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Art. 48

Regime di semilibertà (1)

1. Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.

2. I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari e indossano abiti civili.

[La concessione della semilibertà non è ammessa nei casi di cui al secondo comma dell’art. 47. (2)]

(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 78/2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, ove interpretato nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da esso previste.

(2) Comma abrogato dall’art. 29, L. 663/1986.

Rassegna di giurisprudenza

Competenza per territorio

La competenza per territorio del magistrato o del tribunale di sorveglianza, una volta radicatasi con riferimento alla situazione esistente “all’atto della richiesta” (secondo la testuale indicazione dell’art. 677 c.p.p.) di una misura alternativa alla detenzione, rimane insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di successivi provvedimenti: e, ciò, anche nelle ipotesi in cui subentri, dopo la presentazione della richiesta iniziale, la rimessione in libertà del soggetto. Tale principio non muta, naturalmente, anche nell’ipotesi in cui, essendo libero il condannato, sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione, con evenienza, ex art. 656 c.p.p., della competenza del TDS del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha promosso la sospensione (Sez. 1, 53177/2014). L’esito di questo rilievo non muta, per gli effetti che la notazione determina in questa sede, per il fatto che, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte a incidere sulla medesima misura o comunque siano alla stessa connesse o collegate, giacché anche in tal caso la competenza resta ferma, in virtù del richiamato principio della perpetuatio iurisdictionis, che esige di annettere rilevanza al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 4098/2020).

La competenza di tipo funzionale del magistrato di sorveglianza si appunta in capo all’organo che ha giurisdizione sull’istituto in cui il detenuto “si trova”. Si deve, tuttavia, chiarire che, ai sensi dell’art. 677, detto luogo e il relativo riferimento normativo si legano alla località in cui il detenuto è assegnato in via definitiva, salvo che costui non sia ancora destinatario di provvedimento siffatto, caso in cui di converso, indubbiamente avrebbe facoltà di adire e rivolgersi al magistrato di sorveglianza del luogo stesso. Per i casi, tuttavia, in cui il detenuto sia in transito e risulti solo temporaneamente ristretto, la competenza in generale resta attribuita al magistrato del locus custodiae definitivo e non sussistono le condizioni per provvedimenti legati a criterio di competenza itinerante nel senso che per il semplice accesso - anche di poche ore - all’istituto di pena si realizza una modifica della competenza dal magistrato di sorveglianza del luogo di assegnazione e detenzione definitiva a quella del magistrato di sorveglianza del luogo di transito (Sez. 7, 35405/2018).

Ricordato che, in caso di concorso di residenza anagrafica e di domicilio di fatto in Italia, la competenza territoriale va, comunque, radicata in base al criterio della residenza anagrafica, operando il criterio del domicilio solo in via residuale, va chiarito che, ai fini di cui all’art. 677, comma 2, la nozione di domicilio deve essere definita, ai sensi dell’art. 43 Cod. civ., come il luogo dove il soggetto ha il centro dei propri interessi, e tale non può, all’evidenza, essere considerato il luogo dove, solo ai fini del procedimento relativo alla istanza presentata, l’interessato ha eletto domicilio presso il quale ricevere comunicazioni e notificazioni del procedimento stesso. Siffatta nozione di domicilio si lascia preferire sia per ragioni di coerenza sistematica sia perché capace di assicurare la necessaria oggettività del criterio attributivo della competenza per territorio (funzionale al rispetto del principio costituzionale del giudice naturale), mentre il rilievo, a detti fini, dell’atto di elezione renderebbe la determinazione del giudice competente dipendente da una libera ed insindacabile scelta del soggetto che propone l’istanza (Sez. 1, 31346/2018).

In tema di procedimento di sorveglianza, qualora dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso ad una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte ad incidere sulla medesima misura o comunque siano ad essa connesse o collegate, rimane ferma, in virtù del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, la competenza per territorio del tribunale di sorveglianza radicatasi con riferimento alla situazione esistente al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 51083/2013).

Il ricorrente, al momento di presentazione dell’istanza ex art. 35-ter, era detenuto; ed era detenuto anche al momento della decisione del magistrato di Sorveglianza così come era detenuto al momento di proposizione del reclamo al tribunale di Sorveglianza. Nelle more del procedimento di impugnazione è stato scarcerato per termine della pena. Questa circostanza ha indotto il tribunale di sorveglianza a ritenere inammissibile il reclamo poiché la richiesta iniziale di riduzione della pena era stata trasformata in richiesta di liquidazione del ristoro economico previsto dalla norma citata: ha ritenuto il giudice che fosse stato irritualmente trasformato il petitum e che la competenza a provvedere fosse ormai del tribunale civile. Tuttavia, questa Corte ha più volte espresso il principio secondo il quale presupposto necessario per radicare la competenza della magistratura di sorveglianza è lo stato di restrizione del richiedente al momento della proposizione del reclamo ex art. 35-ter Ord. pen., a nulla rilevando l’eventuale scarcerazione nelle more della decisione, trattandosi di competenza di natura funzionale (Sez. 1, 41211/2018).

La richiesta di misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, deve essere corredata, a pena di inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto. Né l’inosservanza delle formalità di cui all’art. 677, comma 2-bis, può essere superata dalla mera indicazione di residenza, che, non comportando l’inequivocabile volontà di riconoscere il proprio domicilio con la residenza dichiarata, non risulta rispettosa dei parametri di cui all’art. 677, comma 2-bis (SU, 18775/2010).

La competenza in materia di concessione di misure alternative alla detenzione, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta la sospensione dell’esecuzione, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha decretato la sospensione, a norma dell’art. 656, commi 5 e 6, norme che debbono ritenersi speciali e prevalenti rispetto al disposto dell’art. 677, comma 2 (Sez. 1, 2182/2018).

Nell’escludere l’applicabilità delle regole derogatorie di competenza, stabilite dall’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, alla liberazione anticipata - pur formalmente rientrante tra le misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI Ord. pen. - richiesta dal detenuto collaboratore di giustizia, assoggettato a speciali misure di protezione, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 43798/2015) ha da ultimo sottolineato la natura di stretta interpretazione delle regole derogatorie anzidette, correlata al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 2 Cost.). Nelle materie attribuite alla magistratura di sorveglianza, la competenza a conoscere delle istanze presentate da soggetto ristretto in istituto penitenziario appartiene in via ordinaria al tribunale o al magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto medesimo (art. 677, comma 1). La deroga che a tale disposizione apporta, per i collaboratori di giustizia assoggettati a speciali misure di protezione, il citato art. 16-nonies - il quale riserva, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui il collaboratore stesso ha eletto domicilio ai sensi dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto legge (ossia del luogo sede della Commissione centrale prevista dal precedente art. 10, comma 2, che è Roma), la cognizione in tema «di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, L. 354/1975, e successive modificazioni» - trova la sua ratio giustificativa nell’esigenza funzionale di assicurare uno stretto coordinamento tra l’operato della magistratura di sorveglianza, che decide sulla concessione delle misure alternative, prevista in misura più ampia rispetto alle generalità dei detenuti, e quello degli organi amministrativi centrali preposti all’attuazione delle misure predette nei confronti del collaboratore protetto (Sez. 1, 45282/2013) e capaci altresì di recare un preventivo contributo ai fini di una più pregnante valutazione sull’attualità e sulla serietà del percorso seguito dal collaboratore (Sez. 1, 43798/2015), che costituisce il presupposto per il più ampio accesso ai benefici (la riassunzione si deve a Sez. 1, 8131/2018).

I provvedimenti in materia di rinvio dell’esecuzione della pena non sono testualmente compresi nell’ambito dell’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, e non partecipano della ratio ad esso sottesa; né sul piano funzionale, posto che, dopo la liberazione e per il tempo del differimento, nessuno specifico raccordo, di natura istituzionale ed organizzativo, è necessario mantenere tra organi della giurisdizione ed organi esecutivi; né sul piano logico-sistematico, perché i provvedimenti ex artt. 146 e 147 c.p. postulano il riscontro di condizioni legittimanti (la presentazione della domanda di grazia, lo stato di gravidanza, di maternità, di salute) già in possesso dell’AG o ricavabili essenzialmente dalle relazioni degli operatori a diretto contatto con il detenuto in istituto, o dei sanitari di quest’ultimo; condizioni che comunque - così come affermato per la liberazione anticipata - non implicano previe valutazioni sul regime di collaborazione con la giustizia, e sulla sua valenza ed importanza, così da non giustificare lo spostamento di competenza ad un organo giudiziario diverso da quello altrimenti “naturale”. Né a diversa conclusione può indurre la circostanza che, nei casi di accoglimento dell’istanza di rinvio, il giudice competente possa disporre in sua vece la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter. La misura in tal caso disposta, pur annoverabile tra le misure alternative in senso lato, ha una finalità eminentemente assistenziale, potendo essa essere applicata, anche d’ufficio, al fine di contemperare le necessità del condannato, in relazione alla tutela della salute (o delle altre esigenze contemplate dagli artt. 146 e 147 Cod. pen.) i e quelle della collettività, in relazione ai profili di sicurezza pubblica (Sez. 1, 12565//2015). Essa non richiede alcun apprezzamento, né in ordine all’importanza della collaborazione, né in ordine al ravvedimento (ed al riflesso presupposto dell’assenza di mantenuti collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva), che sono i requisiti cui, nel sistema delineato dall’art. 16-nonies citato, è ancorata la concessione delle misure, marcatamente premiali, viceversa prese in considerazione ai fini della deroga di competenza; requisiti, al tempo stesso, in rapporto ai quali riveste importanza decisiva l’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione, e in questo quadro, trova senso l’istituito stretto collegamento tra la sede di tali organi e la competenza giudiziaria. Deve essere pertanto conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: “In tema di rinvio, necessario o facoltativo dell’esecuzione della pena, la competenza a provvedere sull’istanza del soggetto detenuto, collaboratore di giustizia, appartiene al magistrato o al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta, quand’anche l’interessato richieda, o il giudice ritenga comunque di applicare, la detenzione domiciliare in luogo del differimento, non operando la regola di cui all’art. 16-nonies, comma 8, DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, che prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice di sorveglianza di Roma” (Sez. 1, 8131/2018).

Competenza per le istanze presentate da collaboratori di giustizia

Dispone l’art. 16-noníes, comma 8, DL 8/1991: «Quando i provvedimenti di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono adottati nei confronti di persona sottoposta a speciali misure di protezione, la competenza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona medesima ha eletto il domicilio a norma dell’articolo 12, comma 3-bis, del presente decreto». In questa cornice, deve rilevarsi che l’indicato art. 16-nonies, nel richiamare espressamente l’applicazione delle «misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni [...]», ai fini dell’individuazione della competenza della magistratura di sorveglianza, non consente alcuna distinzione fondata sulla natura trattamentale del beneficio penitenziario invocato, introducendo una deroga alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. dalla quale deriva la competenza funzionale della magistratura di sorveglianza di Roma. 3 Sulla base di queste considerazioni, la competenza generale della magistratura di sorveglianza di Roma per i collaboratori di giustizia deve considerarsi come la conseguenza di un’attribuzione di natura funzionale, che costituisce un’eccezione alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. e non è derogabile (Sez. 1, 4930/2020).

Criteri valutativi

La concessione dei benefici penitenziari deve essere improntata al principio della gradualità del trattamento penitenziario e dell’osservazione. Si tratta di un criterio che, pur non costituendo una regola assoluta e codificata, risponde a un razionale apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione (Sez. 7, 38864/2016).

Ai fini della ammissione ai benefici penitenziari, i riferimenti alla gravità del reato commesso o ai precedenti penali e giudiziari del condannato o al comportamento da lui tenuto prima o dopo l’inizio dell’espiazione ben possono essere utilizzati come elementi che concorrono alla formazione del convincimento circa la praticabilità della misura alternativa. Ne consegue che il mantenimento di una condotta positiva, anche in ambiente libero, non è di per sè determinante, soprattutto ove la condanna in espiazione sia stata inflitta per reati di obiettiva gravità e sia inadeguato il periodo di carcerazione sofferto, ma deve essere valutato nell’ambito di un giudizio globale di tutti gli elementi emersi dalle indagini esperite e dalle informazioni assunte, che tenga anche conto della progressività e gradualità dei risultati del trattamento. Tale criterio, pur non costituendo una regola assoluta e codificata, esprime il ragionato apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione cui è ispirato il principio stesso del trattamento penitenziario ed esso risulta tanto più opportuno quando il reato commesso sia sintomatico di una rilevante capacità a delinquere ed il comportamento successivo riveli allarmanti ricadute nel crimine, nonostante l’attività rieducativa già svolta (Sez. 7, 6555/2016).

La semilibertà presuppone l’accertamento di un andamento progressivamente positivo del trattamento rieducativo in misura tale da autorizzare una prognosi che il lavoro esterno possa portare al reinserimento effettivo nel tessuto sociale (Sez. 7, 26494/2018).

In tema di adozione delle misure alternative alla detenzione, il giudice di sorveglianza deve fondare la statuizione, espressione di un giudizio prognostico, sui risultati del trattamento individualizzato condotto sulla base dell’esame scientifico della personalità del soggetto ristretto in istituto di pena; la relativa motivazione deve dimostrare, con preciso riferimento alla fattispecie concreta, l’avvenuta considerazione degli elementi previsti dalla legge, che hanno giustificato l’accoglimento o il rigetto dell’istanza (Sez. 1, 775/2014). Per quel che concerne la semilibertà - che attua la decarcerazione solo parziale del condannato, ammesso a svolgere fuori dall’istituto, per parte del giorno, attività lavorativa (o altra attività risocializzante) - l’ammissione al relativo regime presuppone, in uno con l’avvenuta espiazione di un periodo pari ad almeno metà della pena, una prognosi favorevole, proprio in relazione ai progressi compiuti in ambito trattamentale, in ordine alla possibilità di un suo graduale reinserimento nella società (art. 50, comma 4). Date queste condizioni, la misura in esame diviene essa stessa strumento del trattamento individualizzato, rispondendo alla finalità di emenda mediante la più avanzata prospettiva di risocializzazione che è in grado di offrire, extra moenia, il lavoro (che è l’attività che di regola la sostanzia), elemento cardine del moderno sistema rieducativo penitenziario (Corte costituzionale, 158/2001). Al fine di saggiare in chiave prognostica i progressi trattamentali, adeguato rilievo deve certamente essere assegnato alle relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del detenuto. Alle relative valutazioni il giudice non è vincolato, purché sia da parte sua assolto l’onere di considerare le informazioni riferite sulla personalità del detenuto medesimo e sull’avanzamento del percorso di risocializzazione, e di parametrarne la rilevanza rispetto alle istanze rieducative sottostanti la misura alternativa invocata, ed ai profili di pericolosità residua dell’interessato, secondo la gradualità che governa l’ammissione ai benefici penitenziari (Sez. 1, 56731/2017).

Ai fini dell’applicazione della misura alternativa della semilibertà sono richieste due distinte indagini, una concernente i risultati del trattamento individualizzato e l’altra relativa all’esistenza delle condizioni che garantiscono un graduale reinserimento del detenuto nella società, implicanti la presa di coscienza, attraverso l’analisi, delle negative esperienze del passato e la riflessione critica proiettata verso il ravvedimento (Sez. 1, 20005/2014).

In tema di misure alternative alla detenzione, deve escludersi che sul piano strutturale vi sia coincidenza o interdipendenza tra affidamento in prova e semilibertà. Per la concessione della semilibertà, infatti, occorre accertare che esista un andamento positivo del trattamento rieducativo in misura tale da aprire alla prospettiva di una prognosi che il lavoro esterno possa portare al reinserimento effettivo nel tessuto sociale. Per l’affidamento in prova, invece, occorre un quid pluris rappresentato dalla prova che la partecipazione all’attività educativa in carcere abbia raggiunto una soglia di ripensamento così elevata da far ritenere definitivamente cessato il collegamento con i modelli culturali che avevano determinato le manifestazioni concrete di devianza. Il fondamento di tale differenza va ravvisato nel fatto che l’affidamento, rompendo il contatto quotidiano con le strutture intramurarie, deve avere alla sua base una garanzia maggiore in termini di affidabilità, mentre il lavoro esterno che è il nucleo della semilibertà si può accontentare di un margine di incertezza sull’affidabilità in considerazione del ritorno quotidiano del condannato nella struttura carceraria che consente di mantenere un controllo continuativo e penetrante sull’ulteriore corso verso un’emenda più completa (Sez. 7, 43324/2019).

Sanzioni disciplinari

Nel valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione di una misura alternativa alla detenzione si devono utilizzare tutti gli elementi da cui desumere l’assenza di partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, nel cui contesto i comportamenti intramurari oggetto di sanzioni disciplinari assumono un rilievo altamente sintomatico del percorso rieducativo intrapreso dal detenuto durante l’esecuzione della pena. Non v’è dubbio, infatti, che le trasgressioni comportamentali del detenuto - soprattutto se ripetute nel tempo, assumono una valenza negativa, risultando espressive della scarsa partecipazione all’opera di rieducazione del carcerato, in quanto sintomatiche dell’assenza di effetti positivi sul percorso intrapreso (Sez. 1, 4387/2019).

Computo della pena espiata in presenza di reati ostativi

Costituisce ius receptum che, nel computo del periodo minimo di pena espiata, previsto come condizione per la concessione di misure alternative alla detenzione, il dies a quo decorra, nel caso di cumulo materiale comprensivo anche di pene inflitte per reati ostativi, dal momento in cui si è esaurita l’espiazione delle pene relative a tali reati, e non da quello di inizio della detenzione (Sez. 1, 48714/2019).

Revoca della semilibertà

Ai fini del giudizio di revoca del beneficio della semilibertà, assumono rilievo le condotte che, per natura, modalità di commissione ed oggetto, siano tali da arrecare grave vulnus al rapporto fiduciario che deve esistere tra il condannato semilibero e gli organi del trattamento, dovendosi valutare se il complessivo comportamento del condannato riveli l’inidoneità al trattamento e quindi l’esito negativo dell’esperimento (nell’esaminare i motivi di ricorso, la Corte ha stabilito la congruenza della motivazione del TDS che aveva revocato il beneficio in parola, in considerazione del fatto che il condannato aveva cercato di introdurre un telefono smartphone all’interno dell’istituto di pena nel quale era recluso, nascondendolo nella manica del giubbotto che indossava al momento del controllo effettuato dagli agenti di polizia penitenziaria) (Sez. 1, 21575/2020).

Differenze con altre misure alternative alla detenzione

L’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall’art. 47 e la detenzione domiciliare, nella sua forma ordinaria regolata dall’art. 47-ter, comma 1-bis sono misure alternative alla detenzione carceraria che, a diverso titolo, attuano la finalità costituzionale rieducativa della pena. La prima misura può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che la medesima, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla menzionata rieducazione, prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato. Ciò che assume rilievo, rispetto all’affidamento, è l’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale (Sez. 1, 33287/2013). Il processo di emenda deve essere significativamente avviato, ancorché non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale (Sez. 1, 43687/2010). Se il presupposto dell’emenda non è riscontrato, o non lo è nella misura reputata adeguata, il condannato, se lo consentono il limite di pena e il titolo di reato, può essere comunque ammesso alla detenzione domiciliare «generica», alla sola condizione che sia scongiurato il pericolo di commissione di nuovi reati (Sez. 1, 14962/2009). Il fine rieducativo si attua, in tal caso, mediante una misura dal carattere più marcatamente contenitivo, saldandosi alla tendenziale sfiducia ordinamentale sull’efficacia del trattamento penitenziario instaurato rispetto a pene di assai contenuta durata. Per quel che concerne la semilibertà - che attua la decarcerazione solo parziale del condannato, ammesso a svolgere fuori dall’istituto, per parte del giorno, attività lavorativa, o altra attività risocializzante - l’ammissione al relativo regime presuppone, ove si tratti di pena infraquadriennale ma manchino i presupposti per disporre l’affidamento in prova, una prognosi favorevole, in relazione ai progressi purtuttavia compiuti, in ordine alla possibilità di un suo reinserimento, seppure graduale e parziale, nella società (cfr. art. 50, comma 4). Date queste condizioni, la semilibertà diviene essa stessa strumento del trattamento individualizzato, rispondendo alla finalità di emenda mediante la più avanzata prospettiva rieducativa che sono in grado di offrire, extra moenia, le attività di risocializzazione, anche appartenenti all’ambito del volontariato, che la sostanziano. Rientra nella discrezionalità del giudice di merito l’apprezzamento sull’idoneità o meno, ai fini della risocializzazione e della prevenzione della recidiva, delle diverse misure alternative in astratto concedibili (e l’eventuale scelta di quella ritenuta maggiormente congrua nel caso concreto). Le relative valutazioni non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazione adeguata e rispondente a canoni logici (Sez. 1, 652/1992) la quale non può prescindere da un’esaustiva, ancorché se del caso sintetica, ricognizione degli incidenti elementi di giudizio (Sez. 1, 48462/2019).