Art. 190 - Diritto alla prova
1. Le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti.
2. La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio.
3. I provvedimenti sull’ammissione della prova possono essere revocati sentite le parti in contraddittorio.
Rassegna giurisprudenziale
Diritto alla prova (art. 190)
La mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), , in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, comma 1 lett. d), attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. 4, 22799/2018).
In tema di giudizio abbreviato, al giudice di appello è consentito disporre d’ufficio i mezzi di prova - documentali e non - ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice del gravame (Sez. 3, 6738/2018).
In caso di assunzione di ufficio di mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507, è riconosciuto alle parti il diritto alla prova contraria, la cui istanza di ammissione integra a tutti gli effetti una richiesta ai sensi dell’art. 495, comma 2 , ma deve altresì ricordarsi che, specularmente, vige il principio secondo cui, ai fini del vaglio della ammissibilità della detta prova contraria, sotto il profilo della non manifesta superfluità o irrilevanza, ai sensi dell’art. 190 , la parte istante ha l’onere di indicare specificamente i temi sui quali verte la controprova richiesta (Sez. 5, 32033/2018).
Il diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico, riconosciuto all’imputato dall’art. 495, comma 2, incontra limiti precisi nell’ordinamento processuale indicati agli artt. 188, 189, 190, in base ai quali, il giudice deve valutare la liceità e la rilevanza della prova richiesta dalla parte, onde escludere le prove vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti.
Pertanto, il diritto alla prova contraria garantito all’imputato può essere, con adeguata motivazione, negato dal giudice solo quando le prove richieste siano manifestamente superflue o irrilevanti. Ne consegue che il giudice dell’appello, innanzi al quale sia dedotta la violazione dell’art. 495, comma 2, deve decidere sull’ammissibilità della prova secondo i parametri previsti dall’art. 190 e non può avvalersi dei poteri meramente discrezionali riconosciutigli dall’art. 603, in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado (Sez. 4, 24726/2018).
La mancata ammissione di una prova decisiva assume rilievo ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), allorché la parte ne abbia fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, limitatamente ai casi previsti dall’art. 495, comma 2. Deve trattarsi dunque di prova che assuma l’espresso valore di prova contraria, in quanto correlata a deduzioni probatorie di segno opposto. D’altro canto la stessa deve poter rientrare nella sfera di operatività del diritto alla prova, che in primo luogo si fonda sulla possibilità di dedurre elementi idonei a contrastare la tesi contraria.
Inoltre occorre che la prova assuma carattere di decisività, in quanto di per sé idonea a contrastare un elemento determinante ai fini del giudizio. Il tema dunque può coinvolgere anche l’ambito di operatività delle garanzie di cui all’art. 6 CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, venendo in gioco proprio il diritto di difendersi provando (Sez. 6, 487/2017).
Il provvedimento che concede la restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale di primo grado non vincola o condiziona il giudice di secondo grado in ordine alla istruttoria dibattimentale, dovendo egli sempre valutare, in modo autonomo, la sussistenza di ipotesi che la rendano necessaria.
Ed invero, il diritto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’imputato contumace riammesso nei termini per proporre impugnazione va correttamente interpretato e coordinato con gli altri principi che regolano il processo penale, tenendo conto, in primo luogo, che gli atti istruttori compiuti nel giudizio di primo grado non divengono invalidi per il solo fatto che l’imputato contumace sia rimesso in termini per appellare, ma mantengono la loro validità e la loro efficacia, come previsto dall’art. 175 nuovo testo, che non prevede l’invalidità dell’attività istruttoria compiuta nel giudizio di primo grado né la automatica rinnovazione del dibattimento.
Pertanto, il diritto alla prova dell’imputato contumace, riammesso in termini per impugnare, potrà consistere o nella richiesta di riassunzione delle prove già assunte in primo grado o nella richiesta di prove non assunte nel giudizio di primo grado, ma ciò, sempre subordinatamente alle regole ordinarie che sovrintendono l’istruzione probatoria ossia a condizione che l’imputato appellante indichi al giudice del gravame il tema di indagine che si intende approfondire, in modo da consentire al giudice di valutarne la pertinenza e la rilevanza ai fini della ammissione delle prove richieste (Sez. 6, 32485/2016).
La rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale rappresenta un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente allorché il giudice ritiene, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione, con la conseguenza che, tolte le ipotesi di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le parti non hanno il diritto alla prova che riconoscono loro gli articoli 190 e 495 e, dunque, fuori da questi casi – come in quello sottoposto al presente scrutinio di legittimità –, la mancata assunzione della prova non è mai censurabile in cassazione a norma dell’art. 606 lett. d) bensì solo ai sensi della lettera e) di tale ultimo articolo (Sez. 5, 24791/2017).
Il procedimento camerale, per la sua struttura scarsamente formale, consente al giudicante di acquisire informazioni e prove, anche di ufficio, senza l’osservanza dei principi sull’ammissione della prova di cui all’art. 190, essendo essenziale l’accertamento dei fatti, nel semplice rispetto della libertà morale delle persone e con le garanzie del contradditorio.
Con particolare riferimento alla mancanza di un diritto all’ammissione delle prove a discarico, che importerebbe nel procedimento di esecuzione una disparità di trattamento nell’esercizio del diritto di difesa rispetto all’indagato o all’imputato nel procedimento penale, si è affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale al riguardo posto che le disposizioni regolanti il procedimento di esecuzione garantiscono l’esercizio del diritto di difesa non soltanto con la presenza necessaria del difensore nell’udienza di trattazione, ma altresì con il riconoscimento della facoltà di dedurre o richiedere elementi a discarico – eventualmente anche a mezzo dell’audizione personale di cui al comma quarto dell’art. 666, – come si ricava dal combinato disposto degli artt. 666, comma quinto, dello stesso codice e 185 Att., salvo il vaglio di pertinenza o di inerenza probatoria comunque rimesso al giudice.
D’altro canto il diritto alla prova a discarico di cui al precitato art. 495, comma 2, attiene al processo di cognizione, che inerisce ad una fase del processo penale in cui deve essere accertata la posizione dell’imputato rispetto al fatto ascrittogli, mentre il procedimento di sorveglianza, come quello di esecuzione, riguarda situazioni accessorie alla pena inflitta ovvero alla pericolosità del condannato, sicché la diversità ravvisabile tra la posizione dell’imputato e quella della parte privata nel procedimento esecutivo o di sorveglianza giustifica, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., anche la disparità normativa nell’esercizio di facoltà difensive (Sez. 2, 3954/2017).