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Art. 56

Remissione del debito (1)

[1. Il debito per le spese di procedimento e di mantenimento è rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che si trovano in disagiate condizioni economiche e hanno tenuto regolare condotta ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 30-ter. La relativa domanda può essere proposta fino a che non sia conclusa la procedura per il recupero delle spese.]

(1) Articolo abrogato dall’art. 299, comma 1, DPR 115/2002 a decorrere dall’1 luglio 2002. L’istituto della remissione del debito è oggi disciplinato dall’art. 6 del medesimo DPR (intitolato allo stesso modo), di cui si riporta il testo qui di seguito:

"1. Se l’interessato non è stato detenuto o internato, il debito per le spese del processo è rimesso nei confronti di chi si trova in disagiate condizioni economiche e ha tenuto una regolare condotta in libertà.

2. Se l’interessato è stato detenuto o internato, il debito per le spese del processo e per quelle di mantenimento è rimesso nei confronti di chi si trova in disagiate condizioni economiche e ha tenuto in istituto una regolare condotta, ai sensi dell’articolo 30 ter, comma 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354.

3. La domanda, corredata da idonea documentazione, è presentata dall’interessato o dai prossimi congiunti, o proposta dal consiglio di disciplina, di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354, al magistrato competente, fino a che non è conclusa la procedura per il recupero, che è sospesa se in corso”.

Rassegna di giurisprudenza

Requisiti necessari per la remissione del debito

L’attuale normativa in tema di remissione del debito è ora prevista dall’art. 6 DPR 115/2002; sostanzialmente, non vi sono mutamenti di rilievo rispetto alla disciplina previgente prevista dall’art. 56. Anche oggi, infatti, il beneficio della remissione del debito deve essere concesso quando il condannato versi in disagiate condizioni economiche e abbia tenuto regolare condotta. L’art. 6 citato precisa, al comma 1, che la condotta da considerare deve essere stata regolare durante la libertà qualora l’interessato non sia stato detenuto; diversamente la stessa condotta deve essere stata regolare in Istituto qualora l’interessato sia stato detenuto. In definitiva, dunque, ai fini della remissione del debito, si richiedono tre requisiti: a) che il debito si riferisca a spese di procedimento; b) che si tratti di condannati che vengano a trovarsi in disagiate condizioni economiche; c) che detti condannati abbiano tenuto una regolare condotta, nei termini prima precisati. La remissione del debito è un beneficio di natura economica, strutturato come una forma di rinunzia abdicativa da parte dello Stato ad un proprio credito per ragioni di carattere sociale e pedagogico; è evidente la natura premiale dell’istituto, e tuttavia questa natura - oltre ad essere condizionata alla regolarità della condotta dell’interessato - postula anche la sussistenza di un altro elemento di natura oggettiva, e cioè delle disagiate condizioni economiche. Sicuramente questo elemento è espresso con formula normativa molto aperta, e tuttavia si tratta di una valutazione che deve dedursi da fatti certi. Non occorre che vi sia la totale indigenza: questo è un elemento pacifico e consolidato; nondimeno, occorre che l’interessato versi in una situazione caratterizzata da ristrettezze economiche tali da non consentire di far fronte a fondamentali esigenze di vita, o quanto meno, tali da essere compromesse dal pagamento del debito (Sez. 1, 45909/2019).

…Regolare condotta

L’accoglimento dell’istanza di remissione del debito presuppone la dimostrazione di due requisiti distinti, ma entrambi necessari, da un lato lo stato di disagio economico che non consenta al condannato di assolvere alle obbligazioni nascenti dalla condanna, dall’altro il mantenimento di una condotta regolare. Se l’interessato è stato detenuto o internato, “il debito per le spese del processo e quelle per il mantenimento è rimesso nei confronti di chi ...ha tenuto in istituto una regolare condotta, ai sensi dell’art. 30-ter, comma 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354”, che, a sua volta, dispone: “La condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali “(Sez. 7, 40092/2019).

In tema di remissione del debito e con specifico riferimento al presupposto della regolarità della condotta si osserva quanto segue. La norma distingue tra l’ipotesi in cui l’interessato non sia stato detenuto o internato con riguardo al titolo cui le spese ineriscono e quella in cui l’interessato sia stato, invece, detenuto o internato per il titolo di riferimento, stabilendo che, nel primo caso, si deve avere riguardo alla condotta tenuta in libertà e, nel secondo caso a quella tenuta in istituto -ipotesi in cui le spese del processo si cumulano a quelle di mantenimento-. La regolarità della condotta va valutata, secondo i parametri di cui all’art. 30- ter, comma 8, e, per colui che sia stato ristretto in carcere, con esclusivo riguardo al comportamento tenuto in istituto. Né potrebbe essere considerata ostativa al beneficio la sola commissione, fuori dallo stato detentivo, di ulteriori reati (tra le altre, Sez. 1, 3752/2009). Deve, piuttosto, farsi riferimento, in presenza di un periodo di detenzione, esclusivamente alla condotta tenuta durante tale periodo e non a quella mantenuta in libertà, da considerare solo ove la detenzione non vi sia stata (Sez. 1, 518/2019).

Ai fini della remissione del debito per le spese processuali e di mantenimento in carcere, richiesta dal condannato che abbia sofferto detenzione, la regolarità della condotta deve essere accertata con esclusivo riferimento al comportamento tenuto in ambito carcerario, e non a quello tenuto nel successivo periodo di libertà. Viceversa il comportamento tenuto nel periodo di libertà va considerato soltanto ove tale detenzione non vi sia stata. Tale inquadramento dell’istituto appare, invero, conforme alla sua ratio, che è quella di premiare il comportamento serbato in carcere dal detenuto, da un lato, ed a favorire il reinserimento sociale del medesimo, dall’altro (Sez. 1, 35922/2015). Circa la regolare condotta in istituto si è precisato che, per la concessione del beneficio, non è necessaria il riscontro della positiva partecipazione del condannato all’opera di rieducazione attivata nei suoi confronti, ma solo la regolarità della condotta mantenuta durante la detenzione inframuraria (Sez. 1, 593/2016). Il riferimento alla disciplina basilare dell’istituto e l’estrazione da essa del discrimen della condotta regolare tenuta in carcere o, alternativamente, in libertà per i crediti maturati dall’Erario, rispettivamente per spese processuali e di mantenimento in carcere, da un lato, o per le sole spese processuali, dall’altro, comportano il coerente effetto che per vagliare la domanda di remissione del debito è necessario che il giudice, per un verso, definisca i singoli titoli esecutivi e ne fissi l’epoca di maturazione e, per l’altro verso, li ponga in distinta correlazione con i periodi di detenzione oppure di libertà che hanno parallelamente connotato la posizione del debitore dei relativi carichi (Sez. 1, 46571/2017).

…Disagiate condizioni economiche

L’istituto della remissione del debito presenta una finalità essenzialmente trattamentale e sostanzialmente protesa a favorire il reinserimento sociale del soggetto che sia stato condannato. Si tratta di un provvedimento di indubbia natura premiale, tanto da essere legato all’esistenza congiunta dei due presupposti strutturali della condizione economica disagiata e della regolarità della condotta. Esulano dallo scopo della categoria, pertanto, ulteriori fini, anche indiretti, che possano in negativo condizionare la concessione del beneficio. Da ciò discende che alla remissione del debito non si possa ascrivere una finalità di conservazione della garanzia patrimoniale erariale, in relazione ai debiti inerenti alle spese di giustizia (Sez. 1, 521/2019).

La valutazione circa la sussistenza del requisito delle disagiate condizioni economiche deve essere svolta con riferimento al momento della presentazione dell’istanza ovvero a periodi di tempo ad esso cronologicamente prossimo (Sez. 5, 24470/2019).

Ai fini della remissione del debito per spese di giustizia e di mantenimento in carcere, il requisito delle disagiate condizioni economiche deve ritenersi integrato - non solo quando il soggetto si trovi in stato di indigenza, ma anche - quando l’adempimento del debito comporti un serio e considerevole squilibrio del suo bilancio domestico, tale da precludere il soddisfacimento di elementari esigenze vitali e compromettere quindi il recupero ed il reinserimento sociale, implica che per la relativa valutazione sia ragionevolmente certa (oltre al dato delle risorse disponibili in capo all’obbligato) l’entità del debito suscettibile di remissione; ciò, avendo primario riferimento al momento della presentazione dell’istanza ovvero a periodi di tempo ad esso cronologicamente prossimi (Sez. 1, 35925/2015).

La condizione di disagio economico richiamata nella disposizione dell’art. 6 DPR 115/2002 non coincide con lo stretto stato di indigenza, ma ricorre quando - pur risultando possibile l’adempimento del debito erariale - ciò determini delle ristrettezze economiche che non consentano al debitore di fronteggiare ordinariamente le proprie esigenze di vita, e così comporti un serio e considerevole squilibrio del bilancio domestico, tale da compromettere il recupero e il reinserimento sociale e, con essi, le finalità costituzionali della pena (Sez. 1, 14035/2019).

Il requisito delle disagiate condizioni economiche, rilevante per la remissione del debito per spese di giustizia e di mantenimento in carcere – deve essere valutato in riferimento alla situazione dell’intero nucleo familiare dell’interessato, essendo ciò consentito, sulla base della giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 12232/2012), previa concreta valutazione dell’effettiva incidenza delle risorse familiari in discorso sulle condizioni individuali di vita del condannato (Sez. 1, 18885/2019).

Il requisito delle disagiate condizioni economiche, previsto dal legislatore a fini di remissione, è da ritenersi integrato non solo quando il soggetto si trovi in stato di indigenza ma anche quando l’adempimento del debito - anche per la sua obiettiva entità - comporti un serio e considerevole squilibrio del bilancio domestico, tale da precludere il soddisfacimento di elementari esigenze vitali e compromettere, quindi, il recupero e il reinserimento sociale (Sez. 1, 13611/2012).

Anche la disponibilità di risorse economiche in grado di soddisfare il debito erariale non esclude di per sè lo stato di disagio economico) allorché l’adempimento del debito determinerebbe per il debitore gravi difficoltà nel far fronte ad elementari esigenze di vita. Di più: sempre secondo un consolidato insegnamento, ricorre il requisito di legge dello stato di indigenza nella ipotesi in cui l’adempimento del debito, comportando un notevole squilibrio del bilancio domestico, determinerebbe una seria compromissione delle possibilità di recupero e di reinserimento sociale dell’interessato (fattispecie in cui è stata preso in considerazione anche il parametro dell’ingente importo delle spese del procedimento) (Sez. 1, 53628/2017).

Le disagiate condizioni economiche vanno riconosciute quanto meno nel caso in cui l’adempimento dell’obbligazione comporti un serio e considerevole squilibrio del bilancio domestico del condannato, tale da compromettere il recupero e il reinserimento sociale del soggetto. Va notato che in questa valutazione non rientra soltanto la situazione economica del singolo condannato, ma si richiede un esame delle condizioni economiche e di vita complessive del medesimo, considerando perciò anche i redditi di congiunti conviventi e lo stile di vita e le spese affrontate. Del resto, questo principio è comunemente applicato nella “contigua” materia del patrocinio a spese dello Stato, dove si richiede appunto di valutare il reddito familiare complessivo. Ma, proprio perché la giurisprudenza fa cenno ad uno squilibrio conseguente al pagamento, occorre ragionevolmente dedurre che l’interpretazione più adeguata del dettato normativo non possa prescindere da un sereno raffronto tra la condizione del condannato instante e l’entità pecuniaria dell’esborso richiesto. In effetti, la remissione del debito è un beneficio di natura economica, strutturato come una forma di rinunzia abdicativa da parte dello Stato ad un proprio credito per ragioni di carattere sociale e pedagogico; è evidente la natura premiale dell’istituto, e tuttavia questa natura - oltre ad essere condizionata alla regolarità della condotta dell’interessato - postula anche la sussistenza di un altro elemento di natura oggettiva, e cioè delle disagiate condizioni economiche. Sicuramente questo elemento è espresso con formula normativa molto aperta, e tuttavia si tratta di una valutazione che deve dedursi da fatti certi. Non occorre che vi sia la totale indigenza: questo è un elemento pacifico e consolidato; nondimeno, occorre che l’interessato versi in una situazione caratterizzata da ristrettezze economiche tali da non consentire di far fronte a fondamentali esigenze di vita, o quanto meno, tali da essere compromesse dal pagamento del debito (Sez. 1, 29346/2016).

Procedimento

La competenza del magistrato di sorveglianza per la remissione del debito, prevista tra le altre dall’art. c.p.p., si svolge nelle forme procedimentali di cui all’art. 666 c.p.p., al quale la prima disposizione opera espresso rinvio. Ciò comporta che, esclusi i casi di inammissibilità de plano indicati dal comma 2 della citata norma, il procedimento debba svolgersi con la partecipazione necessaria delle parti e nel rispetto del principio del contraddittorio che deve permeare tutte le fasi procedimentali, compresa quella - eventuale - dell’istruttoria: infatti l’art. 666, comma 5, stabilisce che il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno e se occorre assumere prove, si procede in udienza nel rispetto del contraddittorio (Sez. 1, 16131/2019).

Opposizione dinanzi allo stesso magistrato di sorveglianza

L’art. 678, comma 1-bis, c.p.p., aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. c), DL 146/2013, convertito, con modificazioni, dalla L. 10/2014, prevede che il magistrato di sorveglianza, «nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata» procede a norma dell’art. 667, comma 4, c.p.p. Ne discende che la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di remissione del debito, adottata senza formalità ossia senza fissare l’udienza in camera di consiglio e instaurare il contraddittorio delle parti, è passibile di opposizione davanti allo stesso giudice e non di ricorso immediato alla Corte di cassazione (Sez. 1, 17273/2019).

Vizi denunciabili in cassazione

Le materie di competenza del magistrato di sorveglianza come quella relativa alla remissione del debito non vengono richiamate dall’art. 236, comma 2, disp. att. c.p.p., sicché in relazione ad esse devono trovare applicazione le disposizioni di cui all’art. 71-ter, che ammettono il ricorso per cassazione solo per violazione di legge (Sez. 7, 33620/2015). In sede di legittimità, pertanto, nelle materie in questione non può considerarsi il vizio della motivazione, ma con riguardo a essa può rilevare esclusivamente la mancanza o mera apparenza, da ciò discendendo infatti una violazione di legge (Sez. 1, 26710/2019).