non può certo esserne considerata la causa. Rispetto a questa obbligazione il comportamento – adempiente o meno – si ritiene non assuma rilievo preminente in sé, sul piano oggettivo dell’avvenuta eliminazione del pregiudizio cagionato, ma in quanto attivazione fattiva, sintomatica dell’atteggiamento personale e interiore di ravvedimento. Il rigetto della domanda di ammissione alla liberazione condizionale non può sorreggersi sul mancato assolvimento, da parte del condannato, dell’onere probatorio in ordine all’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato, la quale – quando rilevi ai fini del decidere – va verificata anche ex officio. Invero, la condizione stabilita dall’art. 176, quarto comma, esige una valutazione compiuta nel merito da parte del giudice competente, in quanto l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato – prevista come eccezione al divieto di concessione della liberazione condizionale per inadempimento di dette obbligazioni – va intesa non solo come materiale impossibilità economica, ma deve essere considerata anche in rapporto ad altre cause (tra le quali l’irreperibilità del creditore, la sua non identificabilità, la rinunzia al credito, il comportamento del creditore che renda concretamente impossibile il soddisfacimento totale o parziale dell’obbligazione) ed è da valutarsi comunque in senso relativo, essendo necessaria la comparazione in concreto tra le condizioni economiche del condannato e l’entità pecuniaria delle obbligazioni rimaste inadempiute. Pertanto, la mera constatazione del mancato pagamento delle, nemmeno indicate nella loro entità, spese di giustizia, pur non essendo elemento irrilevante, non può esaurire la verifica richiesta dall’art. 176. Invero, tale mancato pagamento delle spese processuali avrebbe potuto legittimamente fondare, ma all’esito di completa analisi degli elementi rilevanti e verifica della dedotta impossidenza, la valutazione di segno negativo circa la sussistenza del requisito del sicuro ravvedimento in capo al condannato istante ove fosse risultato che questi (pur a fronte dell’inerzia dell’ufficio preposto alla riscossione) avesse omesso di attivarsi per sollecitare quantomeno la liquidazione di dette spese. Il tutto, fermo restando che, in senso speculare, anche in ipotesi di verifica positiva dell’impossibilità materiale da parte del condannato di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato, ai fini della concessione del beneficio assumono particolare rilievo, sotto il profilo soggettivo, le manifestazioni di effettivo interessamento dello stesso per la situazione morale e materiale delle persone offese dal reato e i tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, di attenuare, se non riparare interamente i danni provocati (Sez. 1, 41196/2018).
Il rigetto della domanda di ammissione alla liberazione condizionale non può essere motivato dal mancato assolvimento, da parte del condannato, dell’onere probatorio in ordine all’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato, che va accertata ex officio. Nella valutazione del requisito del ravvedimento di cui al comma primo dell’art. 176, il comportamento del condannato nei confronti delle vittime non rappresenta una condizione alternativa a quella dell’adempimento delle obbligazioni civili di cui al comma quarto del medesimo articolo. Ne consegue che l’interessamento nei confronti delle vittime può assumere rilevanza quale sintomo della sussistenza di un ravvedimento, ma la mancanza di tale atteggiamento non lo esclude; infatti il ravvedimento può essere desunto dall’insieme di atteggiamenti esteriorizzati, che risultino idonei a formulare una seria prognosi di conformazione del condannato al quadro di riferimento ordinamentale (Sez. 1, 30425/2018).
Occorre dare soluzione alla questione sollevata in punto di diritto circa la rilevanza da assegnarsi al mancato pagamento da parte del condannato delle spese processuali quando non ne sia stata nemmeno avviata la procedura di recupero da parte dell’ufficio preposto alla riscossione e se possa assegnarsi valore dimostrativo all’omessa attivazione da parte dell’interessato perché ne sia disposta almeno la quantificazione. Il requisito del sicuro ravvedimento del condannato, condizione per l’ammissione al beneficio della liberazione condizionale ai sensi del primo comma dell’art. 176, deve desumersi da elementi oggettivi, dai quali poter discernere la netta scelta di revisione critica operata dal reo rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi ed approdi all’adesione a nuovi modelli comportamentali socialmente accettati, in modo da poter formulare il fondato apprezzamento del convinto mutamento di vita. Il relativo giudizio prognostico, da esprimersi in termini di "certezza", ovvero di elevata e qualifica; "probabilità", prossima alla certezza, riguarda dunque la conformazione della futura condotta del condannato alle regole di convivenza pacifica e legale. Pertanto, nella verifica del presupposto del ravvedimento deve farsi ricorso a parametri obiettivi di riferimento, piuttosto che ad indagini di tipo psicologico, dal contenuto incerto e opinabile; soltanto le condotte del condannato offrono indicazioni affidabili degli esiti favorevoli conseguiti dal percorso trattamentale di rieducazione e recupero e giustificano il giudizio certo della cessazione della sua pericolosità sociale. Si è altresì osservato che per l’ammissione al beneficio sul presupposto del ravvedimento del condannato non sono sufficienti la normale condotta regolare e nemmeno mere manifestazioni verbali di rammarico o di abiura di quanto commesso, ma si esigono comportamenti positivi rivolti anche nei confronti delle persone offese, dimostrativi di effettivo interessamento per la loro situazione morale e materiale e della superfluità della protrazione dell’esecuzione della pena. Nella considerazione del legislatore assume uno specifico rilievo l’atteggiamento assunto dal condannato nei riguardi di chi sia stato offeso dall’agire criminoso, tanto che l’adempimento delle obbligazioni civili da esso discendenti costituisce condizione di accesso al beneficio, "salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle". La riflessione esegetica condotta sul tema si è impegnata anche nell’individuazione delle situazioni integranti l’impossibilità di adempiere e le relative conseguenze. Si è affermato al riguardo che tale condizione, che si pone quale eccezione in deroga al divieto di ammissione all’istituto qualora le obbligazioni civili siano rimaste inadempiute, deve essere intesa non solo in relazione all’indisponibilità dei mezzi economici per far fronte al relativo onere, ma anche in rapporto ad altre cause, quali l’irreperibilità del creditore, la sua non identificabilità, la rinunzia al credito, il comportamento del creditore che non consenta in concreto il soddisfacimento totale o parziale dell’obbligazione. Il relativo accertamento deve essere condotto in senso relativo mediante comparazione tra le condizioni economiche e materiali del condannato e l’entità pecuniaria delle obbligazioni rimaste inadempiute. Tanto premesso, è pacifico, nell’interpretazione nomofilattica, che anche l’obbligazione del pagamento delle spese processuali ha carattere civile e deriva dal reato e non dalla condanna, che rappresenta il titolo con cui viene accertata l’esistenza del debito, ma non può certo esserne considerata la causa originaria. Rispetto a tale debito il comportamento adempiente o meno non assume rilievo in sé e sul piano oggettivo dell’avvenuta eliminazione del pregiudizio cagionato, ma in quanto attivazione fattiva, sintomatica dell’atteggiamento personale ed interiore di ravvedimento. La considerazione dell’istituto nei termini espressi ha ricevuto l’autorevole avvallo della Corte costituzionale (sent. n. 138 del 30/3/2001), la quale, affermato che la liberazione condizionale "si inserisce decisamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena" (v., da ultimo, sentenza n. 418 del 1998), ma che si pone, altresì, come momento tendenzialmente terminale del trattamento progressivo di "risocializzazione" del condannato a pena detentiva", ha affermato che alla rieducazione non può assegnarsi "un contenuto "minimale" e puramente "negativo", limitandolo al solo rispetto della "legalità esteriore" e, cioè, all’acquisizione dell’attitudine a vivere senza commettere (nuovi) reati", ma richiede l’apprezzamento "di comportamenti che rivelino la acquisita consapevolezza, da parte del reo, dei valori fondamentali della vita sociale. Trova collocazione in questa cornice l’assunto della giurisprudenza di legittimità – posto come immediato antecedente logico della soluzione interpretativa oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – in forza del quale il "sicuro ravvedimento", di cui all’art. 176, non può essere identificato sic et simpliciter in una "normale buona condotta" – ossia nella mera astensione da violazioni delle norme penali e di disciplina penitenziaria nel corso dell’esecuzione della pena – ma postula comportamenti positivi, sintomatici dell’abbandono, anche per il futuro, delle scelte criminali". L’adesione alle regole del vivere civile include, per la Consulta, anche la solidarietà sociale, la quale richiede l’adempimento di doveri che l’art. 2 della Costituzione definisce inderogabili nei confronti della vittima e dello Stato; pertanto, laddove l’art. 176 comma 4, condiziona l’ammissione alla liberazione condizionale all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salva la dimostrazione dell’impossibilità di provvedervi, è coerente con la finalità rieducativa. Del pari merita condivisione, secondo il giudice costituzionale, la lettura della disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale nella verifica sugli esiti del percorso rieducativo attribuisce rilievo all’adempimento integrale delle obbligazioni civili, quale indice rivelatore di sicuro ravvedimento e, in caso di impedimento, alle manifestazioni di interessamento per la situazione della parte lesa nei limiti di quanto è consentito nella situazione concreta e di quanto è esigibile, in luogo di un atteggiamento di totale indifferenza (Sez. 1, 52627/2017).