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Art. 419 - Devastazione e saccheggio

1. Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni.

2. La pena è aumentata se il fatto è commesso nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero (1) su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito.

(1) Il riferimento alle manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico è stato inserito dall’art. 7, comma 1, lettera c), DL 53/2019.

Rassegna di giurisprudenza

Ai fini della configurabilità del delitto di devastazione, trattandosi di reato contro l’ordine pubblico, è indifferente la gravità del danno in concreto prodotto, purché sia accertato che i fatti posti in essere abbiano leso non soltanto il patrimonio, ma anche l’ordine pubblico (Sez. 1 3759/2014).

L’elemento oggettivo del delitto di devastazione di cui all’articolo 419 consiste in qualsiasi azione, posta in essere con qualsiasi modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento – comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo  di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreto dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza (Sez. 6, 37367/2014).

Nel reato di devastazione e saccheggio, il profilo del pericolo all’ordine pubblico va affrontato nell’ambito del problema di qualificazione giuridica e, quindi, dell’offesa all’interesse complessivamente tutelato. Ciò non significa che il pericolo contro l’ordine pubblico possa essere meramente ipotetico, perché il fatto posto in essere deve consistere in un’effettiva minaccia per la vita collettiva (Sez. 1, 5166/1990).

Il dolo del delitto di devastazione e saccheggio è generico e consiste nella consapevolezza di porre in essere fatti che superano la gravità ordinaria del delitto che lo costituisce (danneggiamento), involgendo l’ordine pubblico (Sez. 126830/2001).

La lettura data costantemente dalla giurisprudenza di legittimità alla nozione di «devastazione» di cui all’art. 419 consiste, per ritenere integrato il fatto punibile, nella commissione di azioni che, con qualsiasi modalità, siano produttive di rovina, distruzione o anche danneggiamento, che sia comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo, di una notevole quantità di cose mobili o immobili, sì da determinare non solo un pregiudizio nel patrimonio di uno o più soggetti (e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata) ma l’offesa e il pericolo concreto di turbamento dell’ordine pubblico, inteso in senso specifico, come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, a cui corrispondono, nella collettività, l’opinione ed il senso della tranquillità e della sicurezza (Sez. 1, 22633/2010).

La norma incriminatrice – inserita tra i reati posti a tutela dell’ordine pubblico – è imposta in termini monosoggettivi e prende in esame la condotta del singolo (chiunque commette) descrivendo la condotta in termini particolarmente sintetici (fatti di devastazione o di saccheggio).

Ciò ha determinato frequenti interventi di chiarificazione del contenuto precettivo, non solo in rapporto alla nozione di devastazione ma anche in riferimento alla reale dimensione mono o plurisoggettiva della fattispecie. È evidente infatti che una descrizione in termini generalisti (chiunque) porta a ritenere il delitto “realizzabile”  con pluralità di atti  anche dal singolo individuo ma le particolari caratteristiche dell’evento (specie per come affermatesi nella evoluzione giurisprudenziale) portano a ritenere preferibile la connotazione tendenzialmente plurisoggettiva (anche tenendo conto del fatto che l’azione illecita esige vastità di effetto distruttivo sulle cose e non include atti diretti a porre in pericolo l’incolumità delle persone, presi in considerazione da altre e diverse fattispecie).

Si deve dunque ritenere che la correlazione necessaria tra l’elemento descrittivo della condotta (il devastare, nel senso prima indicato) e la stessa capacità di azione del singolo individuo porta a ritenere preferibile la tesi della necessaria pluralità di agenti (delitto collettivo) sostenuta già dalle Sezioni unite (SU, 7/1960) e recentemente ribadita da Sez. 1, 18511/2010 e sostanzialmente ripresa, sia pure sul piano della percezione concreta del fenomeno, da Sez. 6, 37367/2014 (emessa in caso del tutto analogo).

Ciò comporta, come si vedrà nell’esaminare le singole posizioni, una prima ed immediata ricaduta logica, nel senso che l’interprete si trova di fronte  specie in termini ricostruttivi  non già ad una azione monosoggettiva (tale da realizzare di per sé l’intero evento) in cui risulti identificabile una singola condotta tipica, cui accedono comuni condotte concorsuali, quanto ad una azione necessariamente collettiva, il che impone di rintracciare il fondamento della punibilità dei singoli agenti non già attraverso il paradigma della mera agevolazione fattuale dell’altrui azione lesiva, quanto nella esistenza di un preciso indicatore di «partecipazione consapevole» ad una azione collettiva, sostenuta dalla conoscenza e previa rappresentazione dell’agire altrui (complessivamente inteso). In effetti, nella pratica l’evento tipico della fattispecie si determina per il cumulo di singoli comportamenti, che sono tenuti materialmente da persone diverse. Detti comportamenti assumono la rilevanza tipica della devastazione solo grazie alla relazione tra loro intercorrente.

Ora, dovendosi coerentemente escludere l’ipotesi  che appare meramente teorica  di una «devastazione» commessa dal singolo individuo, è evidente che la dinamica ricostruttiva  basata sulla considerazione di più condotte convergenti  deve essenzialmente risolvere, in modo adeguato, un dubbio (insito nella stessa struttura della fattispecie, ove letta in chiave plurisoggettiva) relativo alla «effettività» della previa rappresentazione e volizione del concomitante o successivo agire altrui (finalizzato alla produzione del macroevento di devastazione) tale da determinare nel soggetto  che realizza un singolo «frammento» della lesione al bene giuridico  la necessaria consapevolezza di «prendere parte» (ancor più che di concorrere ex art. 110) ad una azione qualificabile nel senso della “devastazione”, commessa dai plurimi soggetti agenti nel loro complesso.

Non si tratta, soltanto, di un particolare orientamento del dolo ma di una qualificazione dell’azione, che in tanto può definirsi in termini di partecipazione alla devastazione in quanto risulti frutto di un consapevole suo inserimento in una serie causale più ampia e tesa al raggiungimento dell’effetto. In altri termini, non è la semplice «sommatoria» di più condotte di danneggiamento, commesse da soggetti diversi (e sia pure in un contesto spaziale e temporale ravvicinato), a poter integrare il delitto di devastazione, quanto la presa d’atto (anche in via indiziaria) del perseguimento di una finalità unitaria, mossa dalla consapevolezza del ruolo svolto dagli altri e dalla volontà di agire in comune. Tale inquadramento del reato dì devastazione in termini di azione collettiva pone essenzialmente due ricadute rilevanti.

La prima concerne la consistenza dell’indice rivelatore che – caso per caso –  può essere elevato a dato significativo di tale “condizione dell’azione” del singolo, a fronte dell’assenza di prova di una previa deliberazione dei fatti di devastazione. È evidente, infatti, che lì dove i materiali dimostrativi offrano una congrua rappresentazione della fase «preparatoria», con identificazione dei promotori delle programmate condotte lesive, il tema probatorio è per certi versi esaurito (nel senso che la presa d’atto delle conseguenze consente di identificare in modo del tutto congruo la quota di responsabilità dei promotori dei disordini). Ma ove ciò non sia, ed ove si parta (come nel caso in esame) dal dato della identificazione «a valle» degli autori di singole azioni lesive, è necessario che la realizzazione da parte dell’agente di uno o più fatti di danneggiamento possa  per le particolari modalità e caratteristiche dell’azione  essere considerata «espressiva» (al di là di ogni ragionevole dubbio) di quella consapevolezza di essere «parte» di un più ampio e diffuso progetto comune, teso alla realizzazione della devastazione.

La seconda ricaduta, riflesso della prima, concerne il rapporto tra la condotta  in tesi  concorsuale (ex art. 110) rispetto al singolo fatto di danneggiamento (o di resistenza) e l’ipotesi del concorso nella devastazione (art. 110 e art. 419). Qui, infatti, adoperando i comuni criteri estensivi del concorso di persone nel ‘singolo’ episodio di danneggiamento, si corre il rischio dì una impropria dilatazione della nozione di «partecipazione alla devastazione», posto che una condotta di mera “agevolazione” (anche solo psichica) prestata ad un singolo fatto di danneggiamento ben può non risultare «indicativa» di quella previa consapevolezza e volontà di divenire ‘parte’ di una condotta collettiva ben più ampia e posta in essere da altri soggetti (con inaccettabile estensione di responsabilità penale per fatto altrui).

In altre parole, va verificato  caso per caso  se il prendere parte, anche con modalità di mera agevolazione, ai disordini diffusi (Sez. 1, 3759/2013) possa o meno rappresentare un adeguato indicatore del concorso in fatti di devastazione, posto che la carica dimostrativa di una simile condotta può non possedere la capacità evocativa della consapevolezza di contribuire ad un evento più ampio e diffuso, commesso anche da altri soggetti in tempi e con modalità diverse. (Sez. 1, 45646/2015).