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Art. 28 - Interdizione dai pubblici uffici

1. L’interdizione dai pubblici uffici è perpetua o temporanea.

2. L’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, priva il condannato:

1) del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico;

2) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio;

3) dell’ufficio di tutore o di curatore, anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura;

4) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche;

5) degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico (1);

6) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti;

7) della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri precedenti.

3. L’interdizione temporanea priva il condannato della capacità di acquistare o di esercitare o di godere, durante l’interdizione, i predetti diritti, uffici, servizi, qualità, gradi, titoli e onorificenze.

4. Essa non può avere una durata inferiore a un anno, né superiore a cinque.

5. La legge determina i casi nei quali l’interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 3/1966, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, secondo comma, n. 5, limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro; ha dichiarato inoltre l’illegittimità costituzionale del terzo comma dello stesso art. 28, nei limiti di cui sopra e, con sentenza 113/1968, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, secondo comma, n. 5, per quanto attiene alle pensioni di guerra. A seguito della prima delle due sentenze della Corte costituzionale, ora citate, è stata emanata la L. 424/1966, che abroga le norme che prevedono la perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni a carico dello Stato o di altro ente pubblico.

Rassegna di giurisprudenza

Il divieto di eleggibilità e la decadenza dal mandato di parlamentare non sono né sanzioni penali né effetti penali della sentenza di condanna e non rientrano quindi nel concetto di "materia penale" (Corte EDU, Sez. 1, causa Galan c. Italia, 17.6.2021).

Secondo l’orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, in caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita in concreto per il reato più grave, come risultante a seguito della diminuzione per la scelta del rito, e non a quella complessiva risultante dall’aumento della continuazione (Sez. 5, 28584/2017), orientamento, questo, ribadito anche con riferimento alla pena applicata ex art. 444 CPP (Sez. 6, n. 3633/2017) (riassunzione dovuta a Sez. 5, 55406/2018).

In caso di condanna per reato continuato, la pena principale, alla quale si deve far riferimento per determinare la durata della conseguente pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici  che, ai sensi dell’art. 29, è perpetua quando la condanna è per un tempo non inferiore a cinque anni ed è di cinque anni quando la condanna è per un tempo non inferiore a tre anni , non è quella complessiva, comprensiva cioè dell’aumento per la continuazione, ma quella inflitta in concreto per la violazione più grave, tenendo conto della incidenza delle circostanze attenuanti e del bilanciamento eventualmente operato con le circostanze aggravanti, oltre che della diminuente per la scelta del rito speciale, e, quindi, prescindendo dai modi in base ai quali si è pervenuti al risultato finale (Sez. 1, 25476/2017).

In tema di pene accessorie, la previsione di cui all’art. 37 svolge una funzione residuale rispetto all’art. 29 ed è destinata ad operare nei soli casi in cui la durata delle pene accessorie temporanee non è normativamente predeterminata (Sez. 1, 36299/2015).

In base all’art. 16 ATT. CP, quando la interdizione dai pubblici uffici o la sospensione da una professione o di un’arte sono previste dalle leggi, dai decreti e dalle convenzioni internazionali come effetti penale, senza che ne sia stabilita la durata, esse hanno una durata eguale a quella della pena detentiva inflitta (Sez. 4, 31502/2016).

Ai fini dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, il giudice deve tener conto dell’entità della pena principale irrogata dalla sentenza di condanna, anche all’esito delle eventuali diminuzioni processuali (Sez. 1, 18149/2014).

Ogni qualvolta la misura della sanzione è predeterminata per legge nei presupposti e nella misura, non vi è necessità di motivazione all’atto dell’applicazione (Sez. 3, 1508/1998).

Le pene accessorie conseguono di diritto alla sentenza di condanna come effetti penali della stessa, con la conseguenza che non possono essere mantenute in caso di proscioglimento dell’imputato anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per prescrizione (Sez. 2, 11033/2005).

L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal GE purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione (Sez. 1, 4137/2016).

Il principio di legalità della pena e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali, della legge più favorevole, operano anche con riguardo alle pene accessorie (Sez. 3, 48526/2009).