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Art. 59 - Circostanze non conosciute o erroneamente supposte

1. Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti (1).

2. Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (1).

3. Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui.

4. Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

(1) Il primo e il secondo comma così sostituiscono l’originario primo comma, per effetto dell’art. 1, L. 19/1990.

Rassegna di giurisprudenza

Criteri di attribuzione delle circostanze attenuanti e delle circostanze che escludono la punibilità

Ai sensi dell’art. 59, comma primo, le circostanze attenuanti sono applicabili solo se obiettivamente sussistenti (e anche se non conosciute o per errore ritenute inesistenti dall’agente) (Sez. 7, 43708/2018).

 

Criteri di attribuzione delle circostanze aggravanti

Ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 80, comma secondo, DPR 309/1990 è necessario accertare, ai sensi dell’art. 59, comma secondo, la colpevolezza del soggetto attivo anche in relazione alla predetta circostanza, dimostrando che la stessa sia da lui conosciuta, ovvero ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore dovuto a colpa (Sez. 3, 51451/2018).

La circostanza aggravante della transnazionalità è di natura oggettiva e si estende quindi ai concorrenti nel reato in forza del disposto dell’art. 59 secondo il quale le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (Sez. 2, 56338/2018).

Costituisce principio di diritto ormai stabilizzato che la circostanza aggravante dell’agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso prevista dall’art. 7 DL 152/1991  diversamente da quella del metodo mafioso al pari contemplata dalla citata disposizione  abbia natura soggettiva, essendo incentrata su una particolare motivazione a delinquere e sulla specifica direzione finalistica del dolo e della condotta a favorire il sodalizio.

Ed invero, detta circostanza aggravante nella forma dell’agevolazione mafiosa  giusta l’inequivoco dato normativo del citato art. 7 (là dove postula che la condotta sia tesa «al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» 416-bis) , richiede che la condotta del soggetto risulti assistita, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale. Pertanto, va escluso che detta circostanza sia imputabile ai concorrenti a titolo di colpa in quanto, riferendosi ai motivi a delinquere, la disciplina speciale prevista dall’art. 118 prevale su quella generale prevista dall’art. 59, comma secondo (Sez. 6, 38519/2018).

La declinazione dell’aggravante concernente l’agevolazione mafiosa ha natura soggettiva, essendo incentrata su una particolare motivazione a delinquere e sulla specifica direzione finalistica del dolo e della condotta, diversamente dall’ipotesi del metodo mafioso che ha invece natura oggettiva. Se ne inferisce che, quanto al metodo mafioso, la circostanza aggravante è configurabile a carico di ogni partecipe che abbia effettiva consapevolezza delle modalità dell’azione ovvero le ignori per colpa, in ossequio al disposto dell’art. 59, comma secondo. Diversamente, quanto alla finalità di agevolazione dell’attività dell’associazione di tipo mafioso, nel caso di concorso di persone nel reato, la circostanza non è applicabile ai concorrenti che non abbiano agito in base a tale finalità in forza della disciplina speciale prevista dall’art. 118 prevale su quella generale prevista dall’art. 59, comma secondo (Sez. 6, 8891/2018).

La natura oggettiva delle aggravanti della detenzione di armi e della destinazione del prezzo, prodotto o profitto dei delitti commessi al finanziamento di attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo è stata affermata dalle Sezioni unite (SU, 25191/2014) le quali che essa va riferita all’attività dell’associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, sicché essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell’avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa.

La natura oggettiva deriva dal fatto che il perseguimento della finalità descritta nell’art. 416-bis, sesto comma, mediante i proventi dei delitti al pari della disponibilità di armi per il conseguimento degli obiettivi della compagine associativa costituiscono una connotazione obiettiva dell’associazione e ne qualificano la pericolosità al pari del suo carattere armato.

Non è dunque, rilevante, con riguardo ad entrambe le circostanze, che l’impiego di armi o la destinazione del profitto conseguito al finanziamento delle attività illecite non siano evincibili dal fatto specifico ascritto all’imputato né che il singolo partecipe ne abbia effettiva consapevolezza benché, ai fini della imputazione soggettiva, sia necessario, ai sensi dell’art. 59, comma 2, un ulteriore passaggio e, cioè la verifica che l’agente ignori, per colpa il possesso di armi da parte degli associati e la destinazione dell’avvenuto reimpiego.

Con riguardo all’aggravante dell’associazione armata, si ritiene  che per l’accertamento della ricorrenza ben può assumere rilievo il fatto notorio della detenzione di strumenti di offesa in capo ad un determinato sodalizio mafioso, a condizione che detta detenzione sia desumibile da indicatori concreti  quali fatti di sangue ascrivibili al sodalizio o risultanze di titoli giudiziari, intercettazioni, dichiarazioni od altre fonti – di cui il giudice deve specificamente dare conto nella motivazione del provvedimento.

L’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. ricorre quando gli associati cercano di penetrare in un determinato settore della vita economica e si pongono nelle condizioni di influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza, finanziando, in tutto o in parte, le attività con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti.

L’aggravante in esame stabilisce una precisa correlazione logico-causale tra le diverse finalità indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis, colte nella loro proiezione dinamico-strutturale, essendo delineato un chiaro nesso funzionale tra la consumazione di delitti, la gestione di attività imprenditoriali, la realizzazione di vantaggi ingiusti, intesi o quale derivazione da attività economiche sanzionate come contravvenzione o quali aspetti complementari al controllo delle attività economiche.

L’apporto di capitale deve corrispondere ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose. Il riferimento all’attività economiche è da intendere come intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano beni e servizi. La ratio di tale previsione è da ravvisare nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l’inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell’economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base, così concretizzando una più articolata e incisiva offesa degli interessi protetti.

L’interpretazione letterale del sesto comma, la sua lettura logico-sistematica nel contesto complessivo dell’art. 416-bis e la sua ragione giustificativa inducono a ritenere che la previsione normativa si applichi esclusivamente alle ipotesi di reimpiego in attività economiche e non in altre finalità programmatiche dell’associazione. Sotto questo profilo non appare, quindi, condivisibile quell’orientamento dottrinale che, valorizzando l’assenza di distinzione in ordine alla liceità formale delle attività finanziate, ritiene che la circostanza aggravante sussista anche quando il finanziamento di origine delittuosa interessi attività economiche di per sé penalmente illecite.

La lettura coordinata dei commi terzo e sesto dell’art. 416-bis, la chiara distinzione, presente nel terzo comma, tra "delitti" e "attività economiche", il riferimento specifico alla provenienza da "delitti" del prezzo, del prodotto o del profitto, destinate a finanziare, almeno in parte, le attività economiche, portano ad escludere l’applicabilità dell’aggravante di cui al sesto comma al caso in cui i componenti dell’associazione mafiosa reimpieghino in ulteriori attività economiche gli utili provenienti dalle attività imprenditoriali, costituenti l’espressione della seconda finalità descritta dal terzo comma (c.d. finalità di monopolio).

Ne consegue che, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, non è necessario che il singolo associato s’interessi personalmente di finanziare, con i proventi dei delitti, le attività economiche, di cui i partecipi dell’associazione mafiosa intendano assumere o mantenere il controllo (Sez. 6, 52881/2018).

Le fattispecie previste nell’art. 12, comma 3, D. Lgs. 286/1998 configurano circostanze aggravanti del reato di pericolo di cui al comma 1 del medesimo articolo. Alla soluzione adottata conseguono effetti sostanziali e processuali, non limitati all’applicabilità del bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 all’aggravante di cui all’art. 12, comma 3 T.U. immigrazione; si pensi, ad esempio, alla disciplina dell’art. 59, comma 2, che permette l’addebito delle circostanze aggravanti anche per colpa, mentre la qualificazione della norma come fattispecie autonoma di reato presupporrebbe esclusivamente una responsabilità dolosa; si pensi ancora all’ambito delle misure cautelari (SU, 40982/2018).

L’aggravante delle più persone riunite è oggettiva concernendo le modalità dell’azione e dunque riguarda anche ai correi non presenti sul luogo della consumazione del reato, essendo sufficiente che sia rispettato il criterio di attribuzione psicologica indicato dall’art. 59. Pertanto l’aggravante in questione è attribuibile anche ai correi non presenti sul luogo del reato se gli stessi erano a conoscenza del fatto che la rapina sarebbe stata consumata da più persone riunite o se ignoravano per colpa tale circostanza (Sez. 2, 31199/2014, richiamata da Sez. 2, 36926/2018).

 

Esimente putativa

L’imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non aver potuto sottrarsi, nemmeno putativamente, al pericolo minacciato, con la conseguenza che il difetto di tale allegazione esclude l’operatività dell’esimente (Sez. 7, 44713/2018).

Allorché venga rilevata la non corrispondenza al vero del fatto posto a fondamento della critica, è necessaria l’esistenza di un errore assolutamente scusabile, non assumendo valenza esimente la verità putativa, cioè solo supposta del fatto diffamatorio, senza previa acquisizione, attraverso le opportune verifiche e controlli, della certezza dell’effettiva sussistenza dei fatti denunciati.

È, infatti, incontrastato approdo dell’elaborazione interpretativa di legittimità che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, è configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di critica quando, pur risultando il fatto oggetto dell’elaborazione critica obiettivamente falso, il giornalista abbia assolto all’onere di controllare accuratamente il fatto riferito in guisa che l’errore sulla verità dello stesso non sia frutto di negligenza, imperizia o colpa non scusabile.

Ne viene che la scriminante putativa è, quindi, ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il pubblicista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte (Sez. 5, 562/2019).

La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente ma è supposta dall’agente sulla base di un errore scusabile nell’apprezzamento dei fatti, determinato da una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza del pericolo attuale di un’offesa ingiusta; sicché, in mancanza di dati di fatto concreti, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio di carattere meramente soggettivo identificato dal solo timore o dal solo stato d’animo dell’agente» (Sez. 2, 6024/2016).

L’accertamento della legittima difesa, anche putativa, dev’essere effettuato, valutandosi, con giudizio "ex ante", le circostanze di fatto, in relazione al momento della reazione e al contesto delle specifiche e peculiari circostanze concrete, al fine di apprezzare solo in quel momento  e non "ex post"  l’esistenza dei canoni della proporzione e della necessità di difesa, costitutivi dell’esimente della legittima difesa (Sez. 4, 33591/2016).

L’erronea supposizione dell’esistenza di una causa di giustificazione deve essere necessariamente sostenuta da dati di fatto concreti e non riferita solo a stati d’animo dell’agente (Sez. 5, 33873/2018).

La disciplina dettata dal legislatore, con riguardo all’errore sulle scriminanti (art. 59, comma quarto), impone di distinguere tra l’errore che cade sul fatto, ossia l’errore che investe l’effettiva esistenza di una situazione che, ove ricorrente, renderebbe applicabile la scriminante, e l’irrilevante (ai sensi dell’art. 5) errore sul divieto, che ricorre quando l’agente o supponga l’esistenza di una scriminante non configurata dal legislatore o ritenga, come il ricorrente assume nel caso di specie, che una scriminante effettivamente prevista dall’ordinamento sia caratterizzata in termini più ampi di quelli normativamente delineati.

In questi casi, infatti, l’errore incide sui limiti di applicabilità della norma incriminatrice ossia sul divieto e l’erronea supposizione circa l’esistenza di una causa di giustificazione non ha effetto scriminante se l’errore attiene all’esistenza o all’efficacia obbligatoria di una norma giuridica (Sez. 5, 57020/2018).

Se la provocazione, quale circostanza attenuante prevista in linea generale dall’art. 62 n. 4, non può che essere obiettiva per l’espressa esclusione del rilievo della putatività contenuta nel terzo comma dell’art. 59 in relazione alle circostanze attenuanti e aggravanti, non vi è invece alcuna ragione per escludere dalla sfera di applicazione dell’art. 59, comma 4, relativo alla positiva valutazione delle circostanze putative di esclusione della pena, la provocazione prevista dall’art. 599 quale «causa di non punibilità» per i reati di ingiurie e diffamazione (Sez. 5, 37950/2017).