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Art. 25-undecies - Reati ambientali [48]

1. In relazione alla commissione dei reati previsti dal codice penale, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per la violazione dell’articolo 452-bis, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote; [49]

b) per la violazione dell’articolo 452-quater, la sanzione pecuniaria da quattrocento a ottocento quote; [49]

c) per la violazione dell’articolo 452-quinquies, la sanzione pecuniaria da duecento a cinquecento quote; [50]

d) per i delitti associativi aggravati ai sensi dell’articolo 452-octies, la sanzione pecuniaria da trecento a mille quote; [50]

e) per il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività ai sensi dell’articolo 452-sexies, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote; [50]

f) per la violazione dell’articolo 727-bis, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote; [50]

g) per la violazione dell’articolo 733-bis, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote [50];

1-bis. Nei casi di condanna per i delitti indicati al comma 1, lettere a) e b), del presente articolo, si applicano, oltre alle sanzioni pecuniarie ivi previste, le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, per un periodo non superiore a un anno per il delitto di cui alla citata lettera a). [51]

2. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i reati di cui all’articolo 137:

1) per la violazione dei commi 3, 5, primo periodo, e 13, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 2, 5, secondo periodo, e 11, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

b) per i reati di cui all’articolo 256:

1) per la violazione dei commi 1, lettera a), e 6, primo periodo, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 1, lettera b), 3, primo periodo, e 5, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

3) per la violazione del comma 3, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote;

c) per i reati di cui all’articolo 257:

1) per la violazione del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione del comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

d) per la violazione dell’articolo 258, comma 4, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

e) per la violazione dell’articolo 259, comma 1, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

f) per il delitto di cui all’articolo 260, la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, nel caso previsto dal comma 1 e da quattrocento a ottocento quote nel caso previsto dal comma 2;

g) per la violazione dell’articolo 260-bis, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote nel caso previsto dai commi 6, 7, secondo e terzo periodo, e 8, primo periodo, e la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote nel caso previsto dal comma 8, secondo periodo;

h) per la violazione dell’articolo 279, comma 5, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote.

3. In relazione alla commissione dei reati previsti dalla legge 7 febbraio 1992, n. 150, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per la violazione degli articoli 1, comma 1, 2, commi 1 e 2, e 6, comma 4, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per la violazione dell’articolo 1, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote; c) per i reati del codice penale richiamati dall’articolo 3-bis, comma 1, della medesima legge n. 150 del 1992, rispettivamente:

1) la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo ad un anno di reclusione;

2) la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a due anni di reclusione;

3) la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a tre anni di reclusione;

4) la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione.

4. In relazione alla commissione dei reati previsti dall’articolo 3, comma 6, della legge 28 dicembre 1993, n. 549, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.

5. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per il reato di cui all’articolo 9, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per i reati di cui agli articoli 8, comma 1, e 9, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

c) per il reato di cui all’articolo 8, comma 2, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

6. Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b), sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

7. Nei casi di condanna per i delitti indicati al comma 2, lettere a), n. 2), b), n. 3), e f), e al comma 5, lettere b) e c), si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, per una durata non superiore a sei mesi.

8. Se l’ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e all’articolo 8 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16, comma 3, del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231.

[48] Articolo inserito dall’art. 2, comma 2, D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121.

[49] Lettera così sostituita dall’ art. 1, comma 8, lett. a), L. 22 maggio 2015, n. 68, che ha sostituito le originarie lettere a) e b), con le attuali lettere da a) a g), a decorrere dal 29 maggio 2015, ai sensi di quanto disposto dall’ art. 3, comma 1 della medesima L. n. 68/2015.

[50] Lettera aggiunta dall’ art. 1, comma 8, lett. a), L. 22 maggio 2015, n. 68, che ha sostituito le originarie lettere a) e b), con le attuali lettere da a) a g), a decorrere dal 29 maggio 2015, ai sensi di quanto disposto dall’ art. 3, comma 1 della medesima L. n. 68/2015.

[51] Comma inserito dall’ art. 1, comma 8, lett. b), L. 22 maggio 2015, n. 68, a decorrere dal 29 maggio 2015, ai sensi di quanto disposto dall’ art. 3, comma 1 della medesima L. n. 68/2015.

Elenco dei reati richiamati dalla norma

Art. 452-bis CP (Inquinamento ambientale)

Art. 452-quater CP (Disastro ambientale)

Art. 452-quinquies CP (Delitti colposi contro l’ambiente)

Art. 452-sexies CP (Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività)

Art. 452-octies CP (Circostanze aggravanti)

Art. 727-bis CP (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette)

Art. 733-bis CP (Distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto)

Art. 137 commi 2, 3, 5 primo periodo, 11 e 13, D. Lgs. 152/2006 (Sanzioni penali)

Art. 256, commi 1 lett. a) e lett. b), 3 primo e secondo periodo, 5 e 6 primo periodo D. Lgs. 152/2006 (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata)

Art. 257 commi 1 e 2, D. Lgs. 152/2006 (Bonifica dei siti)

Art. 258 comma 4 secondo periodo, D. Lgs. 152/2006 (Violazione degli obblighi di comunicazione, di tenuta dei registri obbligatori e dei formulari)

Art. 259 comma 1, D. Lgs. 152/2006 (Traffico illecito di rifiuti)

Art. 260 commi 1 e 2, D. Lgs. 152/2006 (oggi art. 452-quaterdecies CP) (Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti)

Art. 260-bis, commi 6, 7 secondo e terzo periodo e 8 primo e secondo periodo, D. Lgs. 152/2006 (Sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti)

Art. 279 comma 5, D. Lgs. 152/2006 (Sanzioni)

Art. 1 commi 1 e 2, L. 150/1992

Art. 2 commi 1 e 2, L. 150/1992

Art. 3-bis L. 150/1992

Art. 6 comma 4, L. 150/1992

Art. 3 comma 6 L. 549/1993 (Cessazione e riduzione dell’impiego di sostanze lesive)

Art. 8 commi 1 e 2 D. Lgs. 202/2007 (Inquinamento doloso)

Art. 9 commi 1 e 2 D. Lgs. 202/2007 (Inquinamento colposo)

 

Rassegna di giurisprudenza

In generale

Mentre il criterio di interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, e cioè al momento della commissione del fatto, secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, quello del vantaggio assume una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito. Inoltre, con riferimento specificamente ai reati in materia di sicurezza sul lavoro, la nozione di interesse/vantaggio è stata letta, nella prospettiva patrimoniale dell'ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all'aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale, precisandosi che nei reati colposi l'interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l'ente dovrebbe sostenere per l'adozione delle misure precauzionali ovvero nell'agevolazione, sub specie, dell'aumento di produttività che ne può derivare sempre per l'ente dallo sveltimento dell'attività lavorativa "favorita" dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe "rallentato" quantomeno nei tempi. Si è quindi ribadito, sempre con riferimento ai predetti reati, che «ricorre il requisito dell'interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento, morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta "finalisticamente orientata a risparmiare sui 'costi d'impresa: pur non volendo il verificarsi dell'infortunio a danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l'ente e l'illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi. I principi appena ricordati ben possono adattarsi dunque anche ai reati ambientali di natura colposa, introdotti, per il tramite dell'art. 25-undecies, nell'elenco dei reati presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente e, specificamente, al reato già previsto dall'art.137 D. Lgs. 152/2006 e, oggi, dall'art. 452-quaterdecies cod. pen. Anche con riguardo ad esso, infatti, a maggior ragione trattandosi di reato di mera condotta, l'interesse e il vantaggio vanno individuati sia nel risparmio economico per l'ente determinato dalla mancata adozione di impianti o dispositivi idonei a prevenire il superamento dei limiti tabellari, sia nell'eliminazione di tempi morti cui la predisposizione e manutenzione di detti impianti avrebbe dovuto dare luogo, con economizzazione complessiva dell'attività produttiva. Non va trascurato, del resto, che il "risparmio" in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (Sez. 3, 3157/2020).

Inquinamento ambientale

Sarebbe errato ritenere che, per potersi affermare la sussistenza del reato previsto dall’art. 452-bis CP. si debba necessariamente accertare che ci si trovi di fronte ad un sito contaminato, secondo la definizione di cui all’art. 240, lett. e), D. Lgs. 152/2006, testo normativo i cui concetti, elaborati in un differente contesto e a diversi fini, in assenza di specifica previsione, non possono essere richiamati per definire gli elementi costitutivi del delitto introdotto dalla successiva L. 68/2015, come già riconosciuto in altre decisioni.

Quanto al particolare profilo qui esaminato, deve osservarsi che l’art. 240 citato e le definizioni in esso contenute valgono a disciplinare l’attività di bonifica dei siti quale prevista dal Titolo V del Decreto, in relazione ai profili di rischio sanitario e ambientale sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate.

Con riguardo al reato di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il delitto di danno previsto dall’art. 452- bis CP (al quale è tendenzialmente estranea la protezione della salute pubblica) ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dagli artt. 240 e ss. D. Lgs. 152/2006.

Sin dalle prime applicazioni giurisprudenziali della fattispecie, si è riconosciuto che la “compromissione” e il “deterioramento” di cui al nuovo delitto di inquinamento ambientale consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi (Sez. 3, 46170/2016).

Ai fini dell’integrazione del reato non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno (Sez. 3, 10515/2017) essendo sufficiente un evento di danneggiamento della matrice ambientale che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare (Sez. 315865/2017).

Del resto, proprio perché è necessaria la tendenziale irreversibilità del danno – che, se sussistente e concernente l’equilibrio di un ecosistema, integra il più grave reato di disastro ambientale punito dall’art. 452-quater CP – fino a che tale irreversibilità non si verifica, le condotte poste in essere successivamente all’iniziale “deterioramento” o “compromissione” del bene non costituiscono post factum non punibile, ma integrano singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione del reato (ricostruzione sistematica compiuta da Sez. 3, 50018/2018).

Sarebbe del tutto illogico ritenere che il legislatore, dopo aver introdotto i delitti contro l’ambiente, prevedendo per gli stessi pene severe ed altre rilevanti conseguenze in caso di condanna, abbia voluto definitivamente eliminare la possibilità della confisca di cui all’art. 12-sexies al solo delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, reato connotato da una obiettiva gravità, inserendo nel contempo nel medesimo articolo altri reati prima non presenti e, addirittura, non avvedendosi del fatto che il delitto di cui all’art. 260 D. Lgs. 152/2006, una volta espunto, restava comunque ricompreso nell’ambito di applicazione dell’art. 12-sexies in forza del richiamo contenuto nell’art. 51, comma 3-bis CPP. Nessuna modifica che induca a diverse conclusioni è stata poi apportata dal D. Lgs. 21/2018 che, anzi, è intervenuto sull’art. 51, comma 3-bis CPP sostituendo il riferimento all’art. 260 con quello all’art. 452-quaterdecies CP.

Ne consegue che la confisca di cui all’articolo 12-sexies, comma 1, DL 306/1992, convertito nella L. 356/1992 (ora prevista dall’art. 240-bis CP), continua ad operare, anche a seguito delle modifiche introdotte con il DL 148/2017, convertito nella L. 172/2017 in caso di condanna o applicazione pena ai sensi dell’art. 444 CPP per il reato di cui all’art. 260 (ora art. 452-quaterdecies CP), il quale figura tra i delitti considerati dall’art. 51, comma 3-bis CPP che l’art. 12-sexies espressamente richiamava e che ora menzionato dall’art. 240-bis CP (Sez. 3, 28759/2018).

 

Disastro ambientale

Il delitto di disastro ambientale ha, quale oggetto di tutela, la integrità dell’ambiente ed in ciò si distingue, peraltro, dal disastro innominato di cui all’art. 434 CP, menzionato nella clausola di riserva, posto a tutela della pubblica incolumità, peraltro come norma di chiusura rispetto alle altre figure tipiche disciplinate dagli articoli che lo precedono.

Nei delitti contro l’incolumità pubblica, poi, si fa esclusivo riferimento ad eventi tali da porre in pericolo la vita e l’integrità fisica delle persone ed il danno alle cose viene preso in considerazione solo nel caso in cui sia tale da produrre quelle conseguenze, tanto che la scelta del termine «incolumità», come ricorda la relazione ministeriale al progetto del codice penale, non è affatto casuale, mentre il disastro ambientale può verificarsi anche senza danno o pericolo per le persone, evenienza che viene chiaramente presa in considerazione quale estensione degli effetti dell’alterazione dell’ecosistema.

Delle differenze tra le due fattispecie si è ripetutamente interessata la dottrina, mentre l’ambito di operatività dell’art. 434 CP, nella figura, di creazione giurisprudenziale, del c.d. disastro ambientale innominato, è stata più volte presa in considerazione da questa Corte (Sez. 1, 2209/2018; Sez. 1, 58023/2017) che prende in considerazione anche le differenze tra le due fattispecie).

Un primo requisito del disastro ambientale, come emerge dalla lettura della norma, è quello della “abusività” della condotta, comune anche ad altri delitti contro l’ambiente, quali l’inquinamento ambientale, sanzionato dall’art. 452-bis CP e rispetto al quale questa Corte, richiamando anche i principi precedentemente affermati con riferimento al delitto ora contemplato dall’art. 452-quaterdecies CP (prima sanzionato dall’art. 260 D. Lgs. 152/2006), ha avuto già modo di pronunciarsi (Sez. 3, 18934/2017), ritenendo, in sintesi, che la condotta “abusiva” è non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative.

La disposizione in esame fornisce, inoltre, la definizione di disastro ambientale, indicando tre diverse situazioni che alternativamente lo configurano. Nel caso in esame rileva esclusivamente quella indicata la n. 3 dell’art. 452-quater CP, in quanto oggetto della provvisoria incolpazione. Si tratta, tra le tre ipotesi di disastro ambientale, di quella di meno agevole lettura e l’unica in astratto ricollegabile all’art. 434 CP, rispetto al quale si pone in rapporto di sostanziale specialità.

La fattispecie descritta nell’art. 452-quater al n. 3 si pone, di fatto, a chiusura del sistema di condotte punibili e riguarda qualsiasi comportamento che, ancorché non produttivo degli specifici effetti descritti nei numeri precedenti - poiché, altrimenti, come rilevato da più parti in dottrina, una simile previsione sarebbe superflua - determini un’offesa alla pubblica incolumità di particolare rilevanza per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi, ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Va però rilevato che la collocazione di tale condotta nell’ambito dello specifico delitto di disastro ambientale deve necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti sull’ambiente, rispetto ai quali il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta una diretta conseguenza, pur in assenza delle altre situazioni contemplate dalla norma.

Tale soluzione interpretativa trova peraltro plurime conferme, in primo luogo, nella collocazione della condotta tra le ipotesi di disastro ambientale, quindi di “un fenomeno che logicamente svolge i suoi effetti sull’ambiente, trattandosi, appunto, di un delitto contro l’ambiente; un ulteriore motivo di distinzione è dato dal fatto che, escludendo tale necessario collegamento con l’ambiente e considerando il solo riferimento alla pubblica incolumità, verrebbe meno ogni distinzione rispetto al disastro innominato di cui all’art. 434 CP e, infine, assume rilievo anche il tenore stesso della disposizione, laddove l’offesa alla pubblica incolumità appare chiaramente quale conseguenza di un fatto caratterizzato da una compromissione – evidentemente dell’ambiente o di una sua componente – estesa, ovvero che abbia significativi effetti lesivi o che coinvolga un numero di persone offese o esposte al pericolo altrettanto significativo.

Ne consegue che anche l’ipotesi di disastro ambientale descritta al n. 3 dell’art. 452-quater cod. pen. presuppone, come le due precedenti, che le conseguenze della condotta svolgano i propri effetti sull’ambiente in genere o su una delle sue componenti. Resta da considerare, a questo punto, quale sia la nozione di ambiente da prendere in considerazione.

Sembra, anche ad un sommario esame del complesso delle disposizioni richiamate nel Titolo Sesto-bis del codice penale, che il legislatore abbia inteso riferirsi alla più ampia accezione di ambiente, quella cosiddetta unitaria, non limitata da un esclusivo riferimento agli aspetti naturali, ma estesa anche alle conseguenze dell’intervento umano, ponendo in evidenza la correlazione tra l’aspetto puramente ambientale e quello culturale, considerando quindi non soltanto l’ambiente nella sua connotazione originaria e prettamente naturale, ma anche l’ambiente inteso come risultato anche delle trasformazioni operate dall’uomo e meritevoli di tutela.

Invero, paiono deporre in questo senso le aggravanti previste dagli artt. 452-bis, comma 2, 452-quater comma 2 nella parte in cui si riferiscono alle ipotesi in cui i fatti puniti si verifichino anche in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, storico, artistico, architettonico o archeologico, né osta a tale soluzione alcuna delle disposizioni contenute nel titolo.

Inoltre, anche nella giurisprudenza costituzionale si rinvengono considerazioni che depongono nel senso di una concezione più ampia di ambiente, laddove si parla, ad esempio, dell’ambiente come valore costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia ‘trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse... (Corte costituzionale, sentenza 407/2002), affermandosi anche che “quando si guarda all’ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”. Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto (Sez. 3, 29901/2018).

 

Traffico illecito di rifiuti

Il reato di cui all’art. 260 è un reato abituale di condotta in quanto è integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie (Sez. 3, 46705/2009; Sez. 3, 29619/2010). Logico corollario è che la consumazione del reato si perfeziona con l’ultimo di questa serie di fatti (la ricognizione si deve a Sez. 3, 39373/2015).

La fattispecie incriminatrice ex art. 260 D. Lgs. 152/2006 dà vita a un reato plurioffensivo poiché la condotta del soggetto agente offende i beni giuridici dell’ambiente (Sez. 3, 18351/2008) e della pubblica incolumità (Sez. 3, 9133/2017).

Per perfezionare il reato ex art. 260 D. Lgs. 152/2006 è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria la realizzazione di più comportamenti della stessa specie (Sez. 3, 52838/2016).

Anche se il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è reato abituale, in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie e quindi non vi sarebbe continuazione tra reati ma un unico reato, non di meno in generale il carattere abituale di un reato che è caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale nella loro reiterazione che si protrae nel tempo – non esclude del tutto la continuazione ex art. 81 CP ove siano identificabili serie autonome di condotte intervallate con soluzione di continuità e quindi non riconducibili ad unitarietà (Sez. 3, 35805/2010).

La legge non richiede che il traffico di rifiuti sia posto in essere mediante una struttura operante in modo esclusivamente illecito, ben potendo le attività criminose essere collocate in un contesto che comprende anche operazioni commerciali riguardanti i rifiuti che vengono svolte in modo lecito.

In altri termini, il delitto può essere integrato sia da una struttura operante in assenza di qualsiasi autorizzazione e con modalità del tutto contrarie alla legge, sia da una struttura che includa stabilmente condotte illecite all’interno di una attività svolta in presenza di autorizzazioni e, in parte, condotta senza violazioni.

Ciò che rileva, infatti, è l’esistenza di «traffico» di rifiuti intenzionalmente sottratto ai canali leciti, e l’inserimento all’interno di un percorso imprenditoriale ufficiale può divenire addirittura una scelta mirante a mascherare l’illecito all’interno di un contesto imprenditoriale manifesto e autorizzato (Sez. 4, 2117/2012).

È destituita di ogni fondamento giuridico la tesi secondo cui nella fattispecie criminosa in esame il carattere abusivo della gestione illecita dei rifiuti ricorre solo quando la gestione è “clandestina”, ossia svolta in totale assenza di autorizzazione, perché, al contrario, è abusiva ogni gestione dei rifiuti che avvenga senza i titoli abilitativi prescritti, ovvero in violazione delle regole vigenti nella soggetta materia (Sez. 3, 46029/2008).

L’attività deve essere “abusiva”, ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente autorità amministrativa (Sez. 3, 18669/2015).

Quanto al requisito dell’abusività dell’attività, esso deve ritenersi integrato sia qualora non vi sia autorizzazione, sia quando vi sia una totale e palese difformità da quanto autorizzato (Sez. 3, 791/2018).

La nozione di ingenti quantitativi non può essere individuata a priori attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare, come già osservato in alcune tra le decisioni dianzi richiamate, su un giudizio complessivo che tenga conto, anche in questo caso, delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l’ambiente e nell’ambito del quale l’elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento.

Del resto, la peculiare formulazione della previsione normativa non consente soluzioni diverse, fondate sulla individuazione di valori preventivamente fissati, ma permette di effettuare un giudizio adeguato rispetto alle molteplici condotte che possono essere riferite all’ambito di operatività del D. Lgs. 152/2006, art. 260. Si tratta, evidentemente, di un apprezzamento in fatto che è rimesso, anche in questo caso, al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione esente da vizi logici o giuridici(Sez. 3, 47229/2012).

L’ingente quantitativo di rifiuti gestiti può essere desunto, oltre che da misurazioni direttamente effettuate, anche da elementi indiziari quali i risultati di intercettazioni telefoniche, l’entità e le modalità di organizzazione dell’attività di gestione, il numero e le tipologie dei mezzi utilizzati, il numero dei soggetti che partecipano alla gestione stessa (Sez.  3, 791/2018).

In tema di reati ambientali (nella specie artt. 256 e 260 D. Lgs. 152/2006), sono circostanze sufficienti a giustificare il rigetto della richiesta della misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività: l’allontanamento delle persone fisiche che materialmente hanno posto in essere le condotte delittuose; l’aver intrapreso una procedura di valutazione della natura dei rifiuti avvalendosi di un ente pubblico, come il CNR, quale soggetto incaricato di effettuare tale valutazione; l’aver disposto la rinnovazione della valutazione delle riserve; l’aver rinnovato la richiesta di autorizzazione paesaggistica (GIP Tribunale di Firenze, ordinanza del 2 luglio 2014).

I reati di abbandono di rifiuti e di discarica abusiva sono reati commissivi eventualmente permanenti, la cui antigiuridicità cessa con l’ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con il vincolo reale del bene ovvero con la sentenza di primo grado (Sez. 3, 39373/2015).

È legittimo il sequestro preventivo per equivalente disposto sui beni immobili di una SRL responsabile, ex art. 25-undecies, della realizzazione di una discarica non autorizzata a condizione che la somma sequestrata corrisponda al profitto conseguito dall’impresa nel non aver sostenuto i costi per il corretto smaltimento dei rifiuti (Sez. 3, 13859/2014).

Non vi è dubbio che, ai fini della sussistenza del dolo specifico richiesto per l’integrazione del reato, sia necessaria la prova della consapevolezza dell’autore della condotta di utilizzare un’organizzazione illecita (anche non necessariamente plurisoggettiva) per conseguire un ingiusto profitto, che può consistere, oltre che in un ricavo patrimoniale, anche in un vantaggio personale, quale la semplice riduzione dei costi aziendali (Sez. 3, 52838/2016).

Il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti è reato abituale e non permanente, pertanto il giorno di inizio del decorso del termine di prescrizione del reato è da individuarsi nel giorno della cessazione dell’abitualità (Sez. 3, 5742/2017).

È configurabile il concorso tra i reati di associazione per delinquere e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in quanto tra le rispettive fattispecie non sussiste un rapporto di specialità, trattandosi di reati che presentano oggettività giuridiche ed elementi costitutivi diversi, caratterizzandosi il primo per una organizzazione anche minima di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti in modo da turbare l’ordine pubblico, e il secondo per l’allestimento di mezzi e attività continuative e per il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell’ambiente (Sez. 3, 52633/2017).

In tema di gestione dei rifiuti, la confisca dei mezzi di trasporto è obbligatoria, sia nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti od inesatti ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, sia per il reato d’attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 D. Lgs. 152/2006) ove sia stato commesso mediante l’impiego di mezzi di trasporto.

Pertanto, la confisca del mezzo di trasporto non viene espressamente prevista nell’art. 260, così come non era espressamente prevista dall’art. 53-bis del decreto Ronchi, perché il delitto di cui alla norma dianzi citata non presuppone necessariamente l’uso di un mezzo di trasporto, in quanto può essere compiuto anche mediante attività diverse dal trasporto di rifiuti, come ad esempio per mezzo di un’attività di intermediazione o commercio. Tuttavia, quando esso viene commesso anche mediante il trasporto, la confisca del mezzo di trasporto diventa obbligatoria, perché tale misura di sicurezza è espressamente prevista dal citato d.lgs. n. 152 del 2006, art. 259.

Tale norma contiene infatti un riferimento esplicito a tutte le ipotesi di cui all’art. 256, compresa quella del trasporto, senza operare alcuna distinzione in merito all’attività di gestione illecita per la quale i rifiuti sono trasportati.

Pertanto la confisca del mezzo va disposta, non solo nella ipotesi di trasporto illecito di rifiuti di cui all’art. 256, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti, ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, ma anche per le attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti allorché tali attività siano compiute utilizzando mezzi di trasporto.

Infatti, come ha precisato questa Corte nella citata sentenza n. 4746 del 2008 “sarebbe stato invero irrazionale prevedere la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto nelle ipotesi contravvenzionali di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, artt. 259, 256 e 258 ed escluderla nell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 260 che assorbe la contravvenzione di trasporto illecito e si riferisce al traffico di ingenti quantitativi” [ ... ] i mezzi di trasporto impiegati per il traffico illecito di rifiuti costituiscono non già lo strumento contingentemente utilizzato per la commissione del reato, ma lo strumento essenziale che integra gli estremi della fattispecie astratta di reato, atteso che il d.lgs. n. 22 del 1997, art. 53 bis punisce una serie di condotte che devono essere realizzate attraverso la predisposizione di mezzi e attività continuative organizzate, quali sono gli autocarri in sequestro (Sez. 3, 2284/2018).

La responsabilità degli amministratori in materia di gestione dei rifiuti deriva non solo dai principi fissati dall’art. 178, D. Lgs. 152/2006, che fa carico a tutti i soggetti a qualsiasi titolo coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo di beni da cui originano i rifiuti del dovere di cooperare nella gestione del ciclo dei rifiuti ma più direttamente dal fatto che titolare dell’attività è la persona giuridica da essi rappresentata definita come produttore del prodotto e/o comunque detentore del rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. g) e h), del medesimo decreto.  

Le dimensioni dell’impresa non costituiscono condizione necessaria per l’esercizio della delega.

Proprio perché la legge costituisce la persona giuridica direttamente responsabile della gestione del ciclo del rifiuto da essa trattato, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni, è necessario che a) la delega sia puntuale ed espressa, con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionale; b) il delegato sia tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) la delega riguardi non solo le funzioni ma anche i correlativi poteri decisionali e di spesa; d) l’esistenza della delega sia giudizialmente provata in modo certo.

La mancanza di idonee deleghe di funzioni è fatto che di per sé prova la mancanza di un efficace MOG adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari (Sez. 3, 9132/2017).

Non è applicabile nei confronti degli enti la previsione dell’art. 25-undecies allorché la contestazione sia collegata al reato di deposito controllato di rifiuti (art. 256 comma 2, Testo unico Ambiente) poiché tale fattispecie incriminatrice non è tra quelle richiamate dallo stesso art. 25-undecies (Tribunale di Rimini, sentenza 680, 28 marzo 2017).

La disciplina della responsabilità da attività pericolose ex art. 2050 CC e da custodia di cui all’art. 2051 CC può trovare applicazione, sussistendone i relativi presupposti, nel caso di danno alla salute o danno alla persona derivanti da inquinamento ambientale (Tribunale di Milano, Sez. 2, 16 settembre 2010).