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Come la Chiesa finì

Distopia letteraria o ineluttabile realtà futura?
Vaticano
Vaticano

Un piccolo caso editoriale, un libro uscito nel 2017 dopo il successo ottenuto dall’Autore con il saggio 266. Jorge Mario Bergoglio. Franciscus P.P. e giunto alla terza ristampa in pochi mesi, che resta oggi più che mai di stringente attualità. Con questo racconto distopico dal titolo perentorio Come la Chiesa finì il giornalista e scrittore Aldo Maria Valli, già vaticanista del TG1 e ora curatore del blog Duc in altum, immagina la narrazione, dal tono ironico e spesso paradossale, di una lenta involuzione: i prossimi mille anni di storia nel corso dei quali la Chiesa cattolica, sotto il pontificato di trenta papi tutti curiosamente di nome Francesco e di nazionalità sudamericana, ha dimenticato in maniera inesorabile il Vangelo ed è arrivata infine all’autodistruzione.

La vicenda, preceduta dalla “profezia di Benedetto XVI”, è rievocata dal Cantore Cieco, un coraggioso personaggio che sfuggendo al controllo dell’Alto Commissariato per la Comunicazione trasmette al lettore memorie e vecchi documenti. Il mondo è ormai governato da Coloro che Amano, entità misteriosa e spietata che affossa qualsiasi libertà. La Chiesa cattolica, nel costante tentativo di rendersi sempre più dialogante, benevola e amica del mondo, va incontro a un risultato devastante, si condanna all’irrilevanza e diventa irriconoscibile. Un dramma per i credenti e per l’umanità intera, perché con la Chiesa cade l’ultimo bastione in grado di difendere la libertà e di opporsi al pensiero unico.

Il lettore, pagina dopo pagina, viene condotto attraverso le varie assurde metamorfosi che lungo i secoli hanno portato alla Chiesa Accogliente, alla Neochiesa, fino alla Nuova Chiesa Antidogmatica, talmente conciliante da giungere a proclamare il Superdogma del Dialogo. L’enciclica Captatio benevolentiae, il Vocabolario della Chiesa Accogliente e un aggiornato Neosillabo sono i tragicomici capisaldi del nuovo corso.

La fine della Chiesa sembra una catastrofe inevitabile, ma sarà davvero così?

 

Di seguito, la prima parte del divertente (e amaro) capitolo “Come fu che la Chiesa decise di andare incontro alla post-postmodernità, ma non vi riuscì”:

In quel tempo, papa Francesco II (l’uruguaiano Daniel Juan Alberto Carlos Alcides Herrera) si pose un problema: come continuare sulla strada della misericordia e del rinnovamento? Come far capire che la Chiesa non avrebbe messo fine al dialogo, e anzi avrebbe solo reso più evidente l’atteggiamento di amicizia verso il mondo?

Il nuovo papa, sulla scorta dei metodi collegiali lodevolmente seguiti dal predecessore, mise all’opera un gruppo di ventiquattro cardinali, il cosiddetto C24, perché studiassero per bene le caratteristiche peculiari della modernità e spiegassero come aderirvi in toto.

E i porporati non lo delusero. In un agile documento di quattromila pagine, Modorum novissimorum, spiegarono che la modernità si riassume essenzialmente in un principio: non Dio, ma l’uomo. Ovvero: non è Dio che decide che cosa è bene e che cosa è male, ma l’uomo; non è Dio che stabilisce le regole, ma l’uomo; non è Dio che giudica ed eventualmente sanziona, ma l’uomo; non è Dio che dona la vita e dà la morte, ma è l’uomo che fa da sé, dandosi la vita e mettendo fine a se stesso come e quando vuole. In altre parole, di Dio non abbiamo più bisogno.

Se la Chiesa, dunque, vuole mettersi al passo con i tempi deve fare una cosa soltanto: parlare il meno possibile di Dio e il più possibile dell’uomo.

Francesco II sintetizzò la lezione dei porporati nell’enciclica Alea iacta est e, con grande applicazione, mise al centro del suo insegnamento l’uomo e i suoi diritti: si interrogò sulle grandi questioni sociali, scese sul terreno della politica e dell’economia. Tutto, insomma, pur di non parlare di Dio.

Le cose per un po’ andarono bene e il mondo sembrò gradire la linea decisamente moderna e progressista assunta dalla Chiesa grazie a papa Herrera, ma presto incominciarono ad arrivare segnali in senso contrario. Le presenze alle udienze e alle cerimonie pontificie, sorprendentemente, presero a calare, così come gli articoli dedicati al papa sulla carta stampata e i servizi in televisione.

La risposta fu unanime: il grande problema stava nel fatto che, lungo questa via, la sua voce era diventata simile a tutte le altre. Non c’era più alcuna differenza tra il capo della Chiesa cattolica e un politico di grido, un capopopolo qualsiasi, un economista o un sindacalista alla moda.

Ma scusate, disse il papa, non era proprio questo il nostro obiettivo? Non volevamo uniformarci al mondo e mettere fine a ogni divisione tra noi e il pensiero dominante? Non era forse nostro desiderio calarci nella realtà temporale fino ad assorbirla?

Sì, dissero i cardinali, ma in questo programma c’era un lato debole. Nessuno aveva fatto i conti con la questione che, mentre la Chiesa cercava faticosamente di adeguarsi alla modernità, la società era già approdata alla post-modernità. Ovvero, la gente si era stancata del progresso e dei suoi miti, e aveva incominciato a guardare al passato, alle buone cose di una volta. Tra le quali, a sorpresa, c’era anche la religione con il suo Dio creatore e giudicante, il suo buon Dio ben piantato all’origine del mondo.

Si decise dunque di seguire una via, per così dire, più prudente. Al centro dell’insegnamento papale c’era sempre l’uomo, ma ogni tanto vi veniva infilato anche Dio.

L’operazione fu chiamata, in codice, Smoke in the Eyes, e i risultati furono incoraggianti: le presenze alle cerimonie incominciarono a risalire, così come le attenzioni da parte di cronisti e commentatori.

Ma durò poco. Nemmeno il tempo di gioire per la ritrovata centralità, ed ecco che di nuovo i segnali si fecero negativi. Un celebre vaticanista americano arrivò a dire che il papa ormai sembrava il segretario generale dell’Onu, la qual cosa fece piacere a Francesco II, perché il suo desiderio era sempre stato quello di appiattirsi sul mondo, ma gli procurò anche qualche preoccupazione: all’epoca infatti c’era chi si chiedeva se non fosse giunto il momento di abolire quel carrozzone inutile e costoso chiamato Nazioni Unite.

Il papa chiamò dunque di nuovo a raccolta i suoi cardinali, i quali, dopo una serie di riunioni a porte chiuse, misero a punto un memorandum, intitolato Ab absurdo, nel quale si chiedevano: ponendo, per assurdo, che la gente abbia di nuovo voglia di Dio e delle cose divine, come ci converrebbe comportarci?

Il dibattito andò avanti a lungo e sembrò a un certo punto che fosse pronta una risposta. I cardinali avevano scritto un apposito testo, intitolato Ab aeterno, per dimostrare che, in fondo in fondo, nella sua irriducibile semplicità d’animo, e nella sua sostanziale impossibilità di dare risposta alle grandi domande sul senso della vita, l’uomo si sarebbe sempre affidato a un dio.

Nel frattempo però l’umanità era già passata a una fase nuova: abbandonata la postmodernità, era approdata alla post-postmodernità, il cui tratto distintivo si poteva riassumere in una sola parola: incertezza. Per l’uomo post-postmoderno, infatti, non vi è nulla di certo e nulla è spiegabile. Il pensiero, da debole che era nella postmodernità, nella post-postmodernità diventa debolissimo, anzi liquido, anzi gassoso, anzi vaporizzato. Nella post-postmodernità un principio unitario non è nemmeno pensabile, così come non è possibile distinguere tra realtà effettiva e virtuale. L’esperienza umana si fa ambigua, incoerente, e procede nel segno dell’indeterminatezza. È immaginabile tutto e il contrario di tutto.

Aldo Maria Valli, Come la Chiesa finì, Liberilibri 2017, collana Oche del Campidoglio, pagg. 156, euro 16.00, ISBN 978-88-98094-41-7.